Sebbene la televisione abbia sempre dato grande spazio alla serialità narrativa, l’alto numero di serie di qualità degli ultimi quindici-vent’anni ha fatto pensare all’emergere di un fatto nuovo sotto i cieli della modernità. Eppure di quella stessa narrazione seriale la letteratura fa uso, anche in opere di grande impegno formale, sin dalle sue origini. È oggi giunto il momento di ripensare al fenomeno della serialità nel suo complesso e nella sua evoluzione; al di là di ogni pregiudizio romantico o “nuovista”.
La televisione ha da sempre dato grande spazio alla serialità narrativa; ma gli ultimi quindici-vent’anni hanno registrato una presenza ulteriormente accresciuta delle serie narrative televisive. Viene da dire che, mutatis mutandis, le penetranti osservazioni di Gramsci sul “dovere mondano” di conoscere i romanzi popolari e saperne discutere con competenza, puntata per puntata, appaiono ancora straordinariamente attuali: solo che vanno applicate alle innumerevoli serie televisive di successo. Lo scenario è molto variegato, e non è certo questa la sede per entrare nel dettaglio di un fenomeno così imponente: basta solo provare a elencare al volo un po’ di titoli conosciuti per rendersene conto. Si stanno delineando nuove modalità di fruizione oltre che di produzione, e ci sarebbe parecchio da meditare sull’evoluzione delle dinamiche del tempo libero, nell’era di un’interazione sempre più intensa fra i cosiddetti new media e un mass medium come la televisione, più “tradizionale” ma in fase di profonda riorganizzazione economica, tecnologica e tematica. Alla crescita del fenomeno certo ha dato una spinta fondamentale la crescente competizione fra le diverse aziende, pur nel permanere di vistosi fenomeni di concentrazione. Si pensi, per esempio, alla crescita rapidissima di Netflix, con il passaggio dalla vendita casa per casa di dvd alla distribuzione in streaming, e poi alla produzione diretta di serie di grande impegno, come, tanto per fare un titolo, House of Cards. O si pensi anche all’efficace impegno produttivo di aziende italiane (Cattleya, Fandango, La7) o filiali italiane di grandi majors (Sky Italia e Sky Atlantic), da cui sono nate serie di successo come 1992 e Gomorra. Vorrei provare qui a sviluppare alcune riflessioni complessive sulla serialità narrativa, a partire da una duplice constatazione. Da un lato, anzitutto, le spinte economiche che sorreggono l’incremento vigoroso delle serie, lungi dal provocare un trionfo delle esigenze commerciali, a scapito della qualità estetica, hanno viceversa dato luogo a una spettacolare crescita di questa stessa qualità, tanto da spingere non pochi critici ad affermare che proprio le serie esibiscono i migliori risultati artistici della narrativa per immagini e, di più, rappresentano ormai la nuova frontiera della ricerca formale, e persino di uno sguardo originalmente critico sul mondo contemporaneo. Basti pensare, fra le altre, a una serie di conturbante bellezza e problematicità come Breaking Bad di Vince Gilligan. Da un altro lato, specularmente, le resistenze delle intellettualità umanistiche sono ancora vigorose, benché in fase di progressiva erosione (anche per motivi generazionali), e capita ogni giorno di leggere e ascoltare argomentazioni che pervicacemente evocano una supposta incompatibilità fra la qualità estetica e la serialità, identificata con la ripetitività e la banalizzazione, a sua volta dipendenti dall’esigenza, brutalmente commerciale, di rincorrere il pubblico vendendogli senza sosta il piacere, e la consolazione, del “ritorno dell’identico”.
Mi pare allora che valga la pena di provare a tenere sullo sfondo il fenomeno delle serie televisive, per guardare soprattutto alla letteratura, ma privilegiando la prospettiva della serialità e delle componenti strutturali costitutivamente iterative. Da questo punto di vista, la tenuta dell’estetica dell’originalità e dell’individualità assoluta dell’opera appare immediatamente scarsissima. Sorprende anzi che la prospettiva romantica, ancora molto diffusa, sia riuscita per molto tempo a offuscarci la consapevolezza che per millenni l’arte ha sempre teso, tutt’al contrario, all’imitazione in genere e anche più specificamente alla serialità. La lucida critica del compianto Ullrich Schulz-Buschhaus al pregiudizio del Nuovo e a quanto egli definiva il “nominalismo estetico” (Il sistema letterario nella civiltà borghese, Unicopli 1999), cioè appunto il mito dell’unicità dell’opera, resta, in questo senso, imprescindibile. E forse i tempi cominciano a essere maturi per un cambio di paradigma estetico dominante.
