Il metodo e il fine di Saviano

Le polemiche che hanno accompagnato l’uscita negli USA di Zero Zero Zero hanno riaperto la questione dell’attendibilità della scrittura di Roberto Saviano. Ma nel romanzo, al di là delle accuse di plagio e di «disonestà», ciò che più delude è il rapporto tra il protagonista e il territorio narrato. Costretto a ricorrere a intermediari per raccontare una vicenda che si snoda su scala planetaria, infatti, il narratore si affida a una ricerca dell’effetto esasperata e inefficace.
 
Dopo l’uscita negli Stati Uniti di Zero Zero Zero, il libro di Roberto Saviano sulla cocaina edito da Feltrinelli nel 2013 e nel 2015 tradotto da Penguin Press, si è accesa una polemica che ha avuto qualche ripercussione anche sulla stampa italiana. A innescarla è stato un articolo di Michael Moynihan sul sito web di informazione «The Daily Beast», ripreso dal «Foglio» il 25 settembre (Il problema plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano); il giorno dopo è apparsa la replica di Saviano sulla «Repubblica» (Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction), mentre altre testate hanno pubblicato interventi a favore o contro, a volte abbinati (così «Il Fatto Quotidiano», con un’argomentata apologia di Nando dalla Chiesa a fianco di un attacco di Selvaggia Lucarelli abbastanza degno del nome dell’autrice). Quella di Moynihan è una stroncatura in piena regola. Zero Zero Zero non è solo un libro confuso (a mess of a book) e un brutto libro (a bad book), è anche un libro sorprendentemente disonesto (astonishingly dishonest), perché riprende pari pari pezzi di articoli e reportages senza mai citare la fonte. Quindi, in buona sostanza, Saviano è un plagiario.
La risposta di Saviano alle accuse, come non hanno mancato di notare alcuni commentatori insospettabili (tra questi, Aldo Grasso sul «Corriere della Sera»), non è stata del tutto convincente; del resto, a suo tempo i recensori italiani non avevano mancato di rilevare, accanto ai meriti del libro, i suoi limiti. Su «Tuttolibri» (del 6 aprile 2013) Federico Varese aveva insinuato che in Zero Zero Zero c’è «troppa Wikipedia»; pochi giorni dopo Christian Raimo, in un intervento molto severo sul quale dovremo tornare (www.minimaetmoralia.it, ora anche www.linkiesta.it), aveva definito «irritante» la mancanza di riferimenti «non solo a libri ma ad autori, a teorie, a statistiche».
Come si difende Saviano dalle accuse di Moynihan? Non mi soffermo sull’argomento principe, già sollevato all’epoca delle polemiche su Gomorra: quando un libro inizia a dare fastidio perché è riuscito a superare le barriere di indifferenza dell’opinione pubblica, si cerca di contrastarlo screditando l’autore. Un metodo molto diffuso, certamente: ma se questo abbia a che vedere o no con le motivazioni del recensore del «Daily Beast» è affare che qui non ci riguarda, così come possiamo sorvolare sui richiami alla vicenda giudiziaria legata al libro del 2006. Più specificamente, le ragioni che Saviano mette in campo nella sua risposta sono tre. In primo luogo rivendica l’idea di «romanzo non fiction», rivolto a un pubblico esteso (e quindi non compatibile con apparati complessi): «Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l’unico modo davvero efficace per portare all’attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere». Quindi, affrontando direttamente le accuse di plagio, da un lato Saviano respinge gli esempi proposti da Moynihan (che in effetti a volte ritaglia i suoi riscontri in maniera un po’ capziosa); dall’altra sostiene che, nel caso di informazioni di pubblico dominio, raccontate da molti giornali, citare ha poco senso: «Se, per ipotesi, descrivessi il crollo delle Torri gemelle, come faccio a citare tutti coloro che ne hanno fatto in quel giorno la cronaca? Allo stesso modo, siccome descriverò il crollo delle Torri gemelle, utilizzerò parole simili perché le fonti sono identiche e soprattutto perché la fonte comune è la realtà: l’attacco terroristico è avvenuto, è una notizia, e non ci sono molti modi per raccontare una notizia». Non si tratta di un pensiero estemporaneo, è un’idea su cui Saviano insiste: «Mi accusano di aver ripreso parole altrui: come se si potesse copiare la descrizione di un documentario. Se la protagonista è donna, è madre, ha 19 anni, si chiama “Little One” e ha un numero tatuato in faccia, non so quanti modi ci possano essere per raccontarlo».
