Donato Carrisi, il re pugliese e internazionale del thriller

Donato Carrisi da Martina Franca (Taranto) può vantare numerosi e affezionati lettori anche fuori dei confini nazionali. I suoi thriller, dai tanti tratti anglosassoni, sembrano scritti per essere tradotti: dall’italiano all’inglese, al francese e persino al cinese, dalle parole mute fatte d’inchiostro al linguaggio televisivo. Per discuterne, però, bisogna infrangere l’undicesimo comandamento: «Non dirmi come va a finire!».
 
Come i serial killer a lui cari, di cui nessuno si accorge finché dai gattini non passano agli esseri umani, Donato Carrisi ha esordito col botto. La sua carriera di scrittore, «breve storia di un grande successo», è cominciata otto anni fa con Il suggeritore, assai apprezzato anche all’estero: «Questo romanzo» ha fatto sapere Ken Follett «è stato il mio paradiso». Da allora solo bestseller internazionali, a dispetto del nome italiano, pugliese anzi, in copertina: «Carrisi? figlio di Al Bano?» chiedono i buontemponi.
E prima? Le cronache ricordano prove modeste a teatro («Nessuno mi filava»), due romanzi nel cassetto («Non li hanno pubblicati» confessa al «Corriere della Sera». «Meno male, sarebbero stati un precedente pericolosissimo») e una sceneggiatura controversa nel cestino («Bocciata pure quella, troppo anglosassone»). Ma si tratta di capitomboli innocenti, che diventano funzionali al narcisismo d’autore: se una bibliografia pregressa non esiste – ci fa capire Carrisi – è perché il thriller qui in Italia l’ha portato lui, con fatica e cocciutaggine.
Fondamentale, in questa fase pionieristica, si è rivelata un’esperienza per certi versi incongrua: la gavetta come sceneggiatore per la televisione generalista e perbenista. Sono di suo pugno, infatti, le storie di Casa famiglia, fiction con Massimo Dapporto – quando ancora non entrava nelle case altrui a vendere pacchianissime lire placcate in oro –, film non memorabili come Nassiriya. Per non dimenticare, e alcuni episodi, più congeniali, di Squadra antimafia. Palermo oggi.
Dal lavoro per il piccolo schermo il nostro autore ha imparato a tenere i piedi per terra («Con 300 milioni di dollari è “facile” fare Guerre stellari, prova a fare Casa famiglia in modo credibile e ne riparliamo») e una sicura conoscenza delle tecniche narrative: flashback e fughe in avanti non hanno segreti per lui, abile a creare suspense alternando i piani del racconto.
La conseguenza più autentica dei trascorsi televisivi, nonché motivo numero uno del successo (meritato) di Carrisi, è però un presupposto di verosimiglianza: la dipintura della realtà secondo i canoni desunti dalle serie tv americane. Scelta inevitabile, perché «in Italia non c’era il know-how per fare il thriller», ma sconcertante nei dettagli minuti. Le sue pagine ci restituiscono, incredibilmente, un mondo senza toponimi espliciti ma già visto, convenzionale, dove i poliziotti si frequentano al di fuori dei lunghi turni di pattuglia, fanno colazione con uova e bacon, bevono caffè nero bollente.
Tornano alla mente vecchie glorie come T.J. Hooker (l’ex capitano Kirk di Star Trek) e Hunter, eroi tutti d’un pezzo che sopravvivono d’estate su Rete4, in attesa di una resurrezione retro-chic sulla pay tv. Questi telefilm – così si chiamavano, prima che un anglicismo nobilitante li promuovesse a “serie” (fa fede il mitico Dizionario dei telefilm, Garzanti 2001) – ormai inguardabili se non per curiosità sociologica, hanno lasciato in eredità un patrimonio narrativo credibile o, per meglio dire, verosimile in relazione al genere della crime story. Luoghi e situazioni passati dalla letteratura di intrattenimento alla fiction televisiva, e divenuti parte dell’immaginario collettivo: una riserva da cui pescare per mettere in scena quelle trame che da noi, semplicemente, non funzionano.
