Cinquanta sfumature di rosa

La “galassia rosa” degli anni Duemila, quanto più si emancipa dalla marginalità delle collane da edicola e dalla fruizione esclusiva delle lettrici meno attrezzate culturalmente, tanto più si arricchisce di nuove sfumature, declinazioni e sfaccettature, soprattutto a opera di autori di recente esordio nel mondo dell’editoria libraria. Intanto, il nuovo canone del genere firmato dai veterani Fabio Volo e Federico Moccia sdogana il lieto fine più tradizionale, dove sorprendentemente parole come figli matrimonio casa non suonano più come istanze datate e – soprattutto – a esclusivo appannaggio della “parte di lei”.
 
E poi non dite che non vi avevamo avvertiti. Nell’anno dei fenicotteri e delle bambine ribelli, Babi è tornata (o come avrebbe scritto Liala, ecco “Babi che torna”).
Il sospetto che Federico Moccia si sarebbe tenuto aperta la possibilità di un ritorno al passato, ma più ancora che una storia d’amore di straordinario successo di pubblico come quella inaugurata con Tre metri sopra il cielo necessitasse di “chiudere il cerchio” con una autentica cadenza, l’avevamo avuto in tempi non sospetti, già dopo l’uscita dell’opera seconda Ho voglia di te, con il cambio in corsa della protagonista femminile, non più Babi ma Ginevra detta Gin: «Possiamo sempre sperare in un terzo capitolo in cui […] “Babi ritorna”» (Tirature ’07). E in effetti, dopo una serie di altri testi più o meno fortunati e almeno un paio di cambi di editore, Moccia è arrivato in libreria con Tre volte te, ovvero – come recita il sottotitolo in copertina (e ripete la fascetta) – Il ritorno di Babi, Step e Gin.
Già gli elementi paratestuali del volume concorrono a rassicurare i lettori che sì, con questo romanzo saranno nuovamente immersi nelle atmosfere del bestseller 3MSC (perché si sa, «non si interrompe un’emozione»): la grafica di copertina occhieggia alla cover «fragole&nuvole» dell’edizione «del 1992!» e il titolo è una furba (anche se un po’ cacofonica) allusione a Tre metri sopra il cielo mixato a Ho voglia di te. Ma la rassicurante operazione nostalgia è concepita in maniera estremamente coerente, non soltanto a livello di packaging librario: quasi evocati dalla voce narrante di Step, nel corso della corposa narrazione – 720 pagine, nell’edizione cartacea – ricompaiono personaggi, luoghi, situazioni e stilemi che il lettore già “moccioso” ben riconosce (oltre ai protagonisti, i loro familiari e colleghi, con il proprio portato di storie di contorno; la città di Roma; oggetti marchi cibi espressioni caratterizzanti, à la manière de Moccia) e si riannodano fili e situazioni lasciate sospese (con tanto di disvelamento-colpo di scena sulla morte dell’amico Pollo, avvenuta nel primo capitolo di quella che ormai è a tutti gli effetti una trilogia, seppure molto diluita nel tempo).
Moccia è anche questa volta piuttosto abile nella gestione del ricco materiale narrativo e, pur dando spazio e respiro anche alle trame secondarie, non si allontana mai troppo dalla vicenda cardine, ovvero il triangolo tra i protagonisti, Step Babi e Gin. Seguendo questa linea privilegiata, a suon di successive agnizioni e “scene madri”, quasi come in un moderno feuilleton (Step e Babi hanno avuto un figlio che però è cresciuto con l’ignaro marito di lei, e la ragazza glielo rivela sei anni dopo; Step decide comunque di sposare Gin; i due ex ricominciano a frequentarsi clandestinamente; Gin scopre il tradimento, ma – con opportuno tempismo, sia detto con una punta di cinismo – muore poco dopo aver dato alla luce la loro bambina), si perviene all’inevitabile lieto fine, forse non proprio rosa-canonico – Step e Babi daranno vita a una molto contemporanea famiglia allargata, peraltro con il consenso della defunta che affida la figlia alla nuova coppia – ma certo confortante, soprattutto per i fan della prima ora. La parabola complessiva viene efficacemente riassunta dal protagonista con queste parole: «Ho tentato disperatamente di dimenticarla, innamorarmi di nuovo, ma adesso basta, devo mettere da parte l’orgoglio, devo accettare che quest’amore è più forte di tutto, della volontà, perfino del destino che aveva deciso altro per tutti e due. “Babi, Babi, Babi. […] Lo ripeto tre volte perché voglio essere sicuro che non sto sognando, tre volte te”».
