Malanni di Braccialetti rossi

Braccialetti rossi racconta storie di bambini e adolescenti affetti da gravi patologie. Eppure ha avuto un successo strepitoso tra i giovanissimi. Sarà perché la malattia è tornata di moda nella produzione per ragazzi o perché la fiction è stata pubblicizzata con una strategia di social media marketing, una piccola rivoluzione per la Rai. A imporsi, tuttavia, è stata soprattutto la scelta di raccontare, da una prospettiva inedita, la storia di un gruppo di ragazzi in crescita che affrontano l’esperienza della malattia in una dimensione di socialità condivisa. Il mondo ospedaliero è per la prima volta raffigurato dal punto di vista dei giovanissimi ricoverati che contrappongono la spinta vitale della solidarietà tra pari alla fragilità del mondo adulto.
 
Parla di cancro e di altre patologie gravi che colpiscono bambini e adolescenti, di chemioterapia e di interventi chirurgici rischiosi, eppure ottiene un successo strepitoso. Si tratta, ovviamente, di Braccialetti rossi, la fiction andata in onda su Rai1 da gennaio a marzo 2014 per la regia di Giacomo Campiotti. Può parere incredibile, ma milioni di adolescenti, di solito così attenti al look e interessati alla movida, si sono appassionati e commossi di fronte alle vicende di ragazzi calvi per la chemio, che viaggiano in sedie a rotelle e ostentano arti amputati, affrontano interventi chirurgici rischiosi e non sempre “la sfangano”. I dati parlano chiaro: cinque milioni di spettatori alla prima puntata, pari al 20% di share, otto milioni all’ultima, pari al 30% di share.
Certo, la reazione di sorpresa di fronte a un simile consenso di pubblico potrebbe essere ridimensionata da alcune ragionevoli obiezioni: si potrebbe, per esempio, osservare come la fiction di Campiotti abbia pescato in un repertorio ampiamente sperimentato e si sia rifatta a una tradizione letteraria, cinematografica e televisiva ben consolidata. Le fiction ispirate al mondo ospedaliero, per esempio, da E.R. a Doctor House a Un medico in famiglia, hanno sempre incontrato, complice il fascino dei camici bianchi, il favore del pubblico. Neppure la scelta di puntare sul protagonismo infantile è una novità assoluta. Esistono dei precedenti persino nelle fiction televisive italiane, come la serie Amico mio con Massimo Dapporto, incentrata sul rapporto tra un medico e un piccolo paziente. Non solo: la letteratura per ragazzi abbonda da sempre di storie di bambini e adolescenti malati, di morti precoci per malattia o incidenti fortuiti, tanto che qualcuno ha parlato di Braccialetti rossi come di una nuova versione dei Ragazzi della via Pal. Se il pathos lacrimoso è sempre stato considerato, dai classici della letteratura per l’infanzia, una risorsa efficace, in grado di sollecitare il coinvolgimento emotivo dei piccoli e giovani lettori, oggi il ricorso a tale espediente sembra persino in fase di rilancio.
Dopo alcuni decenni di prevalente orientamento comico-grottesco, morte e malattia tornano in auge nella produzione letteraria e cinematografica per ragazzi e young adults, che, anzi, ottiene un seguito più sorprendente quanto più attinge con spregiudicatezza a un repertorio tematico funereo: storie di adolescenti leucemici e cancerosi, dal romanzo di Alessandro D’Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue, da cui il film, diretto dallo stesso Campioni, al bestseller di John Green Colpa delle stelle, sembrano incredibilmente configurare un vero e proprio nuovo filone che, se stempera nell’ironia l’effetto patetico inevitabile, nello stesso tempo esibisce con cruda disinvoltura situazioni di grave sofferenza fisica e morale a prevedibile esito ferale. Si ha quasi l’impressione che, dopo aver esplorato gli universi fantasy e distopici, la letteratura per adolescenti stia approdando a una nuova frontiera e trovi nell’ancoraggio a situazioni di vissuto doloroso e tragico risorse imprevedibili, nonché una nuova, paradossale vitalità.
Così è per la storia dei giovani protagonisti di Braccialetti rossi, tutti affetti da patologie piuttosto serie: due hanno il cancro, che è costato loro l’amputazione di una gamba, uno soffre di una grave malformazione cardiocircolatoria, un altro ha subito lesioni traumatologiche a seguito di un incidente in moto, la ragazza è anoressica, il più giovane è addirittura in coma. Anche in questo caso si è scelto senza mezzi termini di andare sul pesante, tanto più che nella fiction di Rai1 – ed è questa la novità di maggiore rilievo rispetto a opere recenti che affrontano tematiche analoghe – malattia e morte non sono lo sfondo o l’epilogo tragico di storie avventurose o sentimentali, ma costituiscono la routine quotidiana entro cui i giovanissimi eroi si dibattono.