Per fare un thriller ci vogliono emozioni più intense, più frequenti di quelle del giallo tradizionale: i brividi che scaturiscono dalla violazione dell’ordine costituito (non uccidere, non rubare) devono propagarsi oltre la conclusione della detection, e necessitano pertanto di uno spazio (anche mentale) propedeutico ai conflitti insanabili e ai piccoli e grandi crimini: città con desolazioni urbane, sobborghi con villette facili da scassinare (i condomini non hanno porte sul retro, e poi c’è l’incognita della scala: quale sarà? A, B o C?), paesaggi multiformi quanto le ipotesi delittuose (laghi, montagne, pianure). La vecchia Europa è troppo angusta, e con due guerre mondiali alle spalle ha pensato bene di contenere la conflittualità sociale entro forme di civiltà capaci di smussarne le tensioni più distruttive. Nulla a che vedere con la wilderness liberista e geografica americana, dove natura e uomo fanno a gara a esprimere il peggio e il meglio di sé; da noi i delitti sono perturbazioni localistiche, che sceneggiano il male di vivere sullo sfondo di posti dove tutto sommato si vive bene: la Vigata con arancini di Montalbano, la Gubbio di don Matteo, il BarLume di Malvaldi. E si potrebbe citare anche la campagna inglese di Midsomer, dove abita l’ispettore Barnaby. O per converso, per fare cioè un esempio radicalmente opposto, le Vele di Scampia, che stanno in piedi grazie alle preci degli autori di Gomorra, ma lì siamo agli antipodi della civilizzazione, e la distanza siderale che rincuora i telespettatori è ribadita dall’incomprensibilità del gergo dei camorristi.
Quando abbandona i territori prediletti della finzione a marca anglosassone – succede con la saga romana di Marcus e Sandra (Il tribunale delle anime, Il cacciatore del buio) e La ragazza nella nebbia – e torna finalmente dalle nostre parti, le cose non cambiano poi molto: la Roma di Carrisi è ipogea e mutuata da quella di Dan Brown, e ha pure il meteo della megalopoli di Blade Runner (piove sempre), mentre Avechot, paesino tipo Cogne sulle Alpi, è deturpato da una miniera di fluorite e beghe religiose in stile Bible-belt.
Se la sospensione di incredulità punta dunque sul già noto, sul gioco di riconoscimento e revisione degli stereotipi, le sorprese arrivano, avvincenti e numerose, dal lato investigativo, dove non si dà possibilità di allusione al passato, perché la tecnologia ha fatto piazza pulita del repertorio di trucchi e omicidi a camera chiusa. Fino a non molti anni fa, i tecnici e “quelli della scientifica” erano tipi un po’ strani che si recavano sulla scena del crimine dopo che gli investigatori avevano finito di interrogare i testimoni, oggi invece sono loro i protagonisti indiscussi: le indagini vanno avanti a colpi di intercettazioni, esami al microscopio e mappature genomiche di massa. Anche gli alibi sono modernariato: basta una telecamera o una cella telefonica e ecco una registrazione dei movimenti del sospetto, alla tal ora e alla tal data.
Carrisi affronta l’ostacolo aggirandolo, così come aveva scansato il problema della plausibilità del thriller tra i campanili del Belpaese: dalla tecnologia passa all’indagine sull’uomo, dal gadget all’io antropologico, senza cedere scopertamente alle soluzioni mostruose e fantastiche che sono tipiche del genere horror. I suoi romanzi sono in effetti variazioni su un unico tema: la manifestazione del male, da intendersi non come entità sovrannaturale, bensì come elemento intrinseco alla psiche umana. I serial killer «li chiamiamo mostri» spiega Goran Gavila, il criminologo del Suggeritore«perché li sentiamo lontani da noi, perché li vogliamo “diversi” […]. Invece ci assomigliano in tutto e per tutto. Ma noi preferiamo rimuovere l’idea che un nostro simile sia capace di tanto. E questo per assolvere in parte la nostra natura». Nel sequel intitolato L’ipotesi del male, l’agente speciale Berish rincara la dose: «Le due forze non sono affatto una dicotomia, due opposti necessari per cui senza il male non esisterebbe il bene e viceversa. Il bene e il male a volte sono il risultato di una convenzione ma, soprattutto, non esistono in forma assoluta».
