Drammaturgo, narratore, affabulatore, Massini affronta temi grandi e piccoli della realtà contemporanea ritagliando storie e teatralizzandole. sia nella lunga saga della famiglia Lehman, sia negli episodi esemplari raccontati in pochi minuti, lo strumento decisivo è sempre la modulazione recitante della voce.
Fra i protagonisti della scena letteraria italiana, almeno due hanno conquistato negli ultimi anni una grandissima notorietà internazionale. La prima è naturalmente Elena Ferrante. Della “Ferrante fever” che si è diffusa negli Stati Uniti dopo la traduzione del ciclo L’amica geniale (My brilliant friend) a opera di Ann Goldstein molto si è parlato negli ultimi tempi; di fatto, oltre Atlantico il nome della Ferrante vale oggi come pietra di paragone per qualunque riferimento alle proposte o alle novità librarie provenienti dall’Italia. Il secondo è Stefano Massini, la cui Lehman Trilogy, tradotta in quattordici lingue, ha mietuto consensi e allori in una quantità di paesi. Dopo il felice debutto in Francia nel 2013 sotto la direzione di Arnaud Meunier con la Comédie de Saint-Etienne, quindi a Parigi, al Théàtre du Rond-Point, lo spettacolo è stato, nella magistrale versione di Luca Ronconi, il più notevole exploit del Piccolo Teatro dell’ultimo decennio (oltre che l’ultima fatica del regista, mancato poco dopo). Messa in scena in Germania, in Spagna, in Belgio, la Lehman Trilogy ha poi riscosso un notevole successo, nell’adattamento del drammaturgo inglese Ben Power, al National Theatre di Londra nel 2018, per la regia di Sam Mendes; e il 22 marzo 2019 lo spettacolo approderà finalmente a New York, al Park Avenue Armory (anche se già due anni fa, il 5 dicembre 2016, era avvenuta una presentazione, con partecipazione dell’autore e lettura di alcuni brani, al Graduate Center della City University of New York). In un certo senso, è un cerchio che si chiude: un’opera ispirata alla bancarotta della Lehman Brothers va in scena in un teatro che dista poco più di un miglio dalla sede di Times Square dalla quale il 15 settembre 2008 tanti giovani e rampanti traders uscirono con la coda fra le gambe e gli scatoloni di cartone in mano. Oltre al testo andato in scena edito nella «Collezione di teatro» Einaudi con una prefazione di Ronconi (2014) – esiste una versione più ampia pubblicata da Mondadori nel 2016, Qualcosa sui Lehman, sul cui sottotitolo (Romanzo / ballata) dovremo fra poco tornare.
Stefano Massini ha al proprio attivo parecchie altre opere; testi teatrali principalmente, pubblicati dapprima soprattutto da Ubulibri, poi da Einaudi – Una quadrilogia (L’odore assordante del bianco, Processo a Dio, Memorie del boia, La fine di Shavuoth), 2006; Donna non rieducabile. Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja, 2007 ; Dittico delle Gabbie. La gabbia (figlia di notaio), Zone d’ombra, Versione dei fatti, 2009; 7 minuti. Consiglio di fabbrica, 2013 –, ma anche testi che, come la Lehman Trilogy, viaggiano sul doppio binario della rappresentazione e della lettura, come L’interpretatore dei sogni, andato in scena al Piccolo nel 2017 e poi edito da Mondadori nella «Collezione Scrittori Italiani e Stranieri» (la stessa di Qualcosa sui Lehman).
Ma da qualche mese Massini è diventato anche un volto televisivo grazie al programma settimanale d’informazione Piazza pulita, condotto da Corrado Formigli per La7. A Massini è riservato uno spazio di poco superiore ai cinque minuti, durante i quali egli racconta una storia. Un evento, un aneddoto, un fatto di cronaca, il destino d’un personaggio, ora famoso ora oscuro: la casistica è ampia, svaria dall’infanzia di Bram Stoker (il futuro autore di Dracula) a un modo di dire coniato dal sindaco di Roma Ernesto Nathan, dalle nefandezze coloniali di Leopoldo II del Belgio al pattinatore australiano Steven Bradbury (la più imprevedibile medaglia d’oro delle Olimpiadi invernali, a Salt Lake City 2002), dall’acrobata Karl Wallenda a Làszló József Biro, l’inventore della penna a sfera. Storie brevi, che esaltano il talento affabulatorio del performer, arrangiate nella forma dell’apologo, della favola o dell’exemplum. la conclusione ha sempre il sapore di una moralità, che suggella il racconto facendone un oggetto compiuto, facile da imprimersi nella memoria. Il nesso con il presente non è mai ovvio o scoperto, e il sugo della storia può essere anche paradossale o imprevedibile. Massini agisce come un drammaturgo, non come un cronista o uno storico: l’efficacia di questi brevi monologhi sta tutta nella capacità di selezionare, condensare, dare un senso di coerenza e (appunto) di esemplarità.