Se ci si lascia guidare senza pregiudizi dall’esigenza di individuare tratti di ripetitività strutturale ascrivibili alla categoria del “seriale”, si scoprirà infatti che la letteratura cosiddetta alta ne è piena. Di fatto, la serialità, nelle sue varie declinazioni, ha tutta l’aria di essere un fattore portante della narratività, in tutti i tempi e in tutte le culture: tutte le innovazioni narrative si costituiscono a partire da uno sfondo di ripetizione che le rende possibili, e comprensibili. Viene addirittura il fondato sospetto che si tratti di una costante antropologica, se non addirittura di un dato biologico. Proviamo comunque a dotarci di un minimo armamentario semiotico per affrontare il nostro percorso, impiegando un’autorevole definizione di “serialità”, quella di Francesco Casetti, secondo il quale le caratteristiche strutturali della serialità sono tre: «la ripetizione (certi elementi di contenuto o certi schemi formali ritornano pressoché identici in diversi testi), la serializzazione (dei testi diversi si organizzano in una successione ordinata, o comunque in una famiglia comune), e la dilatazione (i testi, riunendosi tra di loro, formano un insieme di lunghezza indefinita; anzi, tendenzialmente infinita)» (L’immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio 1984, p. 13). Integrerei questa autorevole definizione con un quarto elemento: la tendenza alla modularità, la possibilità cioè per la storia di sezionarsi in segmenti (tendenzialmente) equivalenti per dimensioni e/o durata su un unico asse narrativo e tematico forte, che va via via prolungandosi. Utile, anche se a maglie un po’ larghe, è anche la definizione di Umberto Eco, che sottolinea la presenza necessaria di «una situazione fissa e un certo numero di personaggi principali altrettanto fissi» (L’innovazione nel seriale, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani 1985, p. 128).
Su queste premesse, e procedendo pressoché a casaccio fra i grandi nomi della letteratura recente, si scoprono innumerevoli fenomeni di serialità conclamata, là dove certo non siamo abituati a notarla. Sono per esempio evidenti i tratti di serializzazione attivati dalla figura di Nathan Zuckerman, personaggio e/o narratore di una decina di opere di Philip Roth, fra i più autorevoli candidati all’ultimo premio Nobel. Ancora: evidentemente il Saggio sulla lucidità di José Saramago è un sequel di un capolavoro come Cecità. La serialità scaturisce regolarmente dalla continuazione, dalla “seconda puntata”: da questo punto di vista, il citato romanzo di Saramago obbedisce a una logica strutturale del tutto analoga a quella del Dumas di Vent’anni dopo e del Visconte di Bragelonne, ma anche alla prima terna di Star Wars, la cui sequenza è stata poi rimescolata e complicata nella seconda terna dal ricorso al prequel. Ancora più vistosi sono i caratteri seriali delle narrazioni-saga. Come, per esempio, quelle di Manuel Scorza, autore negli anni settanta di una suggestiva pentalogia sulle lotte del popolo peruviano (Rulli di tamburo per Rancas, Storia di Garabombo, l’invisibile, Il cavaliere insonne, Cantare di Agapito Robles, La vampata), che ebbe una parte importante nelle fortune della narrativa sudamericana. O si pensi alla saga di Malaussène di Daniel Pennac, già bambino poco brillante e dislessico, diventato scrittore di successo grazie al colpo di genio di un professore del liceo, che gli impose di passare dal tradizionale “tema in classe” alla scrittura di un romanzo a puntate, con cadenza settimanale: un limpido caso di feuilleton, non solo seriale ma pure coatto…
Gettando un’occhiata a casa nostra, difficile negare caratteri di flagrante serialità al Calvino di Maramaldo, ma anche delle Cosmicomiche, e in fondo anche allo stesso Palomar. tutte opere segnate da una vistosa tendenza alla modularità della struttura, reiterabile potenzialmente all’infinito. Qualcosa di simile accade anche con le strutture delle due serie dei Racconti romani di Moravia, generate in larga misura dalla collaborazione giornalistica con il «Corriere della Sera». In questo caso però i personaggi cambiano, anche se le strutture base della narrazione ricorrono, costituendo una sorta di matrice. Modici tratti seriali balenano anche nel dittico Ragazzi di vita/Una vita violenta di Pasolini: ma a ben vedere già solo Ragazzi di vita è modulare e largamente seriale. In realtà, la continuità narrativa tende sempre a costituire serie. Laddove venga poi messo in scena un ciclo, indipendentemente dalla sua estensione, la serialità si