I dati Nielsen sul calo della lettura in Italia hanno reso evidente la necessità di nuove normative e di una maggiore coordinazione tra la politica e gli attori della filiera del libro. Nonostante alcune iniziative parlamentari, però, i risultati finora sono stati scarsi. Non convincono del tutto nemmeno gli interventi proposti per incentivare la lettura nelle scuole: poco o nulla è stato annunciato per risolvere la grave situazione delle biblioteche scolastiche, sempre più abbandonate a sé stesse. Emblematico il caso della Biblioteca Universitaria di Pisa.
I dati sulla lettura e sul mercato dei libri in Italia diffusi in occasione del Salone del Libro di Torino 2014 fotografano una situazione di grande criticità. Secondo il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2014 dell’Associazione italiana editori, il 2013 è stato caratterizzato da un ulteriore ridimensionamento del mercato (-4,7%), del numero di titoli pubblicati (-4,1%), delle copie vendute (-2,3%) e del numero di editori (-1%).
Una crisi che, fatta eccezione per i libri per bambini e ragazzi e per i libri digitali (questi ultimi in crescita esponenziale: +43% dei titoli pubblicati), non molla la presa, determinando la sovrapposizione, anno dopo anno, di risultati negativi che deprimono i fatturati delle imprese editoriali italiane. Come attestato dai dati diffusi da Nielsen, le vendite dal 2011 sono calate del 9,1% e i fatturati del 14,3 %, mentre i dati dei primi nove mesi del 2014 non promettono inversioni di tendenza. Ma l’aspetto più preoccupante riguarda la riduzione drastica del perimetro dei lettori di libri di carta: gli italiani che leggono almeno un libro all’anno rappresentano soltanto il 43 % della popolazione, una miseria a fronte delle percentuali registrate in altri Paesi europei, che in qualche caso sono addirittura doppie. La lettura cala in tutti i segmenti: tra i giovani fra 6 e 14 anni (-7,4%), tra le donne (-4,7%), tra i forti lettori che leggono più di dodici libri all’anno (-10,3%). In controtendenza soltanto i lettori di e-book: sono 1,9 milioni (+18,9% sull’anno precedente) con una crescita del 72,7% rispetto al 2010.
Di fronte a una Caporetto di queste proporzioni bisognerebbe lanciare un allarme rosso e correre ai ripari, mobilitando le energie di tutti gli attori del mondo del libro, dando vita a interventi estesi, coordinati, continuativi, sorretti da un quadro di riferimento normativo e da finanziamenti adeguati a riportare questo tema al centro dell’attenzione collettiva. Non ci sarebbe da inventare nulla, visto che basterebbe ispirarsi a quanto già realizzato in Francia, Spagna, Germania, dove esistono leggi dedicate alla promozione della lettura e organismi pubblici che operano per promuovere politiche attive a sostegno della diffusione del libro, dove l’apertura di nuove biblioteche e il rinnovamento di quelle esistenti non ha mai conosciuto battute d’arresto.
Per la verità qualche avvisaglia di una maggiore sensibilità aveva iniziato a fare capolino anche nel nostro disastrato Paese. A gennaio 2013, per esempio, in occasione delle elezioni politiche, la cosiddetta “società civile” aveva provato a sollevare il tema. Gli estensori dell’appello Ripartire dalla cultura hanno inserito, fra i dieci impegni da richiedere ai candidati, l’avvio di «una strategia nazionale per la lettura che valorizzi il ruolo della produzione editoriale di qualità, della scuola, delle biblioteche, delle librerie indipendenti, sviluppando azioni specifiche per ridurre il divario fra nord e sud d’Italia». Anche i promotori della lettera aperta e-leggiamo. Un voto per promuovere la lettura (http://legge-rete.net/e-leggiamo/) si sono rivolti ai candidati per chiedere l’impegno ad approvare una legge caratterizzata da cinque punti qualificanti: inserire la lettura nei piani di offerta formativa di qualsiasi scuola, rafforzare il ruolo svolto dalle biblioteche per promuovere le abitudini e il piacere della lettura, istituire un riconoscimento specifico per le librerie di qualità, riconoscere la natura di prodotti culturali dei libri elettronici, dare vita a un piano nazionale per la lettura adeguatamente finanziato, da valutare e aggiornare annualmente.
La mobilitazione della filiera del libro – dagli autori ai lettori, dai bibliotecari agli insegnanti, dai librai agli editori – è un fatto inedito, che ha effettivamente determinato per un breve periodo maggiore attenzione da parte delle istituzioni in avvio della XVII legislatura.