Certo, si potrebbe impostare il discorso su Braccialetti rossi anche da un’altra prospettiva e imputarne il successo soprattutto a una campagna pubblicitaria sapientemente attuata. Con questa fiction la Rai non ha esitato a compiere una piccola rivoluzione e a utilizzare i canali familiari al target giovanile cui, in prima istanza, intendeva rivolgersi. Di qui la scelta di puntare su una strategia di social media marketing: le app sulla serie per smartphone e tablet erano scaricabili in anticipo rispetto all’esordio, permettendo al pubblico di familiarizzare con ambienti e personaggi; sono state aperte pagine ufficiali della fiction sui principali social network, come Twitter, Facebook e Instagram, su cui impazzavano i commenti dei fan. Braccialetti rossi è stata, insomma, a detta di molti, la prima social fiction italiana.
Tecnologia digitale a parte, altre scelte sono risultate di impatto efficace sul pubblico dei giovani e dei giovanissimi: per esempio, l’opzione per una colonna sonora coinvolgente, composta di musiche e testi editi e inediti di Niccolò Agliardi e Stefano Lentini, cantati da Agliardi stesso e da altri cantanti italiani come Francesco Facchinetti e Greta, arricchita, inoltre, di successi noti di Laura Pausini, Tiziano Ferro, Vasco Rossi, Emma Marrone ed Emis Killa; poi, la selezione degli attori chiamati a recitare i ruoli dei personaggi più giovani, tutti, a eccezione di Aurora Ruffino, alla prima esperienza sul set e, quindi, in grado di sollecitare più facilmente, per spontaneità e freschezza, l’identificazione degli spettatori loro coetanei.
Il tutto, infine, all’insegna del made in Italy, a dispetto del format catalano Polseres vermelles, cui la serie si ispira e di cui la Rai e la Palomar di Carlo Degli Esposti, il produttore di Montalbano e di altre fiction di successo, hanno acquistato i diritti. Non solo, quindi, la scelta di una colonna sonora d’omaggio alla musica pop e al rap italiani, nonché di un cast di attori nostrani, ma anche di un’ambientazione intesa a valorizzare i paesaggi del nostro Sud: la campagna e le coste pugliesi tra Fasano e Monopoli, dove è stato ricreato l’ospedale che accoglie i piccoli pazienti nella sede del Centro Italiano Alti Studi Universitari dell’Ateneo di Bari. Una serie di eventi mediatici e live sono stati, inoltre, organizzati ad hoc per creare attorno alla fiction di Campiotti un clima di attesa e di attenzione costanti: la proiezione in anteprima all’Auditorium di Roma della prima puntata della serie per un pubblico composto di ragazzi delle scuole superiori, varie serate in località turistiche con interventi dal vivo degli attori della serie e dei cantanti autori dei brani, la partecipazione del cast a festival cinematografici come il Giffoni Festival.
A consolidare il successo della fiction ha, poi, contribuito la pubblicazione per Salani nel 2014 del romanzo che l’ha ispirata: Braccialetti rossi. Il mondo giallo di Albert Espinosa, regista e scrittore spagnolo che, alla luce di un’esperienza autobiografica, un tumore che lo ha colpito da ragazzo, ha inteso proporre nel libro una summa di lezioni di vita, tesa a esaltare valori come l’amicizia e il coraggio: più di 200.000 copie vendute, otto ristampe in quattro mesi.
Come ovvio, il successo del libro e la popolarità della fiction si sono alimentati vicendevolmente, secondo un meccanismo di sinergia prevedibile. Ben inteso: il libro di Espinosa non è un resoconto autobiografico della malattia dell’autore o del suo calvario ospedaliero e poco ha a che fare, se non attraverso riferimenti marginali, con la trama della fiction. Le lezioni di vita di cui l’opera di Espinosa vuole essere portatrice procedono attraverso massime a effetto, per la verità discutibili, ma che, tuttavia, enunciate con tono perentorio, ricevono un’investitura di autorevolezza dal vissuto autenticamente tragico che le ispira.
