L’inizio del secolo ha visto prevalere un’idea di letterarietà più moderna: non più una rigida contrapposizione tra produzione “di massa” e Vera Letteratura; bensì un sistema in cui è il principio di leggibilità a regolare lo scambio tra autore e lettore. Non esistono successi immotivati; solamente, scrittori in grado di entrare in sintonia con un pubblico più o meno vasto. Negli ultimi tempi hanno riscosso un particolare favore alcuni scrittori-giornalisti che lavorano per la stampa e la televisione; figure capaci di intercettare, attraverso uno stile chiaro e affabile, un’opinione pubblica composita. È anche grazie a loro la recente affermazione di libri a metà tra cronaca autobiografica e riflessione memorialistica.
Letterariamente, il passaggio dal XX secolo al XXI ha segnato una svolta grandiosa: un cambio di rotta, con il prevalere di una idea molto più moderna di letterarietà. Teniamo conto che il Novecento è stato un secolo contristato e difficile. Si è accentuata al massimo la contrapposizione tra alto e basso, creazione artistica di qualità e merce di infimo consumo, da una parte le opere destinate alla lettura delle persone colte preparate esigenti e dall’altro lato i testi concepiti per l’intrattenimento banale dei ceti di scarsa e fragile acculturazione, da poco fuorusciti dall’analfabetismo. Una sorta di barriera psicosociale separava la Vera Letteratura dalla Falsa, ossia la Non Letteratura. Nessuna mediazione era ritenuta possibile. La produzione definita spregiativamente “di massa” era da considerare inesistente, e come tale non sottoponibile ad alcuna attenzione critica, nemmeno per deplorarne la volgarità.
D’altro canto l’artisticità del testo sembrava dover essere garantita dalla sua difficoltà di linguaggio: era inteso che i destinatari appartenessero alle élite dotate di una formazione scolastica qualificata. Però un elemento di novità modernistica, rispetto alla tradizione dell’umanesimo linguistico-letterario, era stato costituito dalla clamorosa invenzione dell’avanguardismo: che implicava il rigetto totale dei modelli catalogati e consacrati, con un misconoscimento assiologico del canone classicistico dell’imitazione. Ma la ricerca della novità senza precedenti, dell’originalità priva di termini di confronto, non poteva non portare ai limiti dell’impronunciabilità e perciò stesso ovviamente della incomunicabilità. Così lo sperimentalismo avanguardistico si risolveva in una sorta di culto iniziatico dell’egotismo aristocraticistico.
Una situazione simile non poteva durare. In effetti, l’epoca duemillesca ha capovolto le carte in tavola, perché ha accettato il principio funzionale della leggibilità. Le opere scritte sono fatte per essere lette: se si riconosce questo presupposto di realisticità nel rapporto interpersonale catalizzato dall’oggetto testuale, tutta la dimensione della letterarietà esige di essere ripensata. Se scrittore e lettore sono i due terminali di uno scambio di interessi soggettivi, allora è essenziale riconoscerne le motivazioni. E particolarmente utile appare il richiamo dell’attenzione sugli autori che hanno dimostrato la maggior sagacia nel catturare il consenso ammirativo di una cerchia riconoscibile di destinatari. Dove si manifesta un più largo plauso di pubblico, lì c’è qualcosa che vai la pena di analizzare, capire, spiegare.
Si sa che il successo è sempre stato una bestia nera per i cosiddetti detentori del gusto, ossia i ceti o caste che godono di una fiducia speciale nella selezione e valorizzazione dei testi in commercio; lo scrittore che non abbia sostenitori di prestigio è perciò stesso considerato di serie B, per quanto numerosi siano i suoi estimatori, che non contano. Qui però interviene la questione editoriale, che porta in primo piano i bilanci dell’imprenditoria libraria. Se si ammette che abbia un motivo di interesse, non solo economico ma psicosociale, culturale, educativo la numerosità delle prove di apprezzamento godute da un testo, sia di alto sia di scarso valore estetico, con ciò stesso si dà un riconoscimento di merito all’azienda che lo ha reso disponibile al pubblico. Entra allora in campo quella discussa novità tardonovecentesca che sono le classifiche del venduto.
Come si sa, l’editoria è una attività di mediazione, dedita a trasformare un prodotto dell’ingegno mentale in una merce da immettere nel circuito distributivo, con un suo prezzo di copertina.
E quando si ragiona in questi termini monetaristici non si fa una operazione anticulturale: semplicemente, si accerta quale conformazione abbia l’immaginario della popolazione alfabetizzata, e quali siano gli orientamenti dei quali tenere conto utilmente, per rafforzarli o modificarli. Naturalmente ogni scrittore va, deve andare dove la sua disposizione d’animo lo porta: si scrive per i pochi o per i molti, per gli esigenti o per gli accomodanti, per gli innovatori o per i tradizionalisti. In una struttura culturale pienamente matura non hanno senso gli esclusivismi: c’è posto per tutti.
Nella lotta permanente per la concorrenza sul mercato librario, per vincere occorre essere in sintonia con qualcuna delle domande provenienti dalle tendenze molteplici di una collettività ricettiva sempre pluralistica e instabile. Beninteso, non è affatto detto che vincano sempre i migliori, tutt’altro, ma l’importante è rendersi conto che non esistono mai vittorie immotivate. Una cosa resta comunque certa: oggi come oggi, un rispetto particolare va riservato a coloro che si adoperano in favore di un incremento dei valori extraletterari più consentanei a un incrocio di liberalesimo e democrazia; assieme, un privilegio di simpatia spetta a quanti ricorrano a una scrittura di mediazione fra nitidezza affabile e cordialità disinvolta.
Qui siamo infine all’aspetto più significativo di questo volume tiraturesco: il richiamo dell’attenzione su quella categoria di scrittori-giornalisti che lavorano per la grande stampa ma soprattutto per i mezzi audiovisivi, orientandone l’uso per una formazione dell’opinione pubblica apprezzabilmente ragionata. Il piccolo schermo consente di attingere una area di utenza largamente composita sino ai limiti della gente dei blog. Si potrà dire che non c’era bisogno di celebrarli, questi personaggi autoriali, certamente non privi di furberia. Ma nella nostra Italia alle prese con il culto delle personalità più feticistiche e fanfaronesche, è importante che ci sia chi si fa valere solo per la inclinazione a mediare la spregiudicatezza spavalda con un certo gruzzolo di buonsensismo.
Significativamente, il fenomeno forse più caratteristico di questi anni recentissimi è una sorta di miscela fra autobiografismo cronistico e memorialismo riflessivo, utili entrambi a oltrepassare i fervori ideologistici d’altri tempi senza negarne il pathos di autenticità: come se si trattasