Marco Paolini e Ascanio Celestini sono forse i rappresentanti più eminenti delle rispettive generazioni nell’ambito del cosiddetto «teatro di parola». Il loro personalissimo stile li porta sovente a muovere dalla forma teatrale verso la scrittura romanzesca, fìlmica e musicale, rendendo labile il confine tra oralità e testualità. La varietà dei generi frequentati, seppure con modalità e approcci molto diversi, richiama alla mente per entrambi un identico modello: quello pasoliniano.
A cavallo tra anni novanta e duemila, il teatro degli autori e degli attori che mettono la «parola», o meglio il «discorso», al centro del loro lavoro ha goduto, e in parte gode ancora oggi, di ottima salute e di una vasta risposta da parte del pubblico. Autori che hanno eletto ad habitat prediletto quel multiforme, ma ben delimitabile, territorio che si estende fra i poli della rappresentazione scenica e dell’orazione, del racconto ad alto voltaggio figurativo e della parola raccontata, della narrazione «per l’occhio» e della narrazione «per l’orecchio». Vi rientrano a vario titolo, non senza che gli elementi di originalità possano fare aggio sulle consonanze, donne e uomini di primo piano del cosiddetto teatro di narrazione, da Laura Curino a Marco Baliani, da Alessandro Bergonzoni a Marco Paolini e Ascanio Celestini.
In particolare questi ultimi, forse i rappresentanti più eminenti delle generazioni cui appartengono, quella dei nati rispettivamente negli anni cinquanta e negli anni settanta, sono inclini a tentare una traduzione assai variegata, in quanto al genere di destinazione, della loro verve ispirativa. Muovono sì dal nucleo originario del teatro, ma per procedere verso la scrittura romanzesca, filmica e persino musicale, certo non tentati solo dalla logica economico-editoriale di sfruttamento dell’attenzione risvegliata nel pubblico dai loro spettacoli. Ne sortisce un intricato viluppo variantistico, che può creare qualche disorientamento negli spettatori, nei lettori e nei critici, quando ci si proponga di seguire le tracce delle rinnovate identità assunte da un medesimo titolo, da un medesimo nucleo tematico, narrativo e concettuale, nel passaggio da un’incarnazione espressiva all’altra. Lo stesso Celestini, con una consapevolezza che di solito preferisce dissimulare dietro l’alibi di un’apparente levità, dietro il disinteresse per le teorizzazioni, ha osservato: «Per me è come se tutti questi campi – cinema, libri, teatro, tv – fossero i luoghi dove io smonto e rimonto le stesse cose»; e intanto, «passando da un campo all’altro, smontando e rimontando, i pezzi si moltiplicano» (è di un brano del lungo dialogo di Celestini con Alessio Lega pubblicato da Elèuthera nel 2012).
Già in questi pochi aspetti – nella varietà dei generi frequentati, pur sullo sfondo di Leitmotive che ritornano identici anche a distanza di tempo – si riconosce nel lavoro di Paolini e Celestini l’azione del modello pasoliniano, qua e là presente in modo esplicito, per non dire programmatico. Non stupisce che venga attribuita a Pier Paolo Pasolini, e non a un altro intellettuale italiano secondonovecentesco, lo statuto di paradigma di riferimento da parte di autori «anfibi», impegnati su vari tavoli, in equilibrio sul ponte di passaggio fra lavoro schiettamente letterario e lavoro per la scena, variamente intesa. E esattamente la capacità di reinventarsi come letterato e artista in relazione ai potenti mutamenti in atto sin dagli anni cinquanta il quid che calamita Paolini, Celestini e tanti altri verso l’eredità pasoliniana: quel che dapprincipio sembrò una contraddizione, o peggio un’ipocrita svendita di sé, oggi, piaccia o no, pare invece costituire la conditio sine qua non della possibilità stessa, sfruttata al meglio proprio da Pasolini, di ricevere ancora un qualche ascolto pubblico, di venire reputato latore di un’eredità ancora fungibile.
Muovendo da tali presupposti, i nostri autori varcano di continuo, nelle due direzioni, il confine fra oralità e scrittura, dando l’impressione di voler abolire tale demarcazione (al netto appena degli elementi diatopici più marcati, comunicabili soltanto nel parlato) o comunque di percepirla al più come un confine incerto. Nondimeno, non si tratta soltanto di questo: a ben guardare, sia il cantastorie anarchico Celestini, sia l’oratore progressista Paolini, nei loro spettacoli ci chiamano a svolgere un esercizio non troppo dissimile da quello della lettura. Nel primo caso, oltremodo scarna la scenografia, ridotta al minimo la gestualità, assenti altri personaggi dalla scena, il racconto va immaginato tenendo come unica traccia la cascata di parole pronunciate dal protagonista. Nel caso di Paolini, a sua volta affrancato dall’incombenza del dialogo e perciò libero di monologare a volontà, il discorso, instancabilmente condotto per via di argomentazioni, impone al fruitore un costante sforzo di ascolto razionale delle parole dell’unico interprete. Niente di più distante dal cosiddetto «teatro di rappresentazione» – come invece è, per tanti versi, quello di Emma Dante, a sua volta drammaturga, regista e scrittrice molto attiva nell’ultimo ventennio –, e niente di più prossimo al «teatro di parola», per dirla ancora à la Pasolini.
Ma, è noto, nei pressi del pianeta pasoliniano attecchiscono e si sviluppano esperienze assai diverse. Celestini e Paolini, entrambi autori, registi e protagonisti dei loro spettacoli, seppure affini per alcuni aspetti, rivelano altresì temperamenti e preferenze discordanti. Paolini possiede una solida vena lirico-pedagogica: l’io narrante dei suoi spettacoli prende parola in quanto intellettuale che «sa» (secondo un atteggiamento che non si può non ricondurre al celebre «io so» pasoliniano), con l’intento di decifrare, a favore del pubblico, alcuni momenti-chiave e alcune peculiarità essenziali della società italiana postbellica. Svolge così un assiduo movimento pendolare fra eventi di vasta portata collettiva e la propria esperienza di individuo, spesso lungamente rievocata in suoi episodi più o meno minori, e chiamata in causa a mo’ di introduzione e controcanto arguto al nucleo tematico prioritario dello spettacolo. Paolini accoglie dunque la sfida, più novecentesca che «duemillesca», di stringere in un rapporto razionale la storia con la «s» minuscola e la storia con la «s» maiuscola. Non stupisce perciò che la sua appassionata oralità, e la sua stessa presenza fisica sul palcoscenico, così mobile e avvolgente, risultino tese anzitutto ad accrescere la persuasività del discorso. In questa prospettiva – al di là della maggiore capacità di Paolini di occupare la scena, nonché di intrattenere il pubblico anche con il sorriso, grazie a ben calibrate discese di tono – è facile stabilire un legame con un altro autore ascrivibile alla scuola pasoliniana, assiduo frequentatore di quotidiani, teatri e studi televisivi: ossia Roberto Saviano.
L’orizzonte di Celestini è alquanto diverso: per lui l’oralità non è uno strumento di persuasione, ma il tono stesso e il sapore della realtà cui intende dare voce. Lo testimonia il suo metodo di lavoro, fondato sulla raccolta di materiale attraverso un gran numero di interviste condotte in prima persona (è il procedimento etno-antropologico impiegato da Celestini fin dai tempi degli studi universitari) e poi su una reinvenzione collettiva di tali spunti, svolta durante le decine di laboratori teatrali tenuti in tutta Italia. Soltanto nell’ultima fase entra in gioco l’originale rielaborazione autoriale, sul cui esito continua comunque ad agire in modo sensibile il tenore degli ingredienti di partenza. Così, pur essendo autore e interprete esclusivo dei suoi spettacoli, Celestini tende ad attenuare la propria consistenza biografica e la connessa autorevolezza intellettuale, per diventare voce – filtro e veicolo – di vicende altrui. Celestini, insomma, è un vero e proprio narratore, anzi un cantastorie, che ripete, orchestra e re-inventa racconti di origine orale. A sua volta in bilico, come Paolini, fra piccola e grande storia, Celestini tuttavia non accoglie il «piccolo» in funzione del «grande», vale a dire che non perlustra l’umile limitatezza della quotidianità allo scopo di condurre da lì il pubblico alla comprensione dei meccanismi soggiacenti a più vasti orizzonti. Si direbbe invece che Celestini – pasolinianamente – ami, e intenda perciò immergervisi e rappresentare il piccolo e l’umile, anche al di qua di ogni tensione generalizzante, la quale pure è bene installata nei suoi testi, ma in modo mai scoperto: piuttosto vi è come disciolta ovunque, senza fare esplicitamente capolino in nessun luogo.
Insomma, per Paolini l’accento batte sull’autore-interprete e sulla sua funzione di testimone al servizio della collettività, con un piglio che è anche documentario e perfino educativo, con il corrispondente movimento a dare, dall’alto verso il basso. Per Celestini si tratta invece di ri-produrre originalmente testimonianze dal vero, con un movimento che parte dal basso, dal banale quotidiano, per diffondersi in orizzontale.
Tutto ciò si evince anche dal linguaggio impiegato dall’uno e dall’altro. Come tanti rappresentanti del teatro di narrazione, il veneto Paolini impiega un italiano standard qua e là maculato di localismi: una moderata miscela da cui ricava esiti enfatizzanti, in direzione sia del comico sia del tragico. Quello celestiniano è invece un italiano regionale permeato ovunque di una romanità viva, anzitutto perché è la lingua di uso quotidiano dell’uomo Ascanio Celestini. Non stupisce, allora, che i suoi lavori palesino una più grande discrasia fra la realizzazione parlata e la loro traduzione scritta, essendo questa caratterizzata da una minore pervasività dei tratti regionali: sintomo del disinteresse di Celestini per la messa a punto di una strategia linguistica in grado di restituire anche nei libri a stampa la vivacità, per così dire, popolana degli spettacoli, nei quali la bellezza coincide, ancora una volta pasolinianamente, con la raffigurazione della miseria e dell’emarginazione, e della loro innocenza. La sua è un’estetica che potremmo definire archeologica: Celestini ha prediletto a lungo ambientazioni belliche, come la Seconda guerra mondiale (in Radio clandestina e in Storie di uno scemo di guerra) e il Risorgimento (in Pro patria), entrambi osservati d’en bas. Ma è anche un’estetica antropologica, con uno sguardo che si concentra sui margini sfrangiati della contemporaneità, a partire dai settori della piccola borghesia che subiscono potenti processi di sottoproletarizzazione: zone marginali, certo, ma soltanto per l’ideologia «arrivistico-divertentistica» vigente nei decenni postmoderni, e invece, di fatto, nucleo di verità della più recente storia sociale nostrana (si pensi a Fabbrica, a Lotta di classe, a Io cammino in fila indiana).
Ben diverso è anche il modus operandi scenico di Paolini e Celestini. Quest’ultimo, voce anonima di storie altrui, è quasi sempre seduto, pressoché immobile, su un fondale massimamente scarno: una non-scenografia che fa leva soltanto sulla forza di suggestione della parola, sulla capacità di questa di ricreare le sequenze di immagini che costituiscono il corpo del racconto. Da parte sua, Paolini, in incessante movimento, gesticola, appella gli spettatori, li sollecita, li interroga, verifica il loro grado di intendimento dei lunghi monologhi, a volte pronunciati in suggestive ambientazioni «dal vero», come la diga del Vajont (per il racconto dei fatti tragici del 1963) e Gibellina vecchia (luogo ideale per rievocare il disastro aereo di Ustica), come la laguna veneta (emblema dell’identità veneziana) e il porto commerciale di Taranto (dove hanno guadagnato concretezza allo stesso tempo fisica e simbolica gli argomenti circa lo strapotere delle merci). Celestini non solo torce il collo a qualsivoglia eloquenza saggistica e ostenta la predilezione per un’oralità tutta rivolta all’atto del narrare, ma di quest’ultimo accoglie senza remore la finzionalità letteraria: in scena infatti si presenta come un locutore che si rivolge a un fittizio narratario assente. Perciò gli astanti, a differenza di quanto succede negli spettacoli di Paolini, non sono ascoltatori di un discorso rivolto espressamente a loro, con schietti scopi informativi, ma sono piuttosto spettatori di parole idealmente destinate a qualcun altro.
Qui si tocca con mano il quid finzionale e letterario dell’oralità celestiniana: se Paolini impone un ordine argomentativo ed espositivo ai propri copioni, instaurando, come detto, un rapporto quasi pedagogico con il pubblico, Celestini, al contrario, ha reso via via più esplicita la sua propensione al frammento narrativo, incastrato con altri in maniera più o meno anomala e sorprendente. Ecco infatti che nelle librerie i volumi firmati da Celestini sono collocati non nell’angolo, un po’ marginale, riservato ai testi teatrali, ma negli scaffali, meglio in vista, della produzione romanzesca contemporanea. Anche sulla scorta di tale lampante dato di realtà, i critici della letteratura dovrebbero prendere finalmente a considerare Celestini uno scrittore e un intellettuale a tutti gli effetti, tra i più interessanti dell’attuale panorama, e non cedere alla tentazione di affibbiargli esclusivamente l’etichetta di uomo di spettacolo.