A dispetto del titolo, Atti osceni in luogo privato si rivela un romanzo di formazione tradizionale. Marco Missiroli non è davvero uno scandalista, e neppure un Moravia del XXI secolo: ma non gli mancano né il talento, né il mestiere.
Marco Missiroli è il più camaleontico talento narrativo della sua generazione. Nel giro di un decennio lo scrittore riminese, classe 1981, ha sfornato cinque romanzi lontanissimi l’uno dall’altro, raccontando una storia di mafia dalla prospettiva di un ragazzino (Senza coda), una favola nera provenzale (Il buio addosso), il razzismo dell’America profonda (Bianco), i segreti di un prete spretato che ritrova il figlio (Il senso dell’elefante), e ora i dolori di Libero Marsell, narratore e protagonista di Atti osceni in luogo privato.
Si tratta di un’educazione sentimental-sessuale, ma – chiariamolo subito – Libero non è un trasparente alter ego del suo creatore. Del resto la Romagna balena appena in qualche riferimento ad Amarcord. Come dimostrano i libri precedenti Missiroli ama frugare in altri luoghi, in altre epoche. Nel caso specifico si concentra sugli anni settanta e ottanta, giostrando fra Parigi e Milano, con un pizzico di New York. Il canovaccio è quello tradizionale della vicenda di formazione, scandita dalle sei sezioni del romanzo: Infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Maturità, Adultità e infine la Nascita di un figlio, che sigilla l’anello.
L’enfasi sulla sessualità, che accompagna tutte le tappe, alza il tasso di difficoltà dell’esercizio: al di là delle prevedibili (e spesso avvilenti) polemiche che ne sono derivate bisogna preliminarmente riconoscere il coraggio dell’autore, che ancora una volta non teme di confrontarsi con temi delicati. Se si guarda agli scenari, anzi, più che di coraggio verrebbe da parlare di incoscienza. In spregio alla famosa uscita di Tolstoj – secondo il quale scrivere della lontana Parigi è il mezzo migliore per risultare provinciali – Missiroli lustra i più rinomati stereotipi legati alla Ville Lumière, a cominciare dai caffè di Saint-Germain, dove fatalmente incontriamo Sartre armato di pipa. Le Grand Liberò, nato in Italia, giunto a Parigi con la famiglia a dodici anni, finisce col lavorare a Les Deux Magots, per mantenersi agli studi. L’occasione, è da notare, non è creata per imbastire una satira degli ambienti bourgeois-bohème. Ai bobo Missiroli guarda senza ironia e senza devozione: il che si riflette nel ricorso al francese, capillare e discreto al tempo stesso.
Osservazioni simili valgono per le sezioni che insistono su Milano, dove Libero – restato orfano di padre e scottato dalla dolorosa liaison con Lunette – si trasferisce, per cambiare aria e sfuggire ai fantasmi. Nonostante le ottime referenze non trova di meglio d’un impiego in una bettola sui Navigli, dove fatalmente incontriamo Alda Merini ispirata e «avvolta in una nuvola di fumo». Un po’ di avvilimento, nel passaggio dal pastis alle birracce, è ben giustificato, tanto più che di giorno Libero lavora duramente in uno studio legale. A tenerlo in piedi sono gli amici, i panini tonno e carciofini del bar Crocetta e mille avventure femminili. Si trova così a fare i conti con una città dura, indifferente, che gli piace proprio perché «non illude»: un po’ come era capitato a un altro riminese, che nel dopoguerra si spostò in essa per cercare le «parole d’oro», «le trovò di ferro, e poi si accorse che erano proprio quelle che andava cercando».
Sarebbe vano, peraltro, cercare il nome di Elio Pagliarani fra le decine e decine di scrittori evocati nel romanzo di Missiroli. Libero ha gusti meno raffinati, e si attiene rigorosamente ai classici: Lo straniero, in primis, ma poi anche – citando alla rinfusa Il deserto dei Tartari, le Favole al telefono, Il vecchio e il mare, il Diario di Anna Frank, Il filo del rasoio, Fontamara, Mentre morivo, e tanti altri capolavori che lo aiutano a crescere e a riconoscersi. Strizzate d’occhio al lettore, monete facilmente spendibili per creare una complicità? Può darsi. Sempre meglio, però, delle narcisistiche esibizioni di letture astruse, ormai dilaganti. Quanto ai maestri nell’arte di sfrizzolare il velopendulo, non si va oltre Henry Miller e Lolita, con estrema penuria di citazioni.
In effetti l’autore è molto attento a non solleticare il voyeurismo del pubblico. Libero racconta con disinvoltura le trasformazioni del suo corpo, erezioni e orgasmi compresi, e le meraviglie dell’amplesso, ma senza resoconti puntigliosi o volgarità gratuite. Rovelli angosciati, ossessioni morbose, elucubrazioni freudiane non fanno per lui. Missiroli non è davvero il Philip Roth italiano, e nemmeno il Moravia del XXI secolo. Eppure Atti osceni in luogo privato è passato per un laido campionario di sconcezze irriferibili. Certo in questo abbaglio deve aver contato qualcosa – oltre al titolo – la scena a effetto piazzata in apertura, dove Libero dodicenne assiste a un servizietto gentilmente offerto dalla madre a un amico di famiglia: che è poi la ferita da cui scaturisce il sangue della scrittura. Meno ingannevole la copertina, che pure ha destato scandalo e a me – sarò un depravato – pare azzeccata e persino elegante. Chiappe, croce o divano? L’ambiguità su cui gioca la geniale fotografia di Erwin Blumenfeld Holy Cross (in hoc signo vinces) assegna al lettore l’onere della malizia, mentre il bianco freddo si correla all’enfasi sul candore, continuamente tematizzato da Libero, che dal primo all’ultimo paragrafo del libro riflette su ciò che l’innocenza toglie e regala.
Beninteso, non farò a Marco Missiroli il torto di credere che quel candore gli appartenga, anche in minima parte. Il suo è un lavoro studiatissimo, dove il cervello spinge a forza la passione sul palcoscenico, ma poi lo vedi che occhieggia dietro le quinte, e suggerisce le frasi brillanti che punteggiano le riflessioni di Libero: «Spesso il divorzio è un capriccio contro la vecchiaia», «Era tempo di ballare coi miei lupi», «Seppi com’era il desiderio: un assoluto groviglio di terrore e incredulità», e via di questo passo.
Si compone così il faticoso itinerario verso la felicità di un bradipo, ovvero di un giovane che molto lentamente arriva a liberarsi dalle incertezze e a comprendere le proprie genuine aspirazioni. Per fortuna casca bene: lo attornia un’umanità intelligente, comprensiva, spiritosa. Simpatico e charmant è il padre, rappresentante di farmaci omeopatici, appassionato di tennis e bistrot. Simpatica e charmante – così come il nuovo compagno, Emmanuel – è la moglie che lo cornifica e in seguito vive con ammirevole dignità una malattia che non lascia scampo (torna qui il tema dell’eutanasia, che deve affascinare Missiroli, se già ricorre in Bianco e nel Senso dell’elefante). Saggia, formosa e invano desiderata – nonostante la differenza d’età – è la bibliotecaria Marie, primo sogno erotico di Libero e confidente privilegiata. Formosa, seducente e impegnata è anche la «farfalla nera» Lunette, che lo introduce alle gioie dei sensi. Non sempre simpatiche, non sempre così fascinose, ma di regola maggiorate e ciascuna a suo modo istruttiva sono le tante altre donne che incrociano la strada di Libero, fino ad Anna, tratteggiata abbastanza sbrigativamente, sebbene sia lei a sposarlo e a consentirgli con il suo amore di realizzare la missione di essere il nome che porta.
Buon per Libero. Che fosse la ragazza del suo miglior amico, Mario, conta poco. Al cuor non si comanda, dice il saggio. E d’altronde non è la prima che combina questo bravo giovanotto, il quale a conti fatti rischia di essere l’unico personaggio negativo del romanzo, se si pensa alle umiliazioni che infligge a Lunette, a Frida e ad altre malcapitate. Non che se ne faccia un gran problema. In realtà, per quanto si prenda maledettamente sul serio, non sembra mai mettersi davvero in discussione. Gli altri contano nella misura in cui collaborano alla sua crescita personale, all’esplorazione dei suoi meandri mentali. Per questo ci si affeziona pochetto ai personaggi; mentre il narratore, che scrive con estrema calma a notevole distanza dagli eventi, senza svelare granché su ciò che è diventato, proietta la vicenda in un passato tanto remoto che i conflitti più aspri scemano in un brusio di sottofondo, e il falò delle passioni si riduce a una candela tremula. L’innegabile mestiere di Missiroli d’altra parte imprime al plot un ritmo vivace e ben scandito, che favorisce una lettura rapida, in cui presto si finisce col far caso – più che all’osceno – alla dimensione del privato, evocata dall’altro aggettivo che campeggia nel titolo.
Libero, che pure si imbatte in eventi come la morte di Sartre o la repressione di piazza Tienanmen, mai perviene a esplicite prese di posizione o a commenti sulla politica, che resta sostanzialmente fuori quadro. La scelta coglie bene una matrice profonda degli anni ottanta, elettrizzati dalla scossa del consumismo: ma sorprende come nel romanzo non vi sia traccia di quell’improvviso ritorno del desiderio di sembrare ricchi, perfettamente incarnato dai «paninari», che chiunque abbia vissuto quell’imbevibile decennio a Milano ben ricorda. La tessera del Partito Comunista francese, scoperta fra le carte del padre morto, non è per Libero altro che un amuleto con cui attraversare i ciechi tempi. Il suo amore per i diseredati è uno slancio sentimentale, senza risvolti ideologici. Niente di male, per carità. Ma suona in qualche misura anacronistica, o diciamo pure posticcia, la nobile vocazione che in ultimo lo porta ad abbandonare la facoltà di Giurisprudenza per laurearsi in Lettere, convertito da un’esperienza di volontariato in un centro culturale per stranieri.