Senz’altro noto e amatissimo come regista, più recentemente Ferzan Ozpetek si è cimentato nella scrittura pubblicando per Mondadori Sei la mia vita (2015), preceduto nel 2013 da Rosso Istanbul. La commistione fra sguardo retrospettivo e narrazione finzionale, senza impuntarsi di penna, colloca entrambi i libri nell’ambito dell’autofiction. In Sei la mia vita, in particolare, la presa di parola soggettiva si districa fra aneddoti gustosi (prevalentemente in salsa gay), retroscena cinematografici e psicologia da bar.
Non è immediato incasellare Sei la mia vita in un genere letterario; nelle classifiche di vendita viene non a caso compartimentato nella «Varia». Formalmente può considerarsi una raccolta di racconti a cornice, per il susseguirsi di situazioni luoghi ritratti che Ferzan Ozpetek, durante un viaggio in auto da Roma a un’isolata località montana, indirizza al compagno Simone. I ricordi si rincorrono in modo pretestuoso, senza un criterio cronologico e non senza bruschi passaggi al presente (ad esempio: «Ora che ci penso, sai chi mi ha fatto venire in mente il barista con i suoi gesti agili? Niccolò. […] Pensandoci bene, [Niccolò] è l’esatto contrario di Donata. […]»). Se così l’effetto collage risulta sempre in agguato, nelle pagine finali scopriamo che l’espediente della narrazione a Simone ha una più precisa funzione romanzesca. Lì Ozpetek ci svela che il suo, più che un racconto, è un tentativo di risvegliare la memoria del compagno affetto da un grave disturbo psichiatrico («Demenza precoce degenerativa primaria assimilabile a sindrome di Alzheimer», la diagnosi) e che con lui, in isolamento e come estrema prova d’amore, ha deciso di trascorrere il resto della vita.
L’aspetto più interessante del libro risiede proprio nella collisione fra la cornice finzionale correlata all’oblio memoriale di Simone (che nella realtà sta benissimo e che vive una storia ultradecennale con Ozpetek) e i racconti autobiografici dei medaglioni, che invece assumiamo per veri in quanto proferiti da un io narrante dalla voce individuata e dai tratti verificabili. A lettura conclusa, acchetata l’onda emozionale che il libro sa provocare, l’invenzione della cornice può così risultare destabilizzante, perché porta a interrogarsi sulla veridicità dei medaglioni, forse non proprio screditandoli, ma di certo depotenziando la forza del realmente accaduto. Se questo crinale interpretativo, a strapiombo fra realismo e fiction, è quello percorso dal lettore più avvertito, va però detto che il lettore medio sarà più verosimilmente pago dell’emozione e non verrà sfiorato dal sospetto di falsificazione dei fatti; piuttosto, al contrario, l’autenticità dei medaglioni contagerà la cornice, portando a credere alla malattia di Simone.
In seconda istanza questo lettore tipo – che possiamo immaginare un estimatore del regista, attirato all’acquisto del libro dal nome in copertina – riporterà alla memoria la fitta schiera di corrispondenze fra gli episodi raccontati dallo scrittore e i film in cui il regista li ha inscenati. A tentare il gioco si rintracciano numerosissime corrispondenze, qui impossibili da elencare; l’esempio che più giganteggia è probabilmente quello del transessuale Vera, Mario all’anagrafe, le cui peripezie occupano una trentina di pagine e che era già comparso nelle Fate ignoranti (2001) sotto le spoglie della sgargiante Mara.
In Sei la mia vita Ozpetek svela ai lettori che i plot e i personaggi dei suoi film provengono in buona parte dalla sua esperienza. D’altro canto il tratto fondamentale della poetica ozpetechiana consiste in un’imprevedibile combinatoria fra realtà e finzione. Tale poetica si esplica tanto nei film, come ammesso esplicitamente in più punti (ad esempio: «Capii che non dovevo fare altro che tenere le orecchie e gli occhi bene aperti, osservare e ascoltare»; «Il mio lavoro, lo sai, è raccontare storie. Non le invento, mi limito a ricostruirle»), quanto nei libri: nei ringraziamenti in coda a Sei la mia vita accenna infatti a «personaggi che non sono solo frutto della mia fantasia» e analogamente in Rosso Istanbul ringraziava le persone cui ha «rubato, come spesso accade, un pezzetto della loro vita». Il punto di partenza di Ozpetek sta nel reale o, più precisamente, nel ricordo che ne ha, un ricordo volta a volta ravvivato («forse è la nostalgia che rende più vividi i miei ricordi») o infiochito («più viene rievocato, più il ricordo si confonde»), comunque variamente modificato dalla memoria. Sul ricordo del vissuto – che, come spiega nel commento al film La finestra di fronte (2003), fa anche da garanzia di verosimiglianza – agisce poi l’immaginazione, direzionata verso un effetto emotivo, che per Ozpetek è prioritario.
Il racconto di Sei la mia vita acquista valore anche perché ci viene proferito dal regista Ozpetek, che ha deciso di aprirsi con noi. Pressoché istituzionalizzata nella narrativa italiana contemporanea, la narrazione in prima persona da un lato argina, grazie all’unico e individuato enunciatore, la frammentarietà dell’enunciato; dall’altro aggrava la partecipazione patemica ai fatti narrati, che crediamo realmente vissuti, o resocontati, da un testimone d’eccezione. Nello specifico, l’io narrante di Sei la mia vita si connota per la postura passionale ed empatica. Nella coppia Ferzan-Simone, è il primo a occupare la sfera più tradizionalmente femminile. Come è ovvio il sentimentalismo, al limite dell’idolatria, si addensa sulla figura di Simone, descritto come un eroe che, a parte il piccolo particolare dell’omosessualità, sarebbe stato degno di Liala. Crogiuolo di soli valori positivi, il Simone pre-malattia è anzitutto uomo dai nervi saldi, discreto e pacato. Più giovane di Ferzan, il che non guasta mai, è naturalmente bello, tanto bello, «di una bellezza profonda come il mare aperto» e di cui è inconsapevole: Simone fa parte di quelle «Creature così meravigliose, eppure tanto restie ad ammetterlo guardandosi allo specchio. Al contrario, pronte a sminuirsi, vedersi come le caricature di se stesse, quasi un concentrato di difetti». La sua positività risalta ancor meglio nella controluce di paragoni autoflagellanti: ad esempio, la generosità di Simone lo porta a cogliere il lato positivo delle persone, «Ma io non ho il tuo stesso dono» ed è Simone che ha «sempre saputo vivere il presente con maggiore consapevolezza, non io».
Proprio lo spray rosa può spiegare il gradimento del pubblico, testimoniato dalle buone tirature e dai numerosi riscontri adoranti che si possono leggere online, in particolare sulla pagina Facebook di Ozpetek. A rivolgersi a questo pubblico – composto in prima istanza da estimatori del regista, come abbiamo detto, e poi da donne e da gay – è una voce narrante a esso aderente, femminilizzata, che circonfonde d’amore la figura di Simone. Forse la verità, che spiega il successo di Sei la mia vita, come della letteratura rosa, è che non si vuole rinunciare al sogno del principe azzurro, anche se è gay. E allora forse aveva ragione Aldo Busi, pur nel suo solito oltranzismo, quando nel libro-intervista L’amore è una budella gentile. Flirt con Liala (1991) parlava del maschio come di una figura convenzionale, un «fantasma» che è «riuscito per tanti secoli a farla franca, spacciando per corpo suo la proiezione isterica delle donne e delle checche»; una proiezione su cui «alcune donne (e, va da sé, tutte le checche) non vogliono ancora aprire gli occhi: temono poi di non vedere niente del tutto, e a ragione».
Se scoprire la malattia di Simone fa in qualche misura digerire troppe parole spalmate di miele, resta il fatto che l’esternazione e quasi l’ostentazione impudica dei sentimenti finisce per mettere a disagio; può così andar bene per le cameriere definire la felicità come il «Sentirsi, anima e corpo, in assoluta armonia con l’universo, insieme a chi ami». Senz’altro più piacevoli appaiono invece i baldanzosi medaglioni descrittivi e la naturalezza con cui Ozpetek parla dei propri, naturalmente molto passati, trascorsi libertini. E senza paraventi moralistici che ad esempio racconta di quando, studiando a Perugia, abbinava una fidanzata stabile a numerose avventure omoerotiche, oppure di luoghi deputati al fast sex per soli uomini, come il Buco, spiaggia romana dove «si scopava furiosamente e basta», o il Circo Massimo, dove «La promiscuità sociale e sessuale era totale». La descrizione delle dinamiche del mondo gay, piuttosto promiscue, non ha nulla di laido; piuttosto si evince una detabuizzazione del sesso, considerato come un ineluttabile istinto primordiale: tanto i gay quanto gli etero rientrano nella tipologia del maschio che non riesce a tenerselo nei pantaloni.