Questa conclusione è abbastanza sconcertante, ed è singolare che sia uno scrittore a formularla. Esistono, eccome, molti modi di raccontare uno stesso fatto. Non sta al romanziere, d’accordo, appurare quali siano i fatti realmente accaduti. Quello sarebbe – come ci ha insegnato fra gli altri il Carlo Ginzburg di Rapporti di forza. Storia, retorica, prove (Feltrinelli 1999) – il compito dello storico o del giudice; senza peraltro dimenticare quanto chiosava Cesare Garboli in Pianura proibita (Adelphi 2002), cioè che l’avverbio «realmente», riferito a fatti accaduti nel passato, contiene «un alto tasso di ambiguità» (quali fatti sono realmente accaduti?). Ma appunto Saviano non pretende di sostituirsi agli inquirenti, di scoprire per primo trame misteriose. Il suo fine è di comunicare verità già emerse, anche se misconosciute dai più; di cucire pezzi di verità che la cronaca riferisce in maniera frammentaria: di fornire un quadro sintetico del fenomeno. Il compito che si pone, dunque, è proprio di raccontare dei fatti in un particolare modo. In un modo diverso: più organico, più efficace, volta a volta più panoramico (il ruolo della coca nella società e nell’economia di oggi) o più dettagliato (singole storie, particolari atroci). Dopodiché – come forse inevitabile – non mancano in Zero Zero Zero ricostruzioni congetturali, e a distanza di due anni può anche accadere che l’ipotesi sul movente dell’omicidio di Yara Gambirasio appaia infondato. Ma sta di fatto che il problema vero emerso (o riemerso) in occasione di questa polemica non è quello dei veri o presunti plagi, al quale personalmente non riesco ad appassionarmi; la questione più rilevante è quale tipo di scrittore sia Roberto Saviano, al di là del valore della sua battaglia contro il crimine organizzato e a favore della legalità, che a mio avviso rimane comunque altissimo (fatti salvi gli inevitabili rischi della sovraesposizione mediatica).
Insomma, il limite principale di Zero Zero Zero non va ricercato negli aspetti più wikipedici, o in genere nelle parti più o meno chiaramente debitrici a scritti altrui, bensì in ciò che il libro ha di più personale e soggettivo. È qui che le cose non funzionano (non sempre, almeno). Ad esempio, nell’ottavo capitolo, La bella e la scimmia, l’autore traccia la parabola del narcotraffico colombiano: una storia complessa, dalla polverizzazione originaria all’ascesa del cartello di Medellin, legata al nome di Pablo Escobar, quindi l’effimero successo del cartello di Cali e, a seguito delle vigorose quanto miopi iniziative statunitensi, la rinnovata frammentazione della criminalità in Colombia e il travolgente successo delle organizzazioni messicane. A illustrare la tappa conclusiva di questa vicenda sono chiamate le storie di due persone molto diverse: la modella Natalia Paris e il boss Salvatore Mancuso detto la Scimmia, «el Mono» (per inciso, fra i tanti soprannomi del Mono c’è anche un implicito presagio del titolo del libro, «Triple Zero»). Gran parte del capitolo consiste quindi nel resoconto delle vicende parallele di Natalia e del Mono, costruite in forma di montaggio alternato. Senonché l’efficacia di tale procedimento appare davvero modesta. Le parallele non s’incontrano; l’attesa di una stretta finale rimane delusa. L’artificio letterario, in altri termini, mostra la corda: tanto sarebbe valso raccontare le due storie una dopo l’altra.
Ciò che Zero Zero Zero dimostra, in buona sostanza, è che Gomorra è davvero un libro irripetibile. Là Saviano raccontava la sua terra: e quindi il coinvolgimento soggettivo della figura narrante – vera chiave del successo dell’opera, come ben illustrato dalla critica – si poteva alimentare di una dimestichezza profonda, di una conoscenza capillare di fatti luoghi personaggi. Qui invece Saviano parla di mondi lontani, e deve necessariamente ricorrere a una grande quantità di intermediari. Ma poiché il tema della sua inchiesta narrativa è l’onnipervasiva presenza della coca nella vita contemporanea – sono qui il cartello di Sinaloa o di Ciudad Juàrez, è qui la Mafija russa, è qui «l’Africa bianca» – il deficit di immediatezza si ripercuote in uno scomposto incremento della sovreccitazione emotiva. La denuncia di Gomorra era chiaroscurata dall’oscillazione fra un’indignazione attuale, combattiva e fremente, e una consapevolezza antica, rassegnata no, ma capace di un’amara lentezza, che consentiva una forma di equilibrio. Ora invece predomina una ricerca di effetto esasperata, quasi ossessivamente enfatica. Come ha scritto Raimo, «il lettore dev’essere convinto, in fondo aggredito, inseguito, braccato a ogni riga, deve venire risucchiato, non deve più mostrare distacco»: di qui la pressoché totale assenza del punto e virgola nel sistema di punteggiatura, il dilagare delle anafore, l’ostentazione di metafore fisiche, carnali, «come se la garanzia di verità la potessimo trovare sempre in una forma di eviscerazione». Di qui, infine, il vertiginoso accumulo di violenza, di atrocità, di aneddoti raccapriccianti, che rischia di indurre nel lettore un senso di frastornata, disgustata sazietà – a discapito dell’incisività della denuncia.