Il punto di vista del libro si coniuga con la prospettiva di segno opposto della serie che punta, invece, con nettezza sulla rappresentazione dal basso. Se le fiction televisive ambientate tra le corsie d’ospedale non sono una novità, è pur vero che Braccialetti rossi non solo raffigura per la prima volta il mondo ospedaliero dalla parte dei pazienti, ma sposa l’ottica dei più piccoli tra i ricoverati. Di più: la scelta di farsi piccoli è seguita in modo radicale tanto da affidare il ruolo di narratore al più giovane dei personaggi, il piccolo Rocco, un bambino di otto anni in coma a seguito di un incidente in piscina. Più straniato di così il punto di vista non potrebbe essere: dal suo stato di incoscienza pur vigile, il piccolo percepisce tutto e racconta, da una prospettiva a metà tra candore infantile e ironia complice, la vita quotidiana, ovvero l’intreccio di relazioni, amicizie e affetti che si viene tessendo tra i ragazzi ricoverati nel suo reparto. Ne risulta messo a fuoco il tema centrale della fiction: la rappresentazione della vita di un gruppo di ragazzi che condividono un’esperienza comune. La trama della serie non risulta, infatti, dall’intreccio di storie individuali sullo sfondo unificante del contesto ospedaliero: è, invece, la storia della nascita e del consolidamento di un gruppo di adolescenti, i cui legami appaiono rafforzati dalla sfida di una quotidianità dolorosa, come può essere, per i giovani, un’esperienza di ricovero prolungato.
L’avventura del gruppo dura, almeno per la prima serie, l’unica andata in onda per il momento in Italia, il tempo della degenza, e termina con la dimissione di buona parte dei membri della banda. Così se la malattia può essere, come ha rivelato lo stesso Campioni, metafora del disagio adolescenziale, la vicenda dei Braccialetti rossi incarna l’esperienza intensa per investimento di energie affettive, ma necessariamente circoscritta nel tempo, di tutte le compagnie di adolescenti. A delinearsi, di puntata in puntata, è una sorta di racconto di formazione collettiva: la avvalora la comune condizione di malattia che mette duramente alla prova ogni singolo personaggio, ma lo costringe anche a interagire con gli altri.
Insomma, la fiction conferma il rinnovato interesse della più recente letteratura per ragazzi per la raffigurazione della vita di piccole comunità coese di giovanissimi: dalla scuola di magia all’accademia di danza si approda, infine, al contesto più prosaico, ma ugualmente ricco di suggestioni narrative, del reparto pediatrico di un ospedale.
Non per nulla è proprio allo studio delle dinamiche relazionali che va l’interesse della fiction: il titolo si riferisce, infatti, all’emblema scelto dal gruppo, il braccialetto rosso consegnato ai pazienti all’atto del ricovero, simbolo della comune condizione di degenti; ogni personaggio, inoltre, è identificato dal ruolo svolto nella banda. Così Leo, un ragazzo colpito da tumore osseo, è il Leader, Vale il Vice leader, Cris, un’anoressica, è la Ragazza contesa tra i due, Davide, un piccolo cardiopatico, è il Bello, Tony, interpretato da un giovane attore esordiente, Pio Luigi Piscicelli – un vero piccolo Troisi, tra ironia sorniona, fantasia e mimica tutte partenopee – è il Furbo, Rocco, il narratore, è, visto il ruolo strutturale, l’Imprescindibile.
