L’intreccio di potere e le strategie dietro l’operazione che hanno portato la Mondadori ad essere il primo editore del settore Trade in Italia e che hanno permesso ai soci di Rcs di mantenere il controllo del «Corriere della Sera». Sullo sfondo la crescita dei grandi protagonisti dell’editoria mondiale.
«Durante tutta la mia carriera ho viaggiato in paesi sparsi qua e là nel mondo. E i genitori ovunque chiedono la stessa cosa – loro vogliono più investimenti nell’educazione perché i loro figli possano avere una formazione migliore, un lavoro migliore e successo nelle loro vite. E la storia del progresso umano». Il tono è degno del replicante Roy Batty, che col volto di Rutger Hauer ha reso celebre il film Blade Runner tratto dal romanzo di Philip K. Dick. In realtà sono le parole che John Fallon, il numero uno del gruppo Pearson, ha scritto in un editoriale da lui firmato sul quotidiano «Evening Standard» il giorno in cui la società ha annunciato di aver venduto due giornali storici come l’«Economist» e il «Financial Times», per concentrarsi su un unico settore editoriale: l’Education. Fallon ha elevato all’altezza del «progresso umano» la missione industriale della sua società, dimenticando forse per un momento come le imprese e i suoi obiettivi siano stati meglio descritti dall’economista Milton Friedman, per il quale «l’unica responsabilità sociale di un’impresa è fare profitti».
Ogni anno nel mondo vengono spesi tremila miliardi di dollari per l’educazione e da qui al 2020 ci sarà un miliardo di persone che vorrà imparare l’inglese. E Fallon – a capo di un gruppo quotato della City dove l’utile per azione conta più dei buoni propositi – torna nel suo campo, nel solco tracciato da Friedman, quando afferma di aver accelerato gli investimenti per fare più soldi possibili sia nell’editoria scolastica sia nell’insegnamento. Come? Attraverso lo sviluppo delle tecnologie digitali nelle economie e nei paesi con i più elevati tassi di crescita. «Stiamo già conducendo – ha scritto Fallon – corsi universitari, scuole di inglese e corsi virtuali di insegnamento secondario negli Stati Uniti, in Cina, Brasile e Africa.» E nessuno di questi è gratuito. La crescita è lì e lì vuole andare la Pearson, un colosso nato a metà dell’Ottocento con l’idea di costruire palazzi, finito negli anni per concentrarsi sull’editoria scolastica e sull’educazione. Nel 2014 il suo giro d’affari, pari a quasi cinque miliardi di sterline, arrivava per il 42% dalla scuola, per il 35 % dai libri per i college e gli studenti delle scuole superiori e per il 23 % dall’editoria professionale. Tra le partecipazioni, in società con la tedesca Bertelsmann, anche il 47 % di Penguin Random House, la più grande casa editrice al mondo le cui pubblicazioni vanno da Winnie the Pooh all’Ulisse di Joyce. Oggi, più di sei sterline su dieci che compongono il profitto operativo della Pearson (qualcosa come 720 milioni di pound) derivano dal settore Education. E questo Fallon lo sa bene.
Vendere un quotidiano come il «Financial Times» e un settimanale vecchio di 172 anni del calibro dell’«Economist» è servito per raccogliere fondi da investire nel settore Education che sembra prospettarsi ben più remunerativo e duraturo della carta stampata e della sua declinazione online. Il principale quotidiano finanziario inglese ha una diffusione di 720mila copie, il 70% delle quali arrivano a casa o negli uffici degli abbonati in versione digitale. La crescita delle copie su tablet e telefonini ha in parte neutralizzato il declino delle vendite in edicola e della pubblicità. Ma non ha convinto Fallon e i suoi azionisti a tenere nel portafoglio alcun prodotto giornalistico. Con l’uscita delle due testate inglesi, la Pearson ha abbandonato definitivamente la stampa: già nel 2007 aveva venduto «Les Echos», il principale giornale economico francese, al gruppo del lusso Louis Vuitton per 240 milioni di euro in contanti e nel 2013 ha rinunciato per 382 milioni di sterline anche a Mergermarket, uno dei più brillanti siti di informazione finanziaria. Ora non resta più nulla. Dalla vendita delle azioni dell’«Economist» alle famiglie Agnelli, de Rothschild, Cadbury e Schroder il gruppo ha incassato 469 milioni di sterline. A questi si aggiungono altri 844 milioni ricevuti per la cessione del «Financial Times» al gruppo media giapponese Nikkei, noto per aver dato il suo nome all’indice di Borsa di Tokyo. Tutti i fondi raccolti sono andati a sostenere la crescita nell’editoria scolastica e professionale.
La strategia della Pearson illumina di riflesso la transazione tutta italiana che ha avuto come attori la Mondadori e la Rizzoli: la vendita della Rcs Libri al gruppo editoriale della famiglia Berlusconi. A citarla è stato il presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, in una intervista al «Corriere della Sera»: «Random House ha comprato in Gran Bretagna Penguin e in Spagna Santillana, Gallimard in Francia ha acquisito Flammarion, Pearson vende le quote nel “Financial Times” e nell’“Economist” per investire nell’editoria scolastica. Oggi – racconta al quotidiano edito dalla Rizzoli – è necessario concentrarsi sul mestiere che si sa fare meglio. E la Mondadori i libri li sa fare molto bene, sono l’attività da cui è cominciata la sua fortuna, la più antica e la più solida». La Pearson diventa un esempio da seguire e, per ingentilire l’aspetto monopolistico della fusione tra il primo e il secondo operatore dell’editoria italiana, Marina Berlusconi ha inquadrato l’operazione in un contesto europeo e mondiale. «Siamo piccoli, troppo piccoli», si lamenta il presidente, sostenendo che per competere con i giganti stranieri o con società come Amazon serve un salto dimensionale. Ma anche con l’acquisto della Rizzoli, la Mondadori non ha i numeri per gareggiare all’estero. Nella classifica mondiale 2015 dell’editoria di «Publishers Weekly» e «Livres Hebdo», stilata in base al fatturato dell’anno precedente, la casa di Segrate non va oltre la 37esima posizione e la Rcs Libri oltre la 48esima. Insieme non raggiungono nemmeno la De Agostini, in 18esima posizione, ma si posizionerebbero al 30esimo posto in graduatoria. Il podio spetta proprio alla Pearson, seguita dalla Thomson Reuters e dalla Relx Group, tutti con fatturati di miliardi di euro e impegnati per lo più nel segmento professionale e universitario. La Mondadori aggiunge ai suoi 336,6 milioni di ricavi nei libri i 221,6 milioni di euro della Rcs, ma non crea un colosso internazionale. Semmai dalla fusione nasce un grande problema di Antitrust italiano nel settore Trade, la parte più ampia dell’editoria che comprende i romanzi e la saggistica venduta in libreria. Escludendo Adelphi, che la Rizzoli ha ceduto al socio editore Roberto Calasso, la nuova società avrà il 35 % della torta Trade.
La Mondadori resta piccola nel mondo. La Pearson per competere su scala globale si è concentrata su un solo settore strategico, la casa di Segrate no: in uno scenario di crisi in cui tutto diventa lecito, ha creato un monopolio in Italia con la scusa di competere all’estero e, per evitare di dipendere da un solo business concentrato per lo più in un solo mercato, ha mantenuto la diversificazione in più comparti. Più dei Libri (27 %), sul fatturato di oltre 1,1 miliardi, contano i periodici venduti in Italia (24%) insieme con quelli distribuiti in Francia (28%) con testate come «Panorama», «Closer», «Grazia», «Donna Moderna», «Chi», «Tv Sorrisi e Canzoni». Il resto dei ricavi (17%) arriva da seicento negozi che vendono di tutto alla clientela retail. E per raccogliere le munizioni necessarie alla sua espansione, i manager della Mondadori hanno deciso di vendere non i media, come ha fatto la Pearson, ma solo il settore Radio (il marchio noto al pubblico è R101) che pesa sui ricavi per l’un per cento. Una cessione, tra l’altro, tutta sui generis perché avvenuta tra le mura domestiche e in concomitanza con una operazione parallela condotta dalla stessa Rcs: la Mondadori ha venduto le frequenze non a un estraneo, ma a Mediaset, una delle tre gambe insieme con la stessa Mondadori e Mediolanum dell’impero economico che la famiglia Berlusconi ha costruito intorno alla Fininvest. L’obiettivo è creare un nuovo polo radiofonico unendo R101 con le emittenti che contestualmente la Rcs ha ceduto alla famiglia Hazan, già socia della Rizzoli con il 55,5% nella holding Finelco proprietaria dei marchi Radio Montecarlo, R105 e Virgin. Da questa operazione la Rcs ha ricevuto 21 milioni di euro, mentre la Mondadori ne ha incassati 36,8.