Come nei suoi film, Ozpetek rappresenta i gay in modo onesto, con vivace salacità ma senza ribassi di gusto, concessioni al macchiettismo o allo scandalismo. Prendendo spunto dalla Volontà di sapere di Foucault, potremmo dire che insceni non tanto moderni «omosessuali» (leggi: una classe specifica, emersa con la seconda metà dell’Ottocento, la cui sessualità ne impronta la persona, con lo stereotipico corredo di comportamenti eccentrici), quanto «sodomiti», ovvero uomini le cui preferenze sessuali hanno a che fare con la stimolazione dei corpi, senza che ciò intacchi l’identità globale del soggetto. In questa rappresentazione il vero salto culturale Ozpetek l’aveva fatto al cinema, con Hamam (1997) e con Le fate ignoranti (2001), soprattutto se si pensa che gli antecedenti più noti erano ancora film come Il vizietto (Molinaro, 1978) e Culo e camicia (Festa Campanile, 1981). Nel cinema di Ozpetek, che presenta personaggi gay in ben sette film sui dieci finora realizzati, la «normalizzazione» dell’omosessualità risponde a una precisa scelta insieme poetica e militante. A esclusione della commedia Mine vaganti (2010), che cavalca comicamente alcuni stereotipi del mondo omosex, i gay di Ozpetek non fanno ridere né presentano tratti di esagerazione. Più frequentemente, sono uomini sull’orlo di una crisi di nervi: a loro pertiene, specialmente nei film, il pianto e l’emozione, mentre le donne appaiono più volitive.
Oltre al macrotema dell’omosessualità – che ne include altri, come lo spettro dell’aids, l’inseminazione artificiale, le unioni civili e la tolleranza («Il problema non è accettare, è condividere», si diceva già in Saturno contro, 2007) – l’altro tema portante di Sei la mia vita è quello dello sperdimento memoriale. Si tratta naturalmente della patologia di Simone, ma anche, in senso più ampio, della memoria storica, indispensabile per comprendere il presente e affrontare il futuro. Proprio il timore di dimenticare luoghi e persone, vissuto con sofferenza («Spesso avverto in modo quasi doloroso la responsabilità di preservarne la memoria»), spinge Ozpetek a fissare sul foglio e sulla pellicola episodi della sua vita. Se da un canto la memoria, soprattutto quando coadiuvata dall’arte, consente di sopravvivere alla morte, dall’altro è in grado di tirarci scherzi trasformando la realtà e confondendo passato e presente: a confermarne l’ossessiva centralità nella poetica di Ozpetek, fenomeni allucinatori compaiono anche nelle Fate ignoranti, nella Finestra difronte, in Cuore sacro (2005), in Saturno contro, in Mine vaganti, in Allacciate le cinture (2014) e sono il nucleo portante di Magnifica presenza (2012).
Anche per il resto, le pagine di Sei la mia vita vorticano su un ternario insistentemente ricorrente nei film di Ozpetek, lungo un confine molto labile fra coerenza d’ispirazione e ripetitività. Quella che con uno scioglilingua potremmo chiamare ozpetechitudine si raccoglie su temi quali l’identità delle persone, considerate tutte, al fondo, buone, perché nascosto dietro o dentro al nostro cuore, ce n’è un altro, che è sacro (Cuore sacro) il potere del destino e delle coincidenze, da cui dipendono le nostre vite; l’ammirazione per le donne, anzitutto perché capaci di portare cambiamento, in se stesse e in chi sta loro accanto; l’inevitabilità del tradimento, prerogativa maschile o comunque focalizzata sul maschio, e di eventi cataclismatici come la malattia o la morte (nei suoi film non mancano quasi mai scene d’ospedale, né morti d’ogni tipo: per accoltellamento, incidente, malattia, suicidio…); l’energia dei luoghi, che si impregnano della presenza di coloro che li hanno vissuti. Altri temi appaiono invece più triti, anche se forse a certo lettorato non avrà fatto male sentirsi ripetere che la personalità è più importante della bellezza esteriore, che non dobbiamo dimenticare da dove proveniamo, che per far colpo sugli altri dobbiamo anzitutto essere sicuri di noi stessi, che è meglio soffrire che non vivere appieno, che dobbiamo andare dove il cuore ci porta, e via deprimendo.
La forza del racconto di Ozpetek nasce dalla realtà esperienziale, da un sapere concreto, non da una capacità letterariamente forgiata di raccontare. Quella di Sei la mia vita è una scrittura non preoccupata, senza graffi né tratti individuanti, né tantomeno influssi riconducibili a una letteratura di retroterra. Questa autorialità così linguisticamente sbiadita parrebbe anzitutto dovuta a un editing intensivo, forse dettato da ragioni biografiche, anche se – turco, classe 1959 – Ozpetek vive a Roma dal 1976 e dichiara di pensare in italiano. Che tanto Sei la mia vita quanto il precedente Rosso Istanbul siano stati sottoposti a una decisa toelettatura editoriale e linguistica viene peraltro esplicitato nei ringraziamenti: mentre in Rosso Istanbul, accomiatandosi da «questo inatteso viaggio nella scrittura», Ozpetek accenna alla sua «ritrosia» nel «dar […] forma sulla carta» alle storie che aveva in mente e ringrazia le editor perché: «Leggere, confrontarsi, correggere, integrare, noi tre insieme, è stata un’esperienza davvero fondamentale e stimolante», in Sei la mia vita addita un’editor quale correa di «questa sua seconda prova di scrittura» e ne segnala un’altra per averlo assistito con correzioni e consigli «durante la stesura del libro».
Ad ogni modo, dopo le prime pagine che il susseguirsi di allocuzioni e schegge di ricordi rendono alquanto confusionarie, il respiro sintattico di Sei la mia vita si assesta sulla frequenza media, mentre Rosso Istanbul appariva improntato a una concitazione pressoché continua, talvolta liricamente protesa. I due romanzi appaiono distinti anche sotto il rispetto lessicale: Sei la mia vita guadagna in precisione rispetto alla piattezza di Rosso Istanbul, che – oltre alle voci turche d’ambiente, per lo più gastronimi – risultava incistato di forestierismi, forse lasciati cadere da una editor prestata dal giornalettismo di moda.
Pur presentandosi come racconto fatto al compagno, Sei la mia vita concede solo timide aperture al parlato, riscontrabili nell’uso di espressioni idiomatiche (ad esempio avere la sensibilità di un bisonte, fare un caldo assurdo ecc.), di voci di basso rango (farsi qualcuno, incazzoso, rimorchiare, sbolognare, scopare, stronzo), e di segnali discorsivi come ricordi?, lo sai, te l’ho mai confessato? ecc. che compaiono soprattutto quando il racconto pare dimenticare che c’è un «io» che parla a un «tu». E invece in pratica assente la mimesi di una supposta «lingua gay», al limite rintracciabile nel soprannominare Bruno, al femminile, «la Postina di Monteverde»; e poco, analogamente, si trova nei film: solo passivissima da Mine vaganti e macho-checca da Allacciate le cinture. Più consistente il lessico diciamo settoriale (drag queen, en travesti, trans, travestito) e le parole per definire la condizione omosessuale. Oltre al neutro gay, ricorrono checca e, di frequente, frodo, entrambi usati con sfumature più scherzose che offensive; frodo era peraltro già stato sdoganato in Saturno contro («Lei è gay? – No, io sono frocio») e poi in Mine vaganti’, mentre omosessuale «è una parola come un’altra», in questo film frocio – utilizzato più volte, anche dal protagonista per definire se stesso – viene percepito come meno asettico e forse più umano, di contro all’offensivo ricchione (si veda la dichiarazione in climax’, «sono gay… comunque avete capito bene? sono gay, omosessuale, finocchio, frocio, ricchione…», o lo scambio di battute: «uno non è che ce l’ha scritto in fronte che è omosessuale! – Omo-che? E ricchione!»).
Con il suo stile semplice ma non semplicistico Ozpetek incontra i gusti di un pubblico vasto, più propenso verso lo storyteller che verso lo scrittore letterariamente atteggiato. La scrittura testimoniale lo inscrive nella tendenza contemporanea del ritorno alla realtà, coonestata dall’estetica alla moda fondata sul reality show e sull” olirne disinhibition effect (John Suler) tipico del web, che alla grata del confessionale sostituisce uno schermo sempre più sottile. Ai suoi libri, come ai suoi film, Ozpetek consegna luoghi e situazioni che ti entrano dentro per rimanerci per sempre, la rievocazione di cose e persone, il ricordo di certi morti più vivi dei vivi.