Gli episodi narrati nelle sei puntate della prima serie raccontano l’intrecciarsi delle relazioni d’amicizia che si stringono tra i giovani pazienti protagonisti, le storie familiari e sentimentali che li coinvolgono, sullo sfondo dei ritmi quotidiani della vita ospedaliera, tra terapie pesanti, interventi chirurgici invasivi e non sempre riusciti, esami clinici e Tac. Un contesto davvero deprimente che dà, tuttavia, risalto all’energia vitale con cui i ragazzi raffrontano, grazie al supporto saldo della solidarietà amicale. La malattia viene vissuta in una dimensione di socialità condivisa, in forza del sostegno reciproco che i giovanissimi degenti, pur tra liti, rivalità e malumori, non rinunciano mai a offrirsi. Perché sugli adulti, invece, i nostri piccoli eroi non possono contare molto: di fronte alla malattia infantile il mondo dei grandi rivela una fragilità indifesa e disarmata, spia della sostanziale incapacità di reggerne il fardello. Quanto al supporto della famiglia, i sei ragazzi sembrano avere alle spalle l’intero repertorio della crisi odierna dei ruoli genitoriali. Non solo li affligge una serie di lutti familiari, ma anche l’inadeguatezza dei genitori sopravvissuti, quasi sempre separati, latitanti e rinunciatari, persino disposti a delegare a compagne o figlie maggiori il ruolo di accudimento dei piccoli malati. Autorevolezza e affidabilità vacillano anche sull’altro fronte adulto coinvolto nelle vicende dei giovanissimi pazienti: quello del personale sanitario, che si mostra dotato sì di sicura competenza professionale, ma non infallibile e complessivamente incapace di coniugare professionalità seria e partecipazione affettuosa alle vicende dei piccoli. Così è per l’autorità suprema del reparto, che risulta essere, peraltro, a netta leadership femminile: a guidarlo, infatti, è la terribile dottoressa Lisandri, inflessibile nell’imporre regole di comportamento e nel proporre le terapie adeguate ai piccoli degenti, ma disposta a cedere alla commozione in una sola occasione, dopo aver effettuato l’intervento riuscito grazie al quale Rocco uscirà dal coma. Un successo questo che chiude con una nota di ottimismo la prima serie, quasi a compensare l’esito tragico della storia di un altro dei sei della banda, il piccolo Davide, morto a seguito di un intervento fallito. Insomma, medici e infermieri appaiono solleciti nello svolgimento dei loro compiti, ma mai davvero incoraggianti, qualche volta persino impietosi nel comunicare con franchezza disincantata ai piccoli pazienti notizie intorno al decorso clinico e alle prospettive di guarigione. Del resto la loro presenza è prevista dal contesto, ma a patto che il ruolo ne risulti defilato: la scelta della fiction è quella di esaltare non la professionalità generosa di medici e infermieri, ma l’esuberanza vitale e lo spirito di iniziativa dei ragazzi, a dispetto dei freni che la condizione di ricoverati e gli interventi dei sanitari cercano di imporre loro. Rispetto alle storie recenti di comunità infantili, dove è solitamente adottata la prospettiva dei piccoli, ma riconosciuta la presenza rassicurante dell’autorità adulta, la serie di Rai1 è percorsa da un’inquietudine evidente su questo terreno: non ci sono mentori totalmente affidabili e, in fondo, l’unica autorità adulta riconosciuta è quella di un malato di Alzheimer, Nicola, ricoverato in un reparto contiguo e legato da un rapporto di affettuoso cameratismo al gruppo dei Braccialetti. E un po’ un mondo alla rovescia quello dell’ospedale dei Braccialetti. L’istituto clinico, infatti, per quanto modernamente attrezzato, lontanissimo dagli esempi di malasanità italiana e collocato sullo sfondo improbabile di un paesaggio suggestivo, tra pineta e mare, si rivela, tuttavia, almeno deficitario sul piano della custodia e della tutela dei minori che, non per nulla, lo usano liberamente come campo d’azione per le loro pur ingenue bravate: eccoli scorrazzare tra i reparti in sedia a rotelle, partecipare a partite a poker in bische clandestine interne al nosocomio, accedere ai dati riservati del computer, improvvisarsi graffitari e affrescare con murales le pareti di un reparto, persino tentare con successo sortite clandestine. Si tratta di quel tanto di materia avventurosa che lo scenario ospedaliero permette di orchestrare, sufficiente a dar vita a un intreccio coinvolgente e coerente con il vissuto adolescenziale, tra prime cotte, gelosie, momenti di tensione, ma anche iniziative solidali, feste a sorpresa e concerti improvvisati. Per quanto li condizionino le precarie condizioni di salute, la vitalità non manca ai Braccialetti rossi, che preferiscono ridere dei loro malanni, ironizzando su teste calve e gambe amputate, piuttosto che piangervi sopra. E ridere del cancro può sembrare a tratti anche inquietante, ma, a quanto pare, intriga. Il successo della serie non è solo, tuttavia, conseguenza dell’equilibrio ben dosato tra lacrime e sorrisi su cui la fiction sa reggersi. Neppure dell’appello ai buoni sentimenti consono allo stile di Rai1. A suggestionare il pubblico è, piuttosto, il valore del vitalismo energico e coraggioso con cui il gruppo dei giovani degenti sa reagire alla sfida della malattia, senza subirne gli effetti deprimenti, ma contrapponendovi, anzi, la risorsa efficace di un solidarismo attivo. Quanto basta a rendere coinvolgente e godibile anche la rappresentazione di quel mondo ospedaliero che, raffigurato nei suoi aspetti più crudi e scoraggianti, tra cancro, malattie terminali e dintorni, era fino a poco tempo fa oggetto della rimozione collettiva.