La bontà economica del complesso scambio di pedine è stata analizzata da una casa d’affari tutt’altro che indipendente, l’ufficio studi di Mediobanca, l’istituto che, oltre a essere un azionista rilevante di Rcs (col 6,5 % del capitale è il terzo socio dietro la Fiat che esprime il 16,7% e a Diego Della Valle, il patron del gruppo Tod’s, con in mano il 7,3 %), vede tra i partecipanti al proprio patto di controllo la Fininvest di Berlusconi: la holding ha il 2% di Mediobanca e la metà della quota è vincolata all’accordo di governo tra i soci. Un altro 3,4 % di piazzetta Cuccia è intestato alla Mediolanum. L’uomo onnipresente di questo intreccio di poltrone e quote azionarie è Maurizio Costa, l’ex amministratore delegato della Mondadori, oggi presidente di Rcs, ma anche vice presidente di Fininvest e consigliere di Mediobanca.
Il giorno dell’acquisto della Rcs Libri, gli analisti di Mediobanca hanno benedetto l’accordo, alzando il loro giudizio. Una sorta di consiglio per l’acquisto del titolo in Borsa della Mondadori passato da «neutrale» a «interessante». «Noi crediamo che il management della Mondadori possa estrarre un discreto valore dall’accordo con Rcs che stimiamo essere di circa 15 milioni di euro in tre anni», hanno scritto nella nota che ogni mattina inviano ai propri clienti prima dell’apertura delle contrattazioni di Piazza Affari. Il nuovo gruppo fin da subito avrà un fatturato di circa 550 milioni e incrementerà il margine operativo lordo dagli attuali 60 fino a 80 milioni di euro. Secondo Mediobanca, con un forte taglio dei costi sulla distribuzione, sulla stampa, sulla logistica e sul piano editoriale, Mondadori riuscirà a estendere i propri margini di profitto (intesi come il rapporto tra il margine operativo lordo e i ricavi), oggi intorno al 13 %, anche alla Rizzoli che da sola non va oltre il 4%.
Per Mondadori, dunque, l’acquisto della Rizzoli ha portato a rafforzare ulteriormente la propria leadership in Italia e ha prodotto diversi vantaggi economici. Per Rcs, invece, la cessione della divisione Libri ha procurato l’incasso immediato di 127,5 milioni di euro che potranno salire o scendere di cinque milioni a seconda dei risultati che il gruppo realizzerà nel 2015.1 contanti, come nel caso della dismissione della sede di via Solferino e delle radio, sono serviti per arginare le uscite di cassa, consolidare il debito ed evitare ai soci di mettere mano al portafoglio per ricapitalizzare il gruppo. Ma non hanno risolto i problemi della Rcs che, dopo aver perso circa duecento milioni nel 2013, ne ha persi altri cento nel 2014, una situazione aggravata dall’uscita anticipata dell’ultimo amministratore delegato, Pietro Scott Jovane. Il manager si è dimesso nei giorni successivi alla cessione della Libri, avvenuta a ottobre, sei mesi dopo aver incassato nell’assemblea di aprile l’investitura dei soci a proseguire il suo mandato. Con l’operazione la Rcs ha rinunciato a una parte importante della sua storia e del suo business perché, oltre al prestigio del marchio Rizzoli rimasto in casa ma non più associato all’attività libraria, ha perso una divisione che, sebbene non andasse a gonfie vele, vantava tuttavia un margine di profitto e garantiva, come nel caso della Mondadori, una diversificazione in grado di compensare le eventuali perdite di quotidiani e periodici.