L’allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, Massimo Bray (che aveva sottoscritto entrambi gli appelli), ha inserito – dopo decenni – nel decreto Valore cultura (d.l. 8 agosto 2013, n. 81, convertito con modificazioni dalla 1. 7 ottobre 2013, n. 112) alcune disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo delle biblioteche e degli archivi e per la promozione della lettura: esse riguardano la possibilità di organizzare letture all’interno di biblioteche, archivi e musei pubblici senza pagare balzelli alla SIAE; l’obbligo di deposito, entro sei mesi dalla pubblicazione, dei risultati della ricerca scientifica in archivi elettronici istituzionali che garantiscano l’accesso aperto, libero e gratuito; la modifica della Legge Levi in senso favorevole alle biblioteche.
Quasi contemporaneamente, in Parlamento sono state depositate varie proposte di legge riconducibili al nostro tema: quella presentata dall’onorevole Giancarlo Giordano (Sei) recante «Disposizioni per la diffusione del libro su qualsiasi supporto e per la promozione della lettura» (C. 1504, attualmente in discussione alla VII commissione permanente della Camera, relatrice l’onorevole Flavia Piccoli Nardelli), quella predisposta da Sandra Zampa (Pd) e tesa a definire «Norme per la promozione della lettura nell’infanzia e nell’adolescenza e istituzione della Giornata nazionale della promozione della lettura e della Settimana nazionale del libro nelle scuole» (C. 2267, parimenti all’esame della VII commissione permanente della Camera e destinata a essere inglobata nel provvedimento precedente), quella presentata dall’onorevole Andrea Martella (Pd) contenente «Disposizioni per la diffusione della lettura e il sostegno del sistema delle piccole librerie» (C. 859) e infine quella redatta dall’onorevole Marco Causi (Pd) relativa alla «detraibilità delle spese per acquisto di libri, per favorire l’esercizio della lettura, nonché modifica all’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di disciplina dell’imposta sul valore aggiunto per le prestazioni del servizio postale universale» (C. 2160).
Un fermento mai visto, avvalorato dalla decisione del ministro Bray di dare vita a un tavolo interistituzionale per la definizione di un Piano nazionale di promozione della lettura (d.m. 23 ottobre 2013). Tutto bene quindi? I politici italiani, generalmente distratti, si sono improvvisamente accorti che esiste una correlazione diretta tra lettura di libri e qualità della vita, che dove si leggono più libri si va più spesso al cinema o al teatro, si ascolta più musica, si frequentano di più i musei, la società è più coesa, sono maggiori la capacità di innovazione e la propensione alla crescita, è più forte la difesa della legalità, sono minori la corruzione, la criminalità e la discriminazione nei confronti delle donne?
Niente affatto. Il tavolo interistituzionale istituito da Bray non ha mai potuto prendere visione dello studio di fattibilità predisposto da un gruppo di esperti individuato dal ministro e a esso consegnato il 14 febbraio 2014, nel giorno in cui il premier Letta ha rassegnato dimissioni irrevocabili.
In questi casi tutto si ferma e, come al Monopoli, si ripassa dal Via. Il nuovo ministro, l’onorevole Dario Franceschini, non ha ritenuto di dare corso allo studio di fattibilità predisposto per il suo predecessore. Ha però nominato Romano Montroni – libraio bolognese di lungo corso, inventore delle librerie Coop e scrittore – nuovo presidente del Centro per il libro e la lettura al posto di Gian Arturo Ferrari e gli ha dato nuove consegne: la lettura si promuove a scuola, il resto non conta (o, se conta, non riusciamo a occuparcene). L’intuizione, non peregrina, è che a scuola si intercetta il complesso della popolazione infantile e giovanile, quindi un programma ben orchestrato di interventi e attività potrebbe aggredire con successo lo zoccolo duro dei non lettori. Con quali risorse? Pochissime, perché il bilancio del Cepell è a secco. Con quali competenze? L’entusiasmo e la buona volontà dei lettori volontari, perché formare i docenti costa molto e sviluppare una rete di moderne biblioteche scolastiche anche di più. Con quali prospettive di continuità per i lettori al termine dell’età scolare? Non è dato sapere, malgrado l’Istat segnali da decenni che le fasce di lettori più forti coincidono con il periodo della frequenza scolastica e che il crollo avvenga dopo, attorno ai 19-20 anni per i maschi e poco più tardi per le donne. Ma tant’è. Il primo atto della ditta Franceschini-Montroni è l’iniziativa Libriamoci. Giornate di lettura nelle scuole (29-31 ottobre 2014): «L’obiettivo» si legge sul sito del Cepell «è quello di far partecipare gli studenti in prima persona, avvicinandoli ai libri attraverso attività di lettura ad alta voce organizzate con gli insegnanti. Ma a condividere l’emozione di leggere in classe non saranno solo studenti e insegnanti: il programma potrà svilupparsi anche attraverso reading, maratone e incontri speciali che abbiano come protagonisti e “complici” autori famosi, amministratori locali, fondazioni e associazioni culturali».