Diversa – né potrebbe essere altrimenti – la struttura delle opere più impegnative, a cominciare dalla Lehman Trilogy, o dal più recente 55 giorni. L’Italia senza Moro. Volti, immagini, storie di un paese in bilico (Il Mulino, 2018), con cui Massini ha contribuito al quarto decennale dell’eccidio di via Fani e dell’uccisione del presidente della De. In entrambi i casi, a ben vedere, Massini adotta una strategia di dislocazione. Se si occupa dei Lehman, è per via del crac del 2008; ma oggetto della narrazione è la parabola della famiglia Lehman, centocinquant’anni di storia, dalla metà dell’Ottocento, quando tre fratelli ebrei originari di Rimpar, Baviera, si stabiliscono a Montgomery, Alabama, fino alla fine del Novecento, con la Lehman Brothers divenuta uno dei colossi della finanza americana. Così, 55 giorni non parla del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro o del contesto politico di quegli eventi, bensì di quello che succedeva in Italia quell’anno: le canzoni, la pubblicità, la legge 180, il campionato, il Giro d’Italia. L’abilità del narratore sta nello scoprire – o nell’istituire – corrispondenze e paralleli, coincidenze e antitesi. Mentre in Francia viene messa definitivamente in soffitta la ghigliottina, in Italia le Brigate Rosse, eliminando il leader del partito di maggioranza relativa, decapitano il sistema politico. Mentre si aprono le porte dei manicomi, sul palco di Sanremo si esibisce un personaggio che sembra imitare il cliché del matto d’altri tempi – quel folletto bizzarro e graffiarne che rispondeva al nome di Rino Gaetano. Del resto i quasi coetanei Franco Basaglia e Renato Curcio, il fondatore delle Br, pur così diversi fra loro, erano accomunati dal proposito di combattere un’ideologia dominante, anche se poi adottavano metodi contrapposti (da un lato l’inclusione sociale, dall’altro la clandestinità e la lotta armata). Mentre i rapitori di Moro aspirano a mettere a nudo il sistema, a strappare il velo di un’apparenza falsa e illusoria, gli slogan pubblicitari del tempo sollecitano il consumatore a guardare con i propri occhi, a constatare di persona, a non fidarsi delle apparenze. E così via discorrendo: non senza il rischio che l’acume dell’osservatore postumo sfiori di tanto in tanto la capziosità.
Parlando della Lehman Trilogy, la critica anglosassone ha chiamato in causa il precedente degli spaghetti western: come Sergio Leone, Stefano Massini è un italiano affascinato dall’impresa di raccontare un volto dell’America. E in effetti la storia della famiglia Lehman è anche un bel pezzo di storia del capitalismo statunitense, dagli albori al trionfo, dalla crisi alla ripresa, dall’espansione vertiginosa al tracollo – del quale comunque la narrazione non indaga le cause, limitandosi a una succinta evocazione finale. Per inciso, a parte le analisi di taglio specialistico, sarebbe interessante confrontare quest’opera con altre narrazioni ispirate al crac del 2008. Il cinema ha fatto molto, cercando di illustrare i nodi economico-finanziari e puntando sul drammatico precipitare degli eventi. Si pensi per esempio a La grande scommessa (The Big Short) di Adam McKay del 2015, ma si potrebbero citare almeno una decina di altri titoli. Massini si è posto un obiettivo assai diverso. L’economia per lui conta meno dell’etica. E infatti la storia che racconta è un’epopea moderna, che ha tutta la solennità e la gravità dell’epica antica: una parabola sul lavoro, sulla famiglia, sui rapporti tra figli e padri, sulla religione, dove vizio e virtù, laboriosità e ambizione, abnegazione e avidità appaiono inscindibilmente interconnessi. Da questo punto di vista, netto è il divario rispetto ai brevi racconti di Piazza pulita, giocati su una individuazione di temi e di ruoli che potrebbe suggerire perfino un piccolo breviario morale (Bram Stoker ovvero la paura, Steven Bradbury ovvero la fortuna eccetera).
I punti di forza dello stile di Massini mi paiono due: la concisione e l’iterazione. Entrambi dipendono dalla scelta strategica di rinunciare alla prosa lineare a favore di cadenze che assomigliano meno al verso propriamente inteso che ai versetti dei libri poetici della Bibbia. Non a caso il sottotitolo di Qualcosa sui Lehman suona Romanzo / ballata. In verità Massini s’inserisce nella recente tradizione italiana della narrazione in versi, che da Ludovica Ripa di Meana (La sorella dell’Ave, Camunia, 1992; Rosabianca e la contessa, ivi, 1994; Marzio e Marta, il Saggiatore, 1998) a Dario Voltolini (Pacific Palisades, Einaudi, 2017) conosce una sua appartata ma fiorente vitalità, e che io tenderei a distinguere dalla poesia narrativa (Pagliarani e Bertolucci, per intenderci). Fatto sta che scrivere in una forma diversa dalla prosa distesa suggerisce – stavo per dire: impone – una selettività e un’economia di parole quanto mai salutari in un’epoca in cui gli scrittori sembrano ammaliati dalla quantità. Inoltre l’uso accorto delle ripetizioni, ora a breve, ora a grande distanza, accresce la gravità del tono, producendo un effetto che ha qualcosa di liturgico. Forte rimane quindi, nell’insieme, il nesso con la dimensione dell’oralità. Il romanzo-ballata è fatto per essere recitato: messo in scena, se possibile, o almeno scandito mentalmente, osservando pause e intervalli.
Fra gli scrittori che hanno esordito in questo secolo, Stefano Massini è senza dubbio una delle voci più convincenti. E non sarà un caso se si tratta di una voce teatralizzata, anche quando non si esprime in forma direttamente drammaturgica: una voce capace – cosa rara di questi tempi, e preziosa – di significare anche con i silenzi e gli spazi bianchi.