Rispetto al giallo, la cattura del reo perde importanza, pur restando un momento clou del racconto: i colpevoli sono così numerosi – e tutti insospettabili – che i più cattivi finiscono per farla franca. E non potrebbe essere altrimenti: l’obiettivo del thriller è sfatare i miti razionali della modernità, innestando il seme del dubbio laddove il poliziesco tradizionale punta alla chiusura del caso e del cerchio.
A questa visione del mondo, a cui non sono estranei gli studi di criminologia dell’autore, fa riscontro un manipolo di tutori della legge: criminologi, investigatori, poliziotti, preti in missione speciale per conto del Vaticano. I quali finiscono invischiati, immancabilmente, nelle stesse trame che dovrebbero svelare: ognuno ha un lato oscuro (contro cui servono a poco i freni inibitori) e per farlo emergere è sufficiente una piccola spinta. I veri protagonisti dei libri carrisiani sono dunque i suggeritori, burattinai che nell’ombra influenzano il comportamento del prossimo nei modi più subdoli e spietati, facendo leva sulla predisposizione individuale a un male che fa tutt’uno con il bene. Ecco perché è così arduo capire chi sia l’assassino: anche a fronte di crimini efferati, non c’è mai un unico esecutore, soluzione che del resto cozzerebbe con le limitazioni orwelliane della vita moderna. Scopriamo allora che il fantomatico Albert, serial killer che ha sepolto in un campo il braccio sinistro di sei bambine, in realtà non esiste: è l’avatar illusorio di un piano diabolico, ideato da un Suggeritore e messo in opera dai suoi aiutanti: un ex compagno di cella, un balordo sadico, un pedofilo mascherato da bravo maritino, la poliziotta Sarah Rosa (a cui era stata rapita la figlia) e, rullo di tamburi, il criminologo Gavila, che uccide la moglie da cui si stava separando e il figlio Tommy – per poi conservarne i cadaveri in casa – dopo aver ascoltato un messaggio su nastro inviatogli dal manipolatore («Uccidere, uccidere, uccidere»). Situazione destinata a ripetersi nel sequel, dove un ufficiale di polizia si rende responsabile della scomparsa di alcune persone in difficoltà: «Non capisci? Gli regalavo un nuovo destino». Sennonché, rispondendo a stimoli misteriosi, costoro un bel giorno cominciano a vendicarsi dei torti subiti e a comportarsi come giustizieri («il bene […] si trasforma in male che si trasforma in bene e torna a trasformarsi in male»). La stessa cosa avviene nel Tribunale delle anime: un prete in possesso di informazioni riservate esorta alla vendetta i parenti delle vittime di omicidio, rivelando loro nomi e indirizzi degli assassini.
Sulla complementarità sconvolgente delle pulsioni umane si fonda anche La ragazza nella nebbia, storia di un professore di scuola che rapisce e uccide un’alunna per diventare ricco e famoso. Il suo piano consiste nel presentarsi come vittima di un errore giudiziario: sa già che a condurre le indagini sarà il superpoliziotto Vogel, un mastino formidabile, ma anche un narcisista patologico con la brutta abitudine di falsificare le prove.
L’apice della reversibilità si raggiunge infine con la figura di Marcus, penitenziere ex serial killer trasformista, capace cioè di assumere le sembianze e l’identità delle sue vittime, tra cui, prima dello scontro che lo lascerà ferito alla testa e senza memoria, quella del prete che gli dava la caccia. L’omicida prende così il posto dell’assimilato, diventando un investigatore al servizio del Tribunale delle anime’, un archivio-tribunale che raccoglie e giudica le confessioni relative ai peccati mortali.
L’ossessione per il male porta con sé la predilezione per le istituzioni entro cui il suo manifestarsi sia imprevedibile, al punto che i romanzi di Carrisi potrebbero avere come sottotitolo «famiglie distrutte»: non si contano i rapimenti, gli allontanamenti da mamma e papà con destinazione orfanotrofio, i matrimoni falliti. La disinvoltura con cui il male si insinua tra gli affetti di casa illumina la precarietà dei rapporti sentimentali, facendo risaltare le motivazioni egotistiche che ne sono parte inalienabile: «Ha amplificato il loro dolore portandogli via il futuro» spiega Gavila riferendosi ai genitori di una bambina rapita, figlia unica. «Li ha privati della possibilità di tramandare una memoria di sé negli anni a venire, di sopravvivere alla propria morte… E si è nutrito di questo. E il compenso del suo sadismo, la fonte del suo piacere.»
