Tra i titoli più significativi della stagione 2017-18 spiccano tre libri di donne che narrano storie di donne: La ragazza con la Leica di Janeczek, Le assaggiatrici di Postorino, L’animale femmina di Canepa. Storie in cui la centralità della figura femminile è contesa fra tensioni opposte e complementari: da un lato c’è la rivendicazione profonda, più o meno esplicita, del diritto a un pieno godimento dell’esistenza; dall’altro questa rivendicazione fa tutt’uno con la messa in scena di condizioni di costrizione.
Fra i titoli più significativi della stagione letteraria 2018, non a caso vincitori di alcuni fra i premi maggiori, spiccano tre libri di donne che narrano storie di donne. Al di là di questa banale evidenza, sono storie in cui l’indubbia centralità della figura femminile, nel suo protagonismo a prima vista conclamato, appare contesa fra tensioni opposte e complementari. Da un lato, infatti, la rappresentazione della donna tende a farsi carico di una rivendicazione profonda, più o meno esplicita, del diritto a un pieno godimento dell’esistenza, della spinta a un’affermazione di sé finalmente libera da vincoli psicologici e materiali. Da un altro lato, però, proprio l’evidenza della richiesta di libertà fa tutt’uno con la messa in scena estensiva di condizioni di costrizione, diversamente declinate ma sempre evidenti, che vanno dalla sudditanza psicologica alla prigionia vera e propria, fino a implicare il rischio quotidiano della vita stessa. En passant, è d’obbligo notare che alcune fiction televisive recenti di grande successo hanno come tema proprio la rappresentazione sistematica di donne in condizioni di estrema coercizione: penso a Orange is the New Black (Netflix, dal 2013), tratto dalle memorie di Piper Kerman, ambientata in un carcere femminile, e a The Handmaid’s Tale (Hulu, dal 2017), tratta dall’omonimo romanzo distopico (1985) di Margaret Atwood, che racconta un futuro ipotetico in cui gli Stati Uniti sono governati da un regime totalitario e teocratico, dove tutte le donne sono schiavizzate e destinate alla riproduzione.
Proverò qui a ragionare su tre romanzi pubblicati tra l’ultimo scorcio del 2017 e il 2018: La ragazza con la Leica di Helena Janeczek (Guanda, 2017, premio Bagutta e premio Strega 2018); Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018, vincitore, con distacco abissale, del premio Campiello 2018); L’animale femmina di Emanuela Canepa (Einaudi, 2018, ma pubblicato dopo la vittoria al premio Calvino 2017, conquistato all’unanimità). Accolti da un ampio consenso della critica e, specie nel caso della Postorino, anche da un notevolissimo successo di pubblico, questi libri hanno certo avuto un peso fondamentale nel dare sapore e spessore all’ultima stagione letteraria. Al di là delle molte specificità, su cui mi soffermerò fra poco, essi dispiegano non poche corrispondenze incrociate, che credo valga la pena di ricordare, per quanto corsivamente. Anzitutto, Le assaggiatrici e L’animale femmina sono due romanzi di fiction, raccontati, in prima approssimazione, da una figura femminile che è narratore interno, protagonista, e che… si chiama Rosa: più precisamente Rosa Sauer, nel primo caso, e Rosita Mulè nel secondo. La corrispondenza dei nomi, benché casuale, o meglio non causale (Jung forse parlerebbe di “sincronicità”…), non è priva di effetti. Infatti, il nome “Rosa” non cessa di evocare qualcosa come la quintessenza della femminilità, quasi impercettibile, dissimulata provocazione, ultimo residuo, forse a contropelo, di secoli e secoli di Rose letterarie, volta a volta angelicate o demonizzate, pure o carnalissime, la cui sessualità viene comunque evocata dal fin troppo archetipico “fiore”: da Ciullo d’Alcamo, a Shakespeare, da Ronsard e Malherbe, ai dannunziani Romanzi della rosa, a Gozzano, a Campana e, ça va sans dire, a un oceano di canzonette. Nel caso della Postorino, che si chiama Rosella, la scelta del nome si screzia pure di suggestioni autobiografiche. Comunque la si voglia considerare, la scelta del nome chiama in causa qualche non innocente granello di significato: il titolo della Canepa, del resto, non lascia in questo senso dubbi.