fa conclamata: e certo, di per sé, non solo non costituisce un limite, ma può contribuire alla complessità. Visti da questa prospettiva, hanno tratti di serialità, pur nella programmatica assenza di un intreccio forte, persino Gli anni impossibili di Bilenchi. Ben più vistosi sono i tratti di iterazione strutturale dei Segreti di Milano di Giovanni Testori, pur nella complessità «imperquisibile» (l’aggettivo è dell’autore) dell’originale struttura a «intrecci multipli»: dove, per l’appunto, con paradosso solo apparente, la crescita esponenziale di complessità strutturale dipende direttamente dalle componenti seriali. Sempre nell’area dello sperimentalismo non avanguardistico di area milanese, seriale è il ripresentarsi di uno stesso narratore (giornalista, miopissimo, ciccione, goffo) nella trilogia narrativa milanese di Emilio Tadini (L’Opera, La lunga notte, La tempesta). Elementi di serialità, come stiamo vedendo, possono costituirsi non solo a partire dalla ripetizione dei personaggi, ma anche dello spazio: dal Romanzo di Ferrara di Bassani alla fitta sequenza delle opere di William Faulkner ambientate nella mitica Yoknapatawpha County, antesignana della Macondo di Gabriel Garcia Màrquez. Se però questi casi evidenziano una continuità, per così dire, soft, di continuità più robusta, apertamente seriale, siamo obbligati a parlare ogni volta che entrino in gioco le dinamiche della saga, che implicano la ripetizione di personaggi e situazioni, collocati lungo una parabola temporale: come negli Anni ciechi del grande e ingiustamente dimenticato Pier Antonio Quarantotti Gambini, o negli ultimi romanzi di Antonio Pennacchi, per non dire del caso recente più discusso, L’amica geniale di Elena Ferrante.
Fin dalle origini della narratività una logica seriale sorregge sia le continuazioni in una sola “puntata”, sia le più ampie saghe, che del resto scaturiscono pressoché in automatico con la ulteriore reiterazione del sequel. Come ricorda Eco, la saga ha due tipi base (che si mescolano): quello a linea continua, che segue linearmente le vite dei protagonisti e dei loro discendenti principali, e quello ad albero, che invece si sposta seguendo anche le storie di “collaterali” e “affini”. L’analogia strutturale con la serie è flagrante: e da questo punto di vista le dinamiche del ciclo bretone sono profondamente affini a quelle di una serie famosa e fors’anche famigerata come Dallas, ma anche, indubbiamente, a quelle della Comédie humaine di Balzac, forse la più prestigiosa saga ad albero della narrativa occidentale moderna, come ricorda lo stesso Eco (Rinnovazione nel seriale, pp. 130 e 137). Risalendo per li rami alle fonti della narrativa occidentale, la serialità caratterizza in profondità sia le Saghe (nella duplice accezione di leggenda prodigiosa e di gesta di una stirpe; si veda André Jolles, Forme semplici, Bruno Mondadori 2003, p. 301), sia il Mito, caratterizzato dalla riscrittura di nuclei narrativi stabili. Il mito è per sua natura intrinseca remake e genera serialità. Sono infatti marcatamente seriali il mito greco-latino, ma anche il Vecchio e soprattutto il Nuovo Testamento, che addirittura racconta quattro volte la stessa storia in uno stesso libro. Dove c’è mito, in altre parole, c’è sempre serialità, e una conseguente coazione strutturale al ciclo narrativo. Così accade per tutta la millenaria tradizione della narrativa epica: a cominciare da Omero, con la clamorosa ripresa serializzante dell’Eneide, dove Virgilio osa riprendere addirittura entrambi i poemi omerici in un colpo solo. Già la tarda classicità attribuiva peraltro all’aggettivo “ciclico” un’accezione negativa, specie in relazione alle innumerevoli riprese seriali dei poemi omerici. E d’altro canto, a smentire ogni facile schematizzazione sul piano dei giudizi di valore, alla costellazione dei nostoi rimanda anche, nientedimeno, l’Orestea di Eschilo, con la saga di Agamennone e della sua sventurata discendenza, mentre Sofocle si incarica di tramandare ai posteri la saga di Edipo e famiglia: narrazioni indubitabilmente e clamorosamente seriali. La tradizione letteraria classica nel suo complesso è evidentemente caratterizzata da tratti di serialità e iteratività profondissimi, anzi addirittura costitutivi, e per giunta a noi occultati quasi del tutto, dal momento che abbiamo a disposizione pochissimi testimoni (che spesso viene da credere unici) di una produzione immensamente più grande e quasi tutta perduta, che faceva riferimento agli stessi miti e nuclei narrativi, ripetendoli all’infinito.
Non meno vistosi appaiono i tratti seriali della tradizione epica dell’Occidente medievale e moderno, proprio a partire dalla reiterazione di personaggi e schemi narrativi largamente condivisi: basti pensare al ciclo bretone e al ciclo carolingio. E se l’epica dei paladini, via Roncisvalle e Orlando, passa dalla Chanson de Roland a quegli incunaboli della modernità che sono L’Orlando innamorato e poi ancora di più L’Orlando furioso, l’uno e l’altro ciclo vanno a travasarsi anche nel Don Chisciotte, capolavoro che sta alla radice del romanzo moderno, ma anche opera costitutivamente seriale perché, direbbe Sklovskij, «a schidionata». Su un altro fronte, il magismo del ciclo bretone continua a rifiorire in un’interminabile tradizione che, passando da Graal e templari, riaffiora vigorosa in innumerevoli filoni e generi della narrativa (cartacea e filmica) del Novecento e del terzo millennio: fra le mille reinvenzioni di Lancillotto, fino al delizioso cartoon disneyano La spada nella roccia, ma anche alla saga di Indiana Jones e al Codice Da Vinci. I predatori dell’Arca perduta si colloca anche alle origini di una narrativa per immagini che coniuga spettacolarità e citazionismo, antesignana di una nuova fruizione raffinata e consapevole, che la recente tradizione della serie narrativa cinetelevisiva rilancia in modo strategico (si pensi, fra i tanti, al sistematico citazionismo colto di Lost). Inoltre, come mostrano i debiti dichiarati da George Lucas nei confronti di Joseph Campbell, e in particolare dell’Eroe dai mille volti, ricambiati dal complementare apprezzamento di Campbell per la saga di Star Wars, le moderne saghe mainstream mettono radici nella reinvenzione sincretistica di mitologia di varia provenienza: come accade, per esempio, nello strepitoso remake cinematografico del Signore degli anelli.
Certo la moderna serialità narrativa si sviluppa largamente dalla narrativa di genere. A questo proposito, tuttavia, è indispensabile rifiutare di sovrapporre l’indagine tipologica con una valutazione aprioristicamente negativa, come mostrano autorevolmente, e direi definitivamente, sia il citato Schulz-Buschhaus, sia i lavori di Vittorio Spinazzola. Né si dovrebbe mai dimenticare che scrivono in modo seriale non solo i campioni della narrativa di genere (da Conan Doyle a Salgari, da Rex Stout ad Agatha Christie, a Simenon e Camilleri), ma anche e proprio i campioni della grande narrativa ottocentesca, a cominciare da Hugo e Balzac, per proseguire con Zola, per non parlare dei fratelli Goncourt, e poi di Dickens, Tolstoj, Dostoevskij. Proprio questi ultimi campioni della narrativa di grande qualità sono però “seriali” in un senso nuovo, che non è più, o non è solo, quello della saga e del mito, ma proprio quello della moderna produzione “industriale” di prodotti per l’intrattenimento e il tempo libero. Serie e serialità, in altre parole, sono un dato portante della narratività di tutti i tempi, ma potenziato e diffuso all’infinito dalle nuove frontiere prima dell’alfabetizzazione di massa, poi della diffusione, ancora più di massa, della narrativa a fumetti, del cinema e poi della narrativa televisiva, in tutti i suoi generi. La dimensione commerciale, lo sappiamo, è centrale in questi prodotti, come lo era già nella scrittura programmaticamente prolissa di Dumas padre o dello stesso Dostoevskij: ma può essere declinata a molti livelli di complessità, e con i più diversi risultati dal punto di vista del risultato estetico. Negli ultimissimi decenni è successo però anche qualcos’altro, perché il rimescolamento di livelli, e la cancellazione tendenziale di un confine rigido fra highbrow e low-brow (già strutturale prima nel sistema della letteratura moderna e poi ancora più largamente nell’universo dei media mainstream) si è allargato ulteriormente, andando a toccare anche e proprio le aree tradizionalmente meno qualificate, come persino le serie televisive, un tempo ascritte agli strati più squalificati della produzione narrativa. La serialità narrativa mainstream, inoltre, nata anzitutto con il cinema, aggancia l’inarrestabile affermarsi della transmedialità, fino ad assumere rinnovati caratteri strutturali in relazione sia alle nuove tecnologie, sia a nuove dinamiche economiche. Penso, in specie, all’affermazione del franchise, dove il brand fa aggio sullo stesso plot, e alle serie generate in regime di franchise (come, esemplarmente, Matrix), o a questo approdate, come il già citato Star Wars. D’altro canto, come ha mostrato Henry Jenkins (Cultura convergente, Apogeo 2007), con qualche eccesso di ottimismo e di fiducia, le nuove modalità di fruizione, intrecciate con le stesse caratteristiche tecnologiche dei new media, generano dinamiche inedite tra produzione delle majors e cultura grass-root, fra dinamiche top-down e bottom-up, fino a generare conflitti tra i fan più creativi e le majors, che pure dei fan hanno sempre bisogno. Con un altro fatto molto significativo: decisamente inattese, anche negli effetti virtuosi, possono essere le risultanze in sede educativa, come mostrano le vicissitudini politiche della diffusione di Harry Potter e dei suoi derivati, specie negli Stati Uniti, alle origini di un movimento assai robusto di protagonismo culturale dei giovanissimi lettori, in chiave rigorosamente laica e libertaria, avversato dai conservatori più rigidi.
Per tornare alle serie narrative televisive, probabilmente è davvero in corso un cambiamento di paradigma, oltre che di distribuzione dei livelli qualitativi. È in gioco, certo, anche il passaggio da forme inclini a un vistoso conservatorismo, pure nei prodotti di qualità (si pensi agli ottimi sceneggiati della tv italiana anni sessanta-settanta), a una vigorosa innovatività tematica e formale. L’avvio della nuova stagione si colloca, cronologicamente, dalle parti di Twin Peaks di David Lynch, avviato nel 1990. E potremmo continuare citando, per casi più recenti, i tratti di vistosa innovatività tematica e formale di serie di successo più recenti, come Doctor House (variante trasgressiva e cattivista del tradizionale medicai o hospital drama, quello del Doctor Kildare, di E.R. Medici in prima linea e di Grey’s Anatomy) fino ai citati Breaking Bad e House of Cards. In questi ultimi due troviamo anzitutto una clamorosa infrazione ai principi della positività del protagonista principale (che persisteva nel Doctor House, nonostante la sua sgradevolezza e i metodi poco ortodossi). A questa si affiancano non poche ulteriori trasgressioni tecniche: come, per House of Cards, l’effetto di deformazione e compressione dello spazio visivo prodotto dalle riprese con rapporto d’aspetto 2:1 (invece dei tradizionali 4:3 e 16:9); ma soprattutto il vistosissimo, spudorato guardare in macchina del protagonista Frank Underwood, che rompe un basilare tabù di verosimiglianza, permettendosi persino di parlare al pubblico, quasi a cercare un’impossibile, inaudita complicità con le proprie malefatte.
La letteratura, dal canto suo, ha strumenti tecnici certo meno potenti. Ma pure non smette di costruire nuove modalità rappresentative, magari anche usando lo strumento antichissimo della serialità. È dell’altro ieri il successo dell’Amica geniale. Ed è di pochi mesi fa l’uscita del romanzo di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, accompagnato da un immediato riscontro di pubblico, e dall’annuncio, da parte dell’editore, che il sequel è già in lavorazione. Una volta di più, la storia continua…