Nella fiction carrisiana le unioni tra uomo e donna assumono risvolti persino grotteschi, nei loro esiti invariabilmente drammatici: Mila Vasquez, protagonista della saga inaugurata dal primo romanzo, ha una figlia (prevista dal Suggeritore) con Gavila, uxoricida e infanticida; il diplomatico sovietico Agapov, impazzito a causa della morte della moglie, costringe il figlio Victor, che da grande sarà un killer transgender, a indossare abiti femminili (Il cacciatore del buio); nell’Ipotesi del male i Conner, «belli e perfetti», tengono l’ultimogenita chiusa in cantina, e Nadia Niverman uccide Randy Philips, l’avvocato divorzista che aveva fatto scagionare l’ex marito ubriacone e violento, in una tamarrissima Love Chapel in disuso («Mi sono sposata nella Cappella dell’Amore?!?» esclamava Jennifer, con sgomento, nel 2015 alternativo e distopico di Ritorno al futuro. Parte II); il prof squattrinato della Ragazza nella nebbia pianifica l’uccisione di Anna Lou dopo aver scoperto il tradimento della moglie con un amante facoltoso. E l’unione si spezza anche quando, con La donna dei fiori di carta, dal thriller si passa al noir: il giovane Guzman vaga assieme alla madre per l’Europa, alla ricerca del padre, fuggito per tener vivo l’amore della moglie («Le ho fornito un motivo per volermi ancora»).
Se i genitori sono fuori di testa, non stupisce l’insistenza con cui ricorrono in questi romanzi i surrogati del nido familiare: ugualmente fallimentari, purtroppo. All’orfanotrofio del Suggeritore crescono due assassini, mentre l’istituto Hamelin, gestito da una confraternita di pseudo-satanisti, trasformerà Victor in un perfetto serial killer («Compresero che c’era bisogno del diavolo per alimentare la fede nel cuore degli uomini»): del resto, cos’era il pifferaio della città omonima, se non un rapitore di bambini? Dulcis in fundo, l’affidamento ai nonni della figlia di Mila e Goran non impedisce a un’adepta del Suggeritore di intrufolarsi nella cameretta della bambina («C’è una persona speciale che vuole fare la tua conoscenza»). Che dire poi della famiglia allargata ai colleghi? Goran raduna la sua squadra nello Studio, un appartamento attrezzato per le indagini più complesse, riunendo così sotto lo stesso tetto un assassino e un complice; Berish invece, che era stato incaricato di proteggere Sylvia fingendo di essere suo marito, avrà la carriera rovinata dalla fuga della protetta, di cui si era pure innamorato: molti anni più tardi scoprirà che Sylvia era tutto fuorché una povera vittima…
La tendenza al trascolorare degli opposti è riflessa anche dall’ambiguità fisica e sessuale di alcuni personaggi: oltre a Victor/ Hanna, si possono citare Madame Li, «l’ermafrodito più famoso di Marsiglia» (La donna dei fiori di carta) e Michael Ivanovic, il cui corpo presenta un’inversione degli organi interni detta situs inversus (L’ipotesi del male).
Spetta agli individui in grado di resistere all’insorgere paritetico di amore e odio il compito di difendere la giustizia e di sopportare l’onere della solitudine («Chi ama sul serio è capace anche di odiare»). Mila è bravissima nel suo lavoro di «cercatrice di bambini scomparsi», perché incapace di provare empatia («il segreto è non avere niente da perdere»): al dolore emotivo sostituisce quello fisico, dedicandosi a pratiche autolesioniste. La fotorilevatrice Sandra Vega, che arriva «sulle scene del crimine con le sue macchine fotografiche con l’unico scopo di fermare il tempo, [congelandolo] nel bagliore del flash», rinuncia alla maternità ricorrendo all’aborto e perde sia il marito David (Il tribunale) sia il nuovo compagno Max (Il cacciatore), entrambi vittime di uccisori seriali. Il penitenziere Marcus può dedicarsi con agio all’attività di investigatore per conto del Vaticano, non avendo più un passato da cui farsi condizionare: in altre parole, non avendo nessuno.
Carrisi riprende qui il filone giornalistico e romanzesco dei misteri vaticani, che dallo Ior di Marcinkus arriva dritto alla fiction di Dan Brown, rielaborando in chiave narrativa e neoilluminista il dicastero della Paenitentiaria Apostolica. Il tribunale ecclesiastico diventa l’epicentro di uno sforzo tassonomico di portata enciclopedica: «raccogliendo la più ampia casistica possibile di tutte le colpe, [volevano] comprendere le manifestazioni del male nella storia dell’uomo», per correggerle e prevenirle: «così i penitenzieri si sono trasformati da semplici ricercatori e archivisti in investigatori, prendendo parte direttamente al processo di giustizia» (Il tribunale delle anime).
Sorte toccata anche ai preti dei gialli canonici: se «il poliziesco è intrinsecamente laico» in quanto «non presuppone alcuna fiducia in qualche corte di giustizia oltremondana» (Vittorio Spinazzola, Tirature 07. Le avventure del giallo) e delle confessioni dell’io si occupano psicologi e psichiatri, ai sacerdoti non resta che mettere il prestigio della giustizia divina al servizio di quella terrena. E che questa sovrapposizione di ruoli sia ormai pacifica lo dimostra la storia al contrario dell’attore Tom Bosley, che dismise i panni paciosi dello sceriffo Amos Tupper di Cabot Cove, Maine (tanto i casi li risolveva Jessica Fletcher, La signora in giallo) per indossare la tonaca di Padre Dowling (Le inchieste di Padre Dowling).
Nella Roma di Carrisi, tuttavia, a differenza che a Gubbio o Cabot Cove, «il male generato genera altro male. A volte si comporta come un contagio inarrestabile, che corrompe gli uomini senza fare distinzioni». I penitenzieri danno sì la caccia ai serial killer, ma corrono il rischio di trasformarsi in feroci criminali («Più facevo del male, più diventavo bravo a scovarlo» ammette Jeremiah Smith nel Tribunale delle anime) oppure celano un passato terribile, al pari di poliziotti, criminologi e psichiatri. L’ambiguità dei protagonisti corrobora la suspense per quattrocento pagine a volume, nutrendosi di verità scomode: «è dal buio che provengo» dice di sé Mila «è nel buio che devo ritornare».
Altro punto di forza è la costruzione sapientemente calibrata dell’intreccio: l’unità di luogo si stempera nella diversificazione dei piani temporali, e i salti spaziali sono anche cronologici. Si veda La ragazza nella nebbia, dove la fissità dell’ambientazione montana è movimentata dall’intrecciarsi di tre livelli (la storia-cornice dello psichiatra e assassino Flores, il colloquio tra costui e l’agente Vogel, il recupero in forma calendaristica della storia del professore alunnicida) e Il tribunale delle anime, che verso la conclusione alterna a Roma la città fantasma di Pripyat, sede della centrale di Chernobyl e luogo in cui è cresciuto, «in cattività», il killer trasformista.
Difficile trovare, nel panorama italiano, chi sappia stare al passo di Carrisi, per capacità di scrittura e intraprendenza crossmediale: dal Suggeritore, romanzo nato da una sceneggiatura rifiutata, è in lavorazione una serie televisiva («l’obiettivo è quello di creare una factory di scrittori italiani che realizzino produzioni di thriller che possano davvero varcare i confini ed essere realmente globali»).
E difficile, forse impossibile è parlare dei suoi libri senza anticiparne le sorprese: speriamo che lui e i suoi fan non se la prendano. Vuoi mai che un giorno, a scuola, non capiti in classe uno studente con le cuffie, intento a ri-ascoltare, mentre faccio l’appello, il messaggio vocale che un nickname sconosciuto, karrisi73, gli ha inviato su Whatsapp la sera prima: «Uccidere, uccidere, uccidere». Poco male, comunque: un altro romanzo, quello del prof di Avechot, mi suggerisce cosa fare.