In attesa di conoscere i risultati della prima edizione, segnaliamo che durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa (Bologna, 1° ottobre 2014) la parola “biblioteca” non è mai stata pronunciata, neanche per ricordare, en passant, che l’attività delle oltre 12.000 biblioteche italiane contribuisce in maniera sostanziale a far sì che la lettura non scompaia definitivamente dai radar dei cittadini italiani.
Biblioteche scolastiche, ovvero l’incompiuta italiana
Il Manifesto redatto nel 2006 dall’Ifla (International Federation of Library Associations and Institutions, www.ifla.org) in collaborazione con l’Unesco afferma che «la biblioteca scolastica è essenziale in ogni strategia a lungo termine per l’alfabetizzazione, l’educazione, la fornitura di informazione e lo sviluppo economico, sociale e culturale».
Riconoscere che le biblioteche scolastiche siano parte qualificante del processo formativo significa dare per scontato che esse esistano in tutte le scuole, dispongano di strutture e di mezzi adeguati, siano fortemente integrate nell’attività degli istituti scolastici e gestite da personale in grado di proporle come risorsa per la didattica. E davvero così? Mentre il Cepell promuove la lettura a scuola ricorrendo ai lettori volontari, un’indagine realizzata dall’ufficio studi dell’Associazione italiana editori su un campione pari a circa un quarto delle scuole italiane aiuta a gettare uno sguardo sulla realtà di questi istituti. Il quadro, come affermano gli estensori del rapporto di ricerca, è semplicemente desolante: se l’89,4 % delle scuole primarie e secondarie italiane dichiara di possedere una biblioteca scolastica (con un picco del 95,9% per le scuole secondarie superiori), le strutture risultano gravemente inadeguate e i patrimoni librari semplicemente inesistenti. In media, la superficie è di 57 mq, i posti disponibili sono 15 (circa la metà di una classe), i volumi presenti in ogni istituto 3.071 (pari allo 0,4% dei titoli in commercio) e il tasso di rinnovamento dell’offerta di lettura è attestato a un nuovo libro acquistato ogni dieci studenti. La spesa media della biblioteca scolastica per studente è di 1,56 euro l’anno, che scendono a 0,68 euro se si fa riferimento all’investimento (si fa per dire…) per l’acquisto di libri. Non meraviglia che, in questo stato, le biblioteche scolastiche non siano percepite come ambienti di apprendimento, di accesso e di educazione all’informazione, come strumento di innovazione metodologica e didattica, di inclusione sociale e prevenzione della dispersione scolastica, bensì, al contrario, considerate a tutti gli effetti servizi accessori. La biblioteca scolastica, in quanto biblioteca specializzata, avrebbe bisogno di professionalità specifiche che tuttavia sono assenti negli organici scolastici perché non previste dall’ordinamento della scuola italiana: la presenza di personale bibliotecario non supera infatti il 2,5% ed è riconducibile o all’impegno degli enti locali o alle leggi emanate nelle province e regioni a statuto autonomo. Le biblioteche scolastiche sono quindi mandate avanti da insegnanti e genitori che prestano tempo e lavoro a titolo volontario (24%) e da personale docente nelle ore a disposizione (51,3 %).
Si tratta di una prateria di sconfinata desolazione, dove un intervento robusto da parte delle istituzioni potrebbe determinare un enorme salto di qualità. La strada tuttavia è in salita, per via delle ristrettezze economiche e delle vedute del legislatore. La proposta di legge presentata dall’onorevole Giordano di cui abbiamo parlato poc’anzi potrebbe rappresentare una svolta perché prevede, nella formulazione iniziale, che «Le scuole di ogni ordine e grado provvedono all’istituzione di biblioteche scolastiche […] si organizzano in rete tra loro e, ove possibile, con le biblioteche del territorio al fine di realizzare azioni integrate o complementari. […] A ciascuna scuola polo è preposto almeno un bibliotecario scolastico». Cercasi robusta copertura finanziaria e granitica volontà politica per far approvare un provvedimento che avrebbe l’effetto di una rivoluzione copernicana.
SOS Biblioteca universitaria di Pisa
Il terremoto che nel maggio 2012 ha colpito l’Emilia Romagna, oltre a provocare gravi danni alle biblioteche di Finale Emilia, Mirandola, Medolla, Cavezzo, Guastalla, Reggiolo e molte altre, ha avuto un curioso effetto collaterale, poco noto ai più: la chiusura della Biblioteca universitaria di Pisa, che si trova a diverse centinaia di chilometri dall’epicentro del sisma.
Il fatto, più unico che raro, è certificato in una ordinanza, emanata dal sindaco della città toscana all’indomani del terremoto, che ha previsto la chiusura del vetusto istituto fondato nel 1742 e ospitato a partire dal 1823 nel palazzo quattrocentesco della Sapienza, concesso in proprietà all’Ateneo pisano, dove hanno sede anche la Facoltà di Giurisprudenza e alcune biblioteche specialistiche di argomento giuridico. La BUP (così viene chiamata la Biblioteca universitaria di Pisa), pur essendo a tutti gli effetti la biblioteca storica dell’ateneo pisano, fu assegnata al ministero per i Beni e le Attività Culturali ed è quindi a tutti gli effetti una delle 46 biblioteche pubbliche statali italiane, al pari della Braidense, della Marciana, della Vallicelliana, delle Nazionali di Napoli, di Roma e di Firenze.
La comunità degli studiosi e degli studenti pisani, riuniti attorno all’associazione Amici della BUP, all’indomani della chiusura ha levato la propria voce evidenziando l’incongruenza di un provvedimento che, in assenza di perizie tecniche che avvalorassero l’ipotesi del danno sopravvenuto a causa del terremoto, di fatto consegnava la sede della Sapienza nelle mani del Rettore, il quale non aveva mai fatto mistero di voler trasferire nel prestigioso e centrale edificio altre funzioni accademiche, con buona pace dell’integrità delle raccolte e della possibilità di accedervi. Fra i molti che si sono esposti a favore della biblioteca si segnalano Adriano Prosperi, Salvatore Settis e Chiara Frugoni, che hanno pubblicamente rivendicato la necessità di una celere riapertura della biblioteca nella sua sede storica.
Anche in questo caso il ministro ha istituito una commissione (d.m. 3 febbraio 2014) con il compito di «Approfondire le problematiche connesse alla riapertura della Biblioteca», che ha proposto il trasferimento del fondo periodici presso il Museo di San Matteo e la cessione da parte dell’università di alcuni locali all’interno del palazzo della Sapienza, per consentire a essa una prospettiva di crescita; inoltre, considerando la contemporanea presenza della biblioteca della Facoltà di Giurisprudenza, si è ipotizzato di fare della Sapienza un polo pubblico per la ricerca, la lettura e le relazioni sociali aperto non solo al mondo accademico ma a tutta la città, come è nei compiti di una biblioteca pubblica.
Il progetto elaborato dalla commissione prevede la riapertura entro il primo semestre 2015, nella sede storica alleggerita di circa 30.000 volumi per dare respiro alle traballanti strutture dell’edificio. Non è chiaro se con la riorganizzazione degli spazi e delle raccolte sia prevista una riqualificazione della sede, che decenni di mancata manutenzione e due anni di chiusura hanno reso più simile a una diroccata e triste biblioteca di quartiere che a una grande e prestigiosa sede storica.
Nessuno tuttavia, in questi due anni, ha avanzato la proposta più ovvia: trarre conclusioni dal senso delle parole e proporre all’Università di Pisa di riprendersi ciò che è di sua pertinenza, ovvero la sua biblioteca storica. Universitaria di nome ma non de iure, potrebbe diventare il nucleo storico di un grande polo bibliotecario cittadino, gestito in collaborazione con il Comune e il Ministero. Sarebbe la dimostrazione che anche istituzioni differenti, di fronte a un grande progetto, sono in grado di mettere da parte convenienze e rivalità per unirsi sotto le insegne di un interesse superiore, quello dei cittadini che hanno il diritto di accedere al patrimonio librario delle loro biblioteche nella maniera più semplice, efficace e dignitosa.