Ancora, Le assaggiatrici fa perno su una condizione di costrizione assoluta, che si confronta costantemente con la vita e con la morte: Rosa ha fame a causa della guerra, e facendo l’assaggiatrice del Fuhrer può sfamarsi con abbondanza; ma correndo un rischio enorme, perché ogni pasto potrebbe essere l’ultimo. Tornerò più avanti sul nesso vita-morte, che si fa vero e proprio cortocircuito, dove l’autrice mostra supremo sprezzo del pericolo, perché davvero la materia corre sul filo di rasoio del patetismo orrorifico. Anche Inanimale femmina ci parla continuamente di una condizione di costrizione, assai più soft, ma non meramente psicologica: perché Rosita ha materialmente bisogno del suo datore di lavoro, l’avvocato Ludovico Lepore, scapolo settantaseienne, che lo sa e ne approfitta, tormentandola sottilmente e stabilendo un rapporto di dipendenza in cui, con spietata sobrietà, Canepa mette in gioco una dinamica aguzzino-vittima, incruenta ma flagrante, sottilmente crudele. Anche la Postorino mette in gioco un aguzzino, che in questo caso è un aguzzino vero, il tenente Ziegler: che prima rende più aspra, poi colora di tormentosa felicità possibile la vita di Rosa, segregata a Gross-Partsch, nella Wolfsschanze, la Tana del Lupo del Fuhrer. È d’obbligo notare, oltre alle evidenti differenze di tema e di tono, anche una decisiva differenza strutturale fra i romanzi di Postorino e di Canepa: se infatti Le assaggiatrici, coraggiosamente, sfida gli estremi dall’inizio alla fine, lasciando Rosa sempre al centro della narrazione, Lanimale femmina invece, dopo poco meno di cinquanta pagine, apre una seconda linea narrativa, che si svolge circa sessantanni prima della storia principale, tra il 1958 e il 1960: riguarda, stavolta, la giovinezza dell’avvocato Lepore, e viene narrata da un narratore esterno, che a tratti assume la prospettiva del personaggio. Vedremo meglio più oltre alcuni effetti di questa costruzione.
Le storie narrate da Janeczek e Postorino sono poi entrambe ambientate al tempo del nazismo, e in costante relazione con vicende di guerra: rispettivamente la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale. E se il libro di Janeczek, almeno in prima approssimazione, è una biografia, cioè una ricostruzione storica (vedremo quanto e in che senso romanzata), Le assaggiatrici muove dalla scoperta inquietante di una vicenda reale, quella di Margot Wolk, che fu davvero una delle assaggiatrici dei cibi di Hitler: a lei l’autrice fa esplicito riferimento, esprimendo il rammarico di non aver potuto conoscerla direttamente. Forse il libro non sarebbe cambiato, ma l’intenzione di restare ancorati alla Storia reale non è certo dettaglio da poco.
Ripartendo da La ragazza con la Leica, è d’obbligo constatare che, fin dall’esordio con Lezioni di tenebra (1997,20112), la Janeczek (nata a Monaco di Baviera, nel 1964, in una famiglia di ebrei polacchi naturalizzati tedeschi) ha costruito una sua peculiare via narrativa alla Storia, programmaticamente colta di scorcio, attraverso l’aggancio a vicende familiari e lato sensu autobiografiche. A prima vista questo suo ultimo, importante libro funziona in tutt’altro modo. Ma vedremo che le cose non stanno esattamente così. Facile, fin troppo ovvio dire che il libro della Janeczek ha una protagonista non autobiografica che non può essere narratrice: Gerda Taro, all’anagrafe Getta Pohorylle, è infatti morta tragicamente a Brunete il 27 luglio 1937, poco prima del suo ventisettesimo compleanno. Proprio la morte precoce della protagonista, in drammatico contrappunto con la sua travolgente vitalità, è una molla fondamentale di una costruzione narrativa programmaticamente composita, tesa ad afferrare proprio ciò che non può essere afferrato: l’assoluta singolarità di un’esistenza, e ancora più di un’esistenza eccezionale, che ha lasciato tracce profonde nelle vite altrui, anche se finita tanto presto, e un po’ anche perché finita tanto presto. Ma il nocciolo di una vita, di questa come di tutte, resta qualcosa che per definizione è irraggiungibile: come la vita stessa, come il tempo che fugge, come l’immagine di un momento che si sarebbe voluto fotografare, senza però fare a tempo: come accade nelle ultimissime battute del libro: «“Quello sarebbe stato da fotografare.” / “Ach! Ormai chissà dov’è…”» (p. 330).
Credo sia un po’ troppo dire, come pure è stato detto, che in questo libro Gerda non esiste. Diciamo piuttosto che Gerda può essere raggiunta solo in modo laborioso e mediato, attraverso i documenti, sì, non però ripresi nella loro problematica oggettività, bensì affidati alle voci di tre narratori interni testimoni, cioè alle memorie incarnate di persone che hanno visto da vicino e amato profondamente Gerda. Agli estremi, primo e terzo narratore, due uomini innamorati di lei: Willy Chardack, illustre cardiologo, emigrato negli Stati Uniti, che da giovane aveva dovuto subito cedere il posto al più avvenente e affascinante Georg Kuritzkes, che è anche il terzo narratore, ora funzionario della Fao di stanza a Roma, amante di Gerda per un breve periodo, poi soppiantato dall’irresistibile fascino zingaresco di Endre Friedmann, meglio noto come Robert Capa, il re dei fotografi di guerra. Fra di loro, seconda voce narrante interna, Ruth Cerf, amica fin dall’adolescenza di Gerda. Quest’ultima ricorda Gerda da una distanza temporale e spaziale molto limitata, cioè nel 1938, pochi mesi dopo la sua tragica scomparsa, e da Parigi, dove tante vicende aveva condiviso con lei. Nella costruzione narrativa di Janeczek invece Chardack e Kuritzkes ricordano insieme, ormai lontani nel tempo e nello spazio, rispettivamente da Buffalo e da Roma, nel corso di una lunga telefonata che si sarebbe svolta nel 1960, o piuttosto a partire da questa.
A Willy, Ruth e Georg sono affidate le strutture portanti della narrazione. Benché sorretta da attenta, capillare documentazione storica, la costruzione delle voci narranti è dunque profondamente letteraria: la soggettivizzazione del racconto (en passant: un aspetto fondante della narrativa contemporanea: Auerbach docet) è infatti frutto dell’invenzione dell’autrice, che si incarica di sorreggere tutto il narrare dei tre amici con la propria penetrante comprensione psicologica. In realtà la struttura narrativa è ancora più complessa, perché in ogni franche assistiamo a molti slittamenti temporali, in un succedersi di piani prospettici che s’intrecciano e si sovrappongono in continuazione. L’operazione dà luogo a un andamento quasi divagante, programmaticamente frammentato, di indubbio fascino, ma non sempre perspicuo. Persino il lettore esperto può fare a tratti un po’ di fatica a ricomporre le continue oscillazioni della narrazione, anche perché, come in un romanzo russo, le stesse persone vengono evocate con nomi diversi (nome anagrafico, cognome, nome tradotto o adattato, nomignolo per gli amici, nome d’arte, cognome d’arte, diminutivo, diminutivo del soprannome…): un artificio che certo serve a sospingere il lettore nel mezzo della storia, nel punto di vista di chi rivive le vicende ben conoscendo le figure che vi prendono parte. Ad ogni modo, Gerda è sempre vista dagli altri. Lei non può parlare, e, di più, il sogno dichiaratamente impossibile di afferrarla impone all’autrice una discrezione e un pudore più radicali, impedendole di farsi direttamente carico di una verità troppo ardua per essere detta.
A ben guardare, però, le cose non stanno proprio così. A complicare ulteriormente il quadro enunciativo, infatti, un ruolo strategico è affidato al Prologo e all’Epilogo, il cui statuto narrativo è diverso da quello del resto del libro. Nel Prologo accade, anzitutto, che Gerda possa, sia pure per poco, condurre il discorso per via di immagine: dopo poche righe infatti il libro mostra una foto da lei scattata a una coppia di amanti, che consente di raccontare, attraverso le analogie e le differenze con la foto scattata da Robert Capa alla stessa coppia pochi istanti dopo, qualcosa come la felicità stessa di Gerda e Robert: la cui foto, in corrispondenza speculare, compare Epilogo, dove la narratrice prima, cioè la voce autoriale della Janeczek stessa, si mette in campo in modo più marcato. Infine, proprio nell’ultima pagina l’autrice rivela, dando l’unico, ma definitivo strappo al suo estremo pudore, quanto di autobiografico c’è, o potrebbe esserci, nella storia di Gerda Taro, dicendosi ormai costretta «a usare la prima persona. I miei genitori si sono fidanzati nel ghetto, si sono ritrovati dopo la guerra, si sono amati e, a tratti, odiati, divertiti e sopportati, finché morte non li ha separati. Mia madre, che di Gerda aveva la coquetterie testarda, avrebbe potuto esserne una cuginetta. Mio padre, grande affabulatore come Capa, un fratello minore» (p. 330). Helena, in altre parole, ribadisce che non può identificarsi con la Taro, ma ci dice senz’altro che potrebbe essere sua figlia. Proprio questa parentela, inesistente eppure fondata, appare come la conditio sine qua non per quella dose assai consistente di empatia che rende nonostante tutto praticabile la mission impossibile di raccontare Gerda, legittimando la soggettivizzazione, pur con tutte le cautele del caso, e lo stesso ricorso all’immaginazione, senza la quale i documenti, e persino la memoria, sarebbero vuoti e muti: «No, non fatico a immaginare Robert Capa e Gerda Taro» (ivi).
Il sogno di afferrare Gerda diventa così anche, in modo implicito ma profondo, un discorso sulla letteratura: sulla sua impotenza, in prima approssimazione, che però finisce per diventare la strada più vera per arrivare di scorcio a una verità che comunque nessuno mai sarà in grado di possedere. Da questo punto di vista, a mio avviso, il libro di Janeczek è anche e proprio un libro sulla irriducibile forza della letteratura, che dà forma al ricordo: perché «per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione» (pp. 324-325). Su questo assunto di partenza si colloca anche la fittissima rete di affermazioni di carattere generale, di aforismi distribuiti un po’ dovunque nel libro: aforismi che sarebbe giocoforza attribuire in definitiva alla narratrice, ma che pure appaiono sistematicamente connessi al punto di vista, volta a volta attivo, dei personaggi principali e non di rado di Gerda stessa, delineando una sorta di discorso indiretto libero capillarmente diffuso e tuttavia dissimulato. A cominciare da questa strategica dichiarazione di principio: «Vivere a tutti i costi, ma non a ogni prezzo» (p. 145). E ancora: «Resistere è fare finta di niente, resistere è recitare» (p. 188).
Alla fine il ritratto di Gerda risulta davvero ricchissimo, sfumato e potente, coerente nella sua mobilità: col suo «bisogno di divertirsi» (p. 41), la frequenza e l’intensità ammalianti del suo riso e del suo sorriso (un autentico topos), la capacità di godere (come «un felino», p. 48), la «luminosità» (p. 51), «il suo fascino e la capacità di sfuggir [e]» a chiunque (p. 53), la capacità di attrarre «tutti gli sguardi, questa incarnazione di eleganza, femminilità, coquetterie» (p. 112), la civetteria (p. 267), la spregiudicatezza sentimentale e sessuale («era e restava leggera, in tutti i sensi, anche in quelli traslati e meno lusinghieri», p. 85), «la sua intoccabile spensieratezza» (p. 208) e però anche la sua capacità di amare, «la prontezza al cambiamento» che «la faceva apparire sempre uguale a se stessa» (p. 266), l’intolleranza per la monotonia (pp. 157-158), la sincerità «sino a far male» (p. 58), il talento di fotografa, la «sveltezza e gioia concentrata» nel lavoro (p. 44), il coraggio al limite della temerarietà (pp. 189, 232), «quel particolare senso estetico che collimava con il suo senso di giustizia» (p. 298), e infine, last but not least, quella stessa miscela irriducibile di etica e cinismo che la rende un perfetto fotografo di guerra. Gerda Taro diventa così un emblema, ma concretissimo, della forza assoluta della vita e della gioia irriducibile di viverla, della necessità di valorizzarla senza mezzi termini, finché c’è: come la sua morte precoce non finisce di ribadire: «Quella morte ottusa strideva così ferocemente con l’ingegno di Gerda per la vita» (p. 102); e ancora: «Gerda la temeraria, l’imprevedibile, la volpe rubia, che non rinuncerebbe a qualsiasi morso di felicità si possa rubare al presente» (p. 215).
Le assaggiataci di Rosella Postorino (nata a Reggio Calabria nel 1978, cresciuta in Liguria, ma residente a Roma dal 2002; al quarto romanzo) avvince il lettore con la scelta temeraria di portarci subito al centro dell’orrore: cioè del nesso conturbante fra il bisogno invincibile di mangiare e il connesso rischio di morire. Più sottilmente, con malizia e abilità, la Postorino mette in gioco tutta una costellazione di spinte fisiologiche e pulsionali: mangiare, certo, ma anche mordere, succhiare, assaporare, creando una rete di corrispondenze inattese, sulle quali la narrazione continuerà a fare perno, caricandosi d’intensità. Così, se da un lato l’amore si caratterizza presto come «una bocca che non morde» (quella del marito Gregor, sul fronte all’epoca della narrazione principale, p. 14), sovrapponendo la voglia di mangiare e il desiderio sessuale (p. 21), d’altro lato la relazione con gli affetti familiari si colloca subito sotto il segno della congiunzione fra oralità e senso di colpa (i pezzi di filo della madre sarta infilati in bocca e ingoiati, p. 27; una monetina nascosta in bocca; il morso violento alla manina del fratello minore, p. 28), e del necessario rapporto fra «colpe» e «segreti» (p. 29), includendo fin dal primo momento, cioè prima ancora della vicenda delle «assaggiatrici», la possibilità che ciò che ci fa vivere, e a cui non potremmo resistere, sia anche ciò che può ucciderci: «Mia madre diceva che quando si mangia si combatte con la morte» (p. 12). Ne deriva una costante, violenta sovrapposizione di fondo fra la vita e il rischio di morte, con chiari effetti drammatizzanti, che la condizione di Rosa esalta all’estremo, e che viene ulteriormente complicata (con una curvatura narrativa e ideologica quanto mai femminile) dalla conseguente problematizzazione della maternità: se infatti Gregor è riluttante ad avere bambini («Diceva che mettere al mondo una persona significava condannarla a morte», p. 62), Rosa invece lo desidera, pur sapendo che «Se fossi rimasta incinta, avrei nutrito il figlio nel mio grembo con il cibo della mensa […] / Avrei rischiato di avvelenare il bambino, saremmo morti tutti e due. O saremmo sopravvissuti» (ivi). La drammaticità estrema della condizione di Rosa viene inoltre ulteriormente complicata dalla sua difficoltà a integrarsi con le altre nove assaggiatrici: sia perché percepita apertamente come una cittadina (Rosa ha vissuto fino a poco prima a Berlino), sia perché fatica a condividere l’entusiastica fede nazista delle compagne. In realtà, almeno con una di esse, Elfriede, Rosa riesce a stabilire un controverso rapporto, se non di amicizia, di riconoscimento reciproco della rispettiva umanità. Inoltre, tutte le donne del romanzo vivono in una condizione di subordinazione ai maschi e al potere che incarnano. Nonostante tutto, Rosa continua ad avere voglia di vivere: finché però riceve la lettera ufficiale che le comunica che il marito Gregor è disperso, e dunque probabilmente morto. Quando, con la seconda parte del romanzo, compare la figura di un più feroce aguzzino, il tenente Ziegler, Rosa potrà tenergli testa, almeno sul piano morale, proprio perché non ha più «motivi per vivere. Ecco perché Ziegler non mi faceva paura. / Lui l’aveva vista, la mia inclinazione alla morte, e aveva dovuto distogliere lo sguardo» (p. 97). In questo, solamente in questo, i rapporti di forza si invertono, e il romanzo lentamente ruota sul manifestarsi, non inopinato, dell’attrazione fatale di Ziegler verso Rosa, presto corrisposta. L’avvio di una relazione amorosa accentua le contraddizioni della protagonista in una nuova direzione: perché, facendole ritrovare ragioni per vivere, d’altro canto fa crescere «la lista delle colpe