Insomma: se l’intellettuale Saviano ha davanti a sé molti compiti da svolgere, alla luce di Zero Zero Zero si può sospettare che in termini letterari finisca per rimanere l’autore di un libro solo, unius libri – Gomorra. Un libro, peraltro, appartenente a una categoria speciale: quella delle opere letterarie che, al di là dei pregi estetici, segnano una svolta nella coscienza collettiva. Come, per fare un esempio ottocentesco, La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, che nel 1852 impose la questione dello schiavismo negli Stati Uniti all’attenzione dell’intero Occidente, con ripercussioni politico-culturali di portata enorme. In questo quadro l’Italia giocò la sua parte. Bibliografie alla mano, infatti, le prime traduzioni nostrane di Uncle Tom’s Cabin apparvero a distanza brevissima dall’uscita del libro, addirittura nello stesso anno: così Il tugurio dello zio Tom della fiorentina Tipografia Mariani (sottotitolo: Romanzo americano), o l’omonima versione del torinese Stabilimento tipografico Fontana; mentre l’anno dopo, 1853, escono a Milano (Claudio Wilmant e figli) La capanna dello zio Tommaso ossia La vita dei negri d’America, e a Firenze (Giacomo Terni) La capanna dello zio Tommaso. Scene della schiavitù dei negri in America. Certo, le date delle edizioni ottocentesche andrebbero prese sempre con beneficio di inventario. Ma di fronte alla data di uscita newyorkese di Gomorrah presso Farrar, Straus & Giroux (2008), possiamo per una volta immaginare che la nostra artigianale editoria del secolo XIX sia stata più veloce dei pur tempestivi grandi editori americani di oggi.
Quanto ai pochi o tanti modi di raccontare una stessa catastrofe, sarebbe ingiusto infierire su Saviano, e su una replica dettata forse dalla stizza. Però credo che valga la pena di fare a riscontro, sia pure sul versante dei romanzi-romanzi, un cenno rapido a Radio Imagination del giapponese Seiko Ito, edito da noi da Neri Pozza (traduzione di Gianluca Cioci). A prender la parola nel romanzo è la voce garrula e logorroica di un dj che annuncia festoso l’apertura di un nuovo canale radiofonico. Il suo eloquio fluisce, secondo prassi, divagante e copioso: ma fra il lancio di un pezzo musicale e l’altro affiorano stranezze. DJ Ark dice di trovarsi sulla cima di una cryptomeria, non ha un microfono, non ha alcuna attrezzatura, parla solo per forza di immaginazione ma riceve le email… Anche gli interventi degli ascoltatori contengono particolari enigmatici, domande senza risposte; e sempre più spesso manifestano una condizione di spaesamento. Così, pagina dopo pagina, si accumulano ricordi, frammenti di storie, destini a schegge, tracce di donne e uomini dalle quali il lettore finisce per essere catturato, e che è sollecitato a seguire anche dopo aver inteso che in realtà è tutto un dialogo di morti. Quelle voci – voci di dentro? voci di fuori? – sono ciò che rimane delle vittime di Fukushima (di Fukushima, ma poi non solo): voci che, nel romanzo, potrebbero aleggiare in una zona intermedia fra il nostro mondo e l’aldilà prevista dal pensiero buddhista (e forse non immemore del film del 2001 The Others, di Alejandrò Amenàbar), ma che a tutti noi ricordano quanto sia pericoloso archiviare frettolosamente le catastrofi, occultando l’accaduto sotto la patina di un ottimismo coatto. Come dice a un certo punto uno dei personaggi, «da un po’ di tempo a questa parte, questo paese non riesce più ad abbracciare i suoi morti. Perché?». Rimane implicito – ma si capisce benissimo – che abbracciare i morti è cosa che serve ai vivi.