Nello stesso anno bisesto, puntuale come sempre per le strenne invernali, con corollario di assalti ai firmacopie e scalata delle classifiche, esce il nuovo capitolo della Fabiovoleide, Quando tutto inizia. Nonostante il titolo incipitario, anche la storia di Gabriele, pubblicitario allergico alle relazioni stabili che in maniera inaspettata si innamora di Silvia, la sua amante sposata, e si ritrova così curiosamente nella posizione di essere lui quello che “vuole di più” dalla donna, ha comunque molto a che fare con l’happy end più classico che, anzi, finisce quasi per tematizzare. Forte della sua lunga backlist di trentenni refrattari all’impegno nei rapporti uomo-donna, l’autore proprio con la storia di un amore clandestino («una pausa dalle nostre vite» tratteggiata con il riconoscibilissimo “stile Volo”) arriva a celebrare infine la coppia istituzionale e «la potenza della felicità condivisa».
L’imprevista e assoluta chiusura della donna in risposta alla sua dichiarazione d’amore costringe infatti Gabriele ad affrontare i propri desideri profondi e a rimettere in discussione l’ordine delle priorità, in un’intensa, finale Bildung solitaria, cui il contributo di Silvia – soprattutto quello in absentia – risulta essenziale:
«Il confronto non era più con lei, ma con me stesso», «Ero arrivato al punto in cui non potevo più sottrarmi a me stesso». Così, al termine di un percorso autocoscienziale per la verità non più lungo di un paio di capitoli, complice l’illuminante spiegazione del collega neosposo – «Vedi che non capisci? Hai sempre vissuto da cane sciolto, non te la puoi nemmeno immaginare la potenza di quel “noi”» –, la prospettiva del protagonista muta, come abbiamo modo di scoprire nella coda del romanzo, significativamente collocata sei anni dopo, durante un incontro casuale dei due ex amanti in un negozio; Gabriele, che è ora felicemente sposato e accompagnato dalla moglie, conclude: «Senza quello che avevo vissuto con Silvia non sarei stato in grado di amare Susanna come la amo adesso, non sarei stato in grado di desiderare un figlio, di desiderare una famiglia. […] Il trasporto che avevo provato per lei mi aveva fatto uscire da me stesso, dal mio centro».
È da segnalare come Volo e Moccia, che in fondo rappresentano una sorta di “nuovo canone” delle storie rosa degli anni duemila, in queste prove più recenti sembrano non disdegnare una chiusa tutto sommato molto tradizionale, in cui parole come figli matrimonio casa non suonano (troppo, o non più) come istanze datate, tipicamente confinate ai desiderata della metà femminile della coppia ma percepite come castranti “dalla parte di lui”, con uno sdoganamento anzi del lieto fine addirittura “dopo il matrimonio”, ovvero quando inizia la vita vera. Del resto, persino la scandalosa trilogia delle Sfumature approda a un epilogo con matrimonio e prole, seppure condito da tutti i fremiti del caso, quasi a voler chiarire una volta di più il senso onnicomprensivo (e non alternativo) dell’iniziale “volere di più” della timida ma determinata protagonista.
È indubbio: la nuova “galassia rosa”, quanto più si emancipa dai vincoli di genere, dalla marginalità delle collane da edicola e dalla fruizione esclusiva delle lettrici meno avvedute culturalmente, tanto più si arricchisce di declinazioni e sfaccettature inedite, anche a livello formale, va detto a opera soprattutto di un gruppo di nuovi autori di nuovi testi dalla provenienza spuria, almeno in prima battuta (piattaforme web, self-publishing, YouTube, fan fiction di varia origine…), ma già planati – spesso con più di un titolo – nei piani editoriali dei grandi gruppi, sui banchi delle librerie e financo – vai sempre la pena ricordarlo – nelle classifiche dei titoli più venduti.
Anna Premoli costituisce un caso – prolifico, e ormai consolidato – di straordinario successo di pink modernamente ritmato ma tutto sommato fedele alle strutture narrative tipiche del genere: tra colpi di fulmine, pervicaci resistenze destinate a naufragare, relazioni di amore-odio, non mancano però tutti gli stilemi classici del rosa chick-lit, tra cui le ambientazioni metropolitane, i contesti upper class, le eroine dolcemente determinate ma comunque in cerca di mr Right, cui fanno da controcanto protagonisti maschili fascinosi e qualche volta tormentati, che hanno forse abdicato allo status di principi ma non al colore ceruleo, che spesso si manifesta già alla loro prima entrata in scena, generalmente entro il primo capitolo: «rimango incenerita dagli occhi più azzurri che siano mai stati creati» (Ti prego lasciati odiare)-, «ha due occhi così blu, ma così blu, che davvero non posso non notarli» (Un imprevisto chiamato amore); «Gli occhi […] di uno straordinario e rarissimo turchese» (Tutti i difetti che amo di te). Il lieto fine si adegua: Ti prego lasciati odiare si chiude con una canonica dichiarazione corredata da fantasmagorico anello di diamanti e la cronaca del matrimonio, Epilogo, è affidata addirittura al «Daily Mail» («Ieri, nell’incantevole castello di Revington, in uno scenario da sogno») come da tradizione anglosassone che abbiamo imparato a conoscere al cinema e nelle serie tv.
Non mancano però, nel rosa delle nuove generazioni, esempi diversi, che distorcono pesantemente la tradizionale parabola della vicenda di coppia con happy end riconciliante, a favore di una modalità narrativa puntiforme, che trova il suo perno nella voce di un io narrante sempre presente: netta è la prevalenza della prima persona, ibridata però dal ricorso a citazioni, stralci di blog, messaggi trascritti dai social e da fonti diverse.
Alla polverizzazione della trama, con il dilagare delle elucubrazioni e masturbazioni mentali di un protagonista pesantemente egoriferito – anche quando si conceda un carosello di incontri e relazioni – che si sostituiscono alle traversie della coppia di amanti predestinati, corrisponde una nuova e peculiare declinazione dell’epilogo en rose, rimane confermato lo spirito di attivismo positivo a conclusione della precedente situazione di blocco/inadeguatezza/limitatezza, ma questo passaggio segna piuttosto il felice traguardo di tappa di una Bildung ancora squisitamente personale, seppure condotta in situazioni “rosa”.
Il “finale aperto” che spesso sostituisce il canonico “lieto fine” non è allora tanto o non solo una scelta narrativa, ma quasi una ricaduta necessaria per queste opere che intrecciano Bildung & rosa: se tutta la storia si è concentrata sull’IO e sui suoi rovelli, il passaggio più o meno repentino al NOI non segnala un vero lieto fine di coppia alla “e vissero per sempre felici e contenti”, ma tutt’al più la promessa di un “lieto inizio a due”, ovvero l’avvio di una nuova storia, in buona parte ancora tutta da scrivere.
È quello che capita in Succede di Sofia Viscardi: la storia liceal-tardoadolescenziale di Margherita-Meg incrocia questioni di amicizia amore famiglia scuola; c’è il presente, quello che “succede” quasi in presa diretta, nei pensieri della protagonista, nelle chat scambiate con gli amici e nelle sue corse per non perdere l’autobus; allo stesso tempo, c’è un passato che si intravede per squarci minimi come doloroso e problematico, e che verrà svelato – con qualche semplificazione di troppo, tra pudore e reticenza – soltanto nelle ultime righe del romanzo, sancendo da un lato la salvifica rinascita di Meg, ma allo stesso tempo “congelando” in un certo modo il lieto fine: la scena d’amore che ci aspetteremmo dopo il ritorno e l’appassionata dichiarazione del fidanzato Tom, infatti, viene interrotta e procrastinata dalla rivelazione improvvisa e imprevista del precedente aborto della ragazza.
C’è un indizio linguistico che esemplifica questo passaggio cruciale. Meg per tutto il romanzo ha usato spessissimo la negazione per definirsi: «Non mi interessa niente […]. Non cambierò il mio modo di fare per lui […]. Non ho intenzione di uscirci più», «Non siamo nemmeno amici e già non mi lascia i miei spazi», «Magari non sono mai stata innamorata», «Non sono abituata a ricevere complimenti»; alla fine, nella scena che segue la scoperta del trauma segreto della ragazza, sarà invece Tom a rendersi protagonista delle frasi di forma o senso negativo: «Gli sguardi sono cupi. Il mio pieno di lacrime, il suo perso. Mi guarda, ma non sta guardando me. Prendo un respiro, per iniziare a parlare, ma lui mi appoggia un dito sulla bocca. “Possiamo abbracciarci e basta? Senza parlare”».
E abbastanza peculiare che a pronunciare questa battuta sia il maschio della coppia, lo stesso che si è già reso protagonista di almeno due magistrali dichiarazioni d’amore, davvero degne di una sceneggiatura di Nora Ephron: «Sei un casino. È difficile non odiarti per via di tutti i problemi inutili che ti fai per ogni cosa. […] Ma sei anche la ragazza più fragile e premurosa che conosca. […] Tutto questo mi piace, mi piaci. [… ] Mi piace osservarti mentre leggi […]. Mi piace come ti sistemi i capelli dietro l’orecchio», seguita a breve distanza da: «Io ti amo. Ti amo sempre. […] Vado fuori di testa per le tue piccole cose […] per lo strano vizio che hai di arricciare la bocca quando qualcosa non va. Tu sei quello che aspettavo […]. Le tue piccole e fragili spalle non mi piacciono perché ti rendono elegante, ma per come mi fanno sentire grande e responsabile quando ti stringo tra le mie braccia».
Ecco, un’altra caratteristica che differenzia i nuovi rosa – e che avvalora, in un certo senso, il “canone Volo-Moccia” – è proprio questa rappresentazione diffusa e a tratti vagamente logorroica della sensibilità e dell’autocoscienza dei protagonisti maschili (per quanto, anche Andrea Sperelli a suo modo si arrovellava su amore e tradimento, e in effetti potrebbe esserci un “fil rouge romano” che lega le tende di palazzo Zuccari alle ripetute considerazioni di Step sui «crudi di mare», i «fruttini gelati» e i cornetti di un certo pasticcere della capitale che «li fa di un delicato…»).
In E allora baciami di Roberto Emanuelli troviamo l’ennesimo protagonista maschio parlante in prima persona, ma il mix di stili, voci narranti e media coinvolti si fa più confusamente polifonico: c’è Leonardo che vive, si vede vivere e riflette sulla sua vita, distillando incontri dolori autoironia e perle di saggezza; c’è il racconto in flashback del suo indimenticato amore per Angela, ai tempi dell’università; c’è una sorta di diario di bordo di quello che scopriremo essere un vero, cruciale “messaggio in bottiglia” alla deriva per gli oceani del globo; c’è il diario di Laura, la figlia di Leonardo e Angela, che a sua volta cita stralci dell’amato, misterioso Zagal, oppure riporta frasi e pensieri estrapolati dal blog personale o dalle sue pagine social e chat.
Un po’ appesantita da questa verbosità contagiosa, lungo le oltre 300 pagine del libro si dipana la storia di due vite segnate dalla misteriosa scomparsa di Angela, avvenuta quasi vent’anni prima, che troverà una sorprendente risoluzione – anche in questo caso, non del tutto sviluppata narrativamente, ma certo suggestiva nel suo cinematografico punto di svolta: «Lei si gira, e mentre lo fa inclina l’asse terrestre» – al termine di un viaggio di formazione&riconciliazione padre-figlia da Roma alla Sicilia. Va detto che l’incontro con la donna amata, in questo caso, è talmente paradossale e sintetico da provocare diversi interrogativi (primo tra tutti: perché Leonardo non l’ha mai più cercata, dopo un unico tentativo poco convinto?), ma non una vera catarsi. A questo provvede, parzialmente, la coda narrativa Non finirà mai ambientata su Marte, anno 3450: «Poi abbraccio te, Angela […]. Nessuno ti abbandonerà, mai più nessuno se ne andrà senza un perché […]. Non può finire, non finirà mai… E allora baciami, e allora baciami, e allora baciami…», a sua volta seguita da una sorta di “morale della storia” a uso dei lettori, scopertamente firmata «Roby» e intitolata Verso la tua felicità-. «Si dice che il treno parta, e che se non sali in tempo, sei fregato. Qualche volta, invece, capita di ritrovarsi sul treno sbagliato, che ti porta dove non vuoi, che va nella direzione contraria al tuo cuore, che ti allontana dai luoghi che ti fanno stare bene. E sempre il momento buono per scendere da quel treno e correre verso la tua felicità».