e dei segreti» (p. 136), al punto di farle credere che il marito possa essere morto in qualche modo proprio a causa del suo tradimento. La Postorino è brava a mettere in gioco un ventaglio articolato e complesso di sentimenti ed emozioni, cui corrisponde una tensione narrativa mai allentata. Nel complesso, però, lo spostamento di accento dal terrore quotidiano alla relazione amorosa rischia di accantonare buona parte dell’ambiguità, attuale e potenziale, della situazione narrativa, pure così gravida di significati, energicamente evocati: le componenti di crudeltà si vanno così decisamente smussando, e la dinamica esplosiva dell’incrocio fra attrazione e disparità, fra amore e prigionia, si ammorbidisce fin quasi a spegnersi. Postorino però è ancora brava a rialzare la tensione narrativa: con il sospetto di una gravidanza di Rosa (pp. 243-246), con le vicissitudini della sua fuga, favorita da Ziegler, e con un finale insieme a sorpresa e in fading, che elude ogni rischio di un troppo facile idillio.
L’animale femmina di Emanuela Canepa (classe 1967, bibliotecaria, romana di nascita e padovana di adozione) è un esordio di sorprendente maturità stilistica e strutturale. Se la storia di Gerda Taro aveva mostrato anche una figura di donna libera da condizionamenti parentali, e il romanzo della Postorino aveva fatto balenare una madre angosciosa, poi rimpiazzata dalla suocera, quello della Canepa mostra un rapporto non meno conclamato fra i sensi di colpa della protagonista Rosita e la sua difficoltà a liberarsi dall’ingombrante presenza materna, per riuscire così a vivere finalmente la propria vita. Ricordiamo anche le motivazioni della giuria che ha attribuito a L’animale femmina il premio Calvino, all’unanimità, giudicandolo romanzo «compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua», capace di mettere «in campo uno spiazzante gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile». Fondamentale nella costruzione del romanzo è però anche l’attivazione di una seconda linea narrativa, cui accennavo poco sopra, dove Rosita smette di essere protagonista. A prima vista, la vicenda di Rosita assunta nello studio dell’avvocato Lepore potrebbe lasciar supporre possibili implicazioni sessuali riguardanti la protagonista e narratrice; invece Canepa apre a sorpresa un’altra storia, completamente diversa, che s’intreccia con la prima, contrappuntandola e spingendola di colpo lontanissima da qualsiasi soluzione immaginabile dal lettore: la storia dell’intenso, contrastato amore omosessuale di Ludovico adolescente per l’amico Guido. Scopriamo così come Ludovico è diventato quello che è, e come le malizie con le quali esercita il suo potere siano intrecciate a filo doppio con la sua ormai remota ma mai sanata disillusione sentimentale: di cui è responsabile non solo l’amico, ma anche lui stesso, bloccato nell’incapacità di godere pienamente dell’esistenza. Il romanzo ne ricava una nuova spinta narrativa, che prende spazio e peso crescenti, producendo uno spostamento del centro tematico dalla Bildung di Rosita all’educazione sentimentale di Ludovico, ancora dolorosamente irrisolta. In questo modo, la storia passa dalle difficoltà e fragilità della donna, esposta a tutte le sottili violenze del proprio capo, alle fragilità, ancora più profonde e forse definitive, del supposto uomo forte. Così facendo Canepa lascia un po’ per strada la maturazione di Rosita, e inventa uno scioglimento narrativo inatteso (cui contribuisce la stessa protagonista), aprendo a una possibile parziale pacificazione, ma senza cedere a nessuna tentazione consolatoria. La libertà delle femmine, ora lo sappiamo un po’ meglio, è certo problematica: ma anche quella dei maschietti non scherza…