La cessione potrebbe avere un senso diverso se la Rcs imboccasse con convinzione la strada dell’internazionalizzazione nei media, additata però come la causa dei mali del gruppo perché condotta senza una sufficiente maestria finanziaria. I debiti della Rcs sono lievitati proprio con l’acquisto di Recoletos. A vendere agli italiani il gruppo editoriale spagnolo, proprietario tra l’altro del leader dell’informazione finanziaria iberica «Expansion» e di quella sportiva «Marca», era stata in prima battuta, nel 2004, proprio la Pearson quando iniziò la sua strategia di uscita dai giornali: la Recoletos venne venduta a un gruppo di investitori finanziari, raggruppati nella holding Retos Cartera, per 941 milioni di euro. Già allora si parlò di una cessione esosa, ma il culmine si toccò tre anni dopo, con l’arrivo di Rcs che sborsò per il gruppo editoriale spagnolo ben 1,1 miliardi di euro a fronte di un fatturato di poco superiore ai 300 milioni. A dirigere i giochi fu Antonello Perticone, ex amministratore delegato de «La Stampa», al vertice di Rcs dal 2006 al 2012, per volere di Fiat. A fine 2007, la Rcs chiudeva ancora il bilancio in utile (220 milioni di euro), ma per le acquisizioni in Spagna si trovava improvvisamente con un debito netto di 966 milioni, mentre l’anno prima aveva in banca una disponibilità di 5,6 milioni di euro. Quando Perricone esce con una buona uscita di 3,4 milioni, il gruppo chiude il bilancio con un rosso da 500 milioni proprio a causa della svalutazione da 300 milioni delle attività editoriali iberiche. Al suo posto, sempre sotto l’egida di John Elkann, arriva Scott Jovane che però abbandona il timone dopo appena tre anni, tutti in rosso per Rcs, in concomitanza con la cessione della Libri alla Mondadori e senza aver attuato il rilancio del gruppo.
Le critiche all’operato degli ultimi due numeri uno sono giunte dai giornalisti del «Corriere della Sera» e dai lavoratori della Rizzoli, ma anche da un azionista come Urbano Cairo, proprietario del 3,7% di Rcs, che ha accusato i manager di aver bruciato cassa e di aver ceduto i gioielli del gruppo, tra cui la Libri, in un momento non opportuno: chiunque può comprendere come sia difficile strappare un buon prezzo quando tutti i possibili compratori sanno di aver di fronte un venditore costretto a vendere. Eppure gli Agnelli, azionisti di riferimento di Rcs col 16,7% posseduto attraverso Fiat, avrebbero potuto guidare meglio i loro uomini in consiglio. La holding di famiglia, la Exor, è diventata la più grande società italiana per fatturato (122,2 miliardi di euro), scalzando niente meno che il primato dell’Eni (109,8 miliardi), con una mirata crescita all’estero. Le fusioni tra Fiat e Chrysler da una parte e tra Fiat Industriai e Cnh dall’altra, attive nei macchinari agricoli e nel movimento terra, sono il simbolo di una internazionalizzazione riuscita a cui si affiancano l’acquisto del riassicuratore statunitense PartnerRe. E nella nuova ottica mondiale, nella cassaforte degli Agnelli è finita anche la maggioranza dell’«Economist», ceduta dalla Pearson. Di fatto l’attuale ventaglio di partecipazioni della famiglia duplica lo stesso schema che la holding aveva avuto in passato, ma in versione internazionale e non più in salsa nostrana: nel settore auto alla Fiat è subentrata la Fca, nei veicoli industriali è nata la Cnh Industriai, nel settore assicurativo dopo la Fondiaria è arrivata la PartnerRe e nell’editoria «La Stampa» è stata affiancata dall’«Economist». La partecipazione in Rcs, invece, non ha ancora sviluppato tutte le sue potenzialità anche per il groviglio di soci che la impaluda. Dietro a Fiat col 16,7%, gli altri azionisti sono Diego Della Valle col 7,3 %, Mediobanca col 6,5%, Pirelli, Intesa e Unipol con quote intorno al 5% e Urbano Cairo col 3,7 %.
Dall’operazione Libri, Rcs è uscita con un po’ meno debiti, ma depotenziata, con le tasche comunque vuote e senza un piano ben definito, se non quello di mantenere il controllo del «Corriere della Sera», il vero centro di interesse dei suoi azionisti che editori non sono. Mondadori, invece, è diventata monopolista nell’editoria Trade italiana, ma è rimasta piccola per affrontare l’agone internazionale, anzi lei stessa, se il suo arrocco non dovesse essere vincente, potrebbe diventare una preda di gruppi con fatturati plurimiliardari. Il profumo e l’intreccio di potere che ruotano intorno all’accordo hanno provocato in Italia la preoccupazione di molti letterati e dei sindacati. Per gli scrittori sarà più difficile opporsi alla volontà del «Grande editore nazionale», minacciando il passaggio a una casa concorrente di pari importanza che ormai non esiste più, mentre per i lavoratori si prospettano tagli e cambi di mansioni.
Quando l’articolo è stato redatto (ottobre 2015), l’Antitrust non aveva ancora espresso il suo giudizio sull’operazione.