Nonostante questa volontà scoperta di chiudere il cerchio, ricucire le ferite e andare dove ci porta il cuore, nel corso della lettura di E allora baciami per lunghi tratti si ha l’impressione che, se non l’intera vicenda, ampi passaggi siano stati costruiti a cornice di singole frasi a effetto, ed è senz’altro vero che questo romanzo (ne è in arrivo un altro, Davanti agli occhi, in realtà originariamente uscito prima) si fa ricordare più per il repertorio ad ampio (ri)uso citazionistico, quasi fosse uno zibaldone immaginifico di frasi su amore e malamore (alcune vengono proposte anche come bonus track dell’e-book), piuttosto che per l’intreccio romanzesco: «Ogni donna, prima di tutto, merita di essere sentita col pensiero, di essere presa con lo sguardo, e di essere toccata col cuore»; «Se non credi in quello che dici, non lo dire. Se non puoi mantenere, non promettere. Se non sai toccare un cuore senza ferirlo, non toccarlo»; «A che serve avere tutta questa gente intorno, se poi guardiamo dentro al nostro cuore e non ci troviamo nessuno?»; «Un vero amico, quando sei al buio, non accende la luce con violenza, ma si siede accanto a te in silenzio». Non stupisce, se si pensa a come anche l’autore reale Emanuelli si proponga come un affabulatore gentile (probabilmente sincero, di certo capace) che al grido di “siamo solo per pochi” ha dato vita a un’amplissima, affezionata community di follower che si rimbalza entusiasta le citazioni del suo libro.
Qualcosa di simile è successo a un altro scrittore-affabulatore più ruvido e arrabbiato, almeno nel romanzo di esordio – Antonio Dikele Distefano. In Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti? (che già dal titolo tradisce il gusto per il gioco linguistico, per quanto nel finale il senso della frase venga poi chiosato: «Vuol dire che il miglior rifugio dalla pioggia non è un tetto o un ombrello, ma l’abbraccio di qualcuno») Bildungsroman, romanzo rosa, testo di denuncia dei temi sociali propri della cosiddetta “narrativa nascente” si contaminano in una prosa franta, scandita da capitoli intitolati come brani di una playlist, anche in questo caso con una netta prevalenza della riflessione sull’azione, che restituisce però con sincerità immediata una scrittura che mescola espressioni un po’ ingessate e ingenue come «prediligevi I Promessi Sposi e la ginnastica artistica»; «i compiti generavano in me un sentimento claustrofobico»; «lei veniva da una famiglia di ceto sociale medioalto» a frasi a effetto da cui emerge un certo compiacimento stilistico:
«Il fatto è che quando tu non ci sei, io non ci sono per nessuno»; «Come puoi pretendere che io mi basti, se non sono bastato a te che eri tutto per me?»; «Tu cadi in piedi, io ai tuoi piedi»; «i tuoi erano sbalzi d’amore»; «Da quando ci sei, il doppio di sei è siamo e la metà di due non è uno ma niente».
Al netto di questo repertorio, la parte più interessante del libro di Dikele sta proprio nel delta che lo differenzia dagli altri di questa breve rassegna, ovvero la volontà di innestare una più ampia questione sociale nella sequela di riflessioni esistenziali-amorose del protagonista (Antonio è un ragazzo italiano di colore, e la sua relazione con Adele è avversata dalla famiglia di lei, con una chiusura pervicace e assoluta che – anche nel XXI secolo – non contempla alcuno spiraglio di confronto), ben riassunte nella frase «Non siamo dello stesso colore, ma siamo dello stesso amore».
E il lieto fine? Per quanto ci sia un’esplicita dichiarazione contraria happy end (con tanto di accusa a Moccia, ma del resto l’autore non ha mai fatto mistero del proprio endorsement “pro Volo”), «Ai miei occhi non valgono nulla tutte queste coppie, tutti questi cuori, tutti questi annunci, destinati all’esilio insieme ai film di Moccia […]. Tu sogni un lieto fine, io non voglio nessuna fine. […] Non dirmi che sarà per sempre, dimmi semplicemente a domani, ma dimmelo sempre», la chiusa del libro – comunque non risolutiva e ben lungi dall’essere un vero happy end – non è altrettanto tranchante: in un momento di riavvicinamento, non si sa quanto fugace, con la ragazza amata, il protagonista sembra fare un bilancio della storia: «Non pensavo più che fosse stata la luna ad aprire nuovi orizzonti all’uomo, ma l’amore, il tuo. Non pensavo più a tutto il male che ci avevano fatto. Non pensavo più. Pioveva, ma erano lacrime di gioia. Non eravamo dello stesso colore, ma eravamo dello stesso amore. Ricordi? “Quanto mi ami da uno a dieci?” “Sei.” “Non sei, siamo”».
Che forse, è un altro modo per dire «Almeno tre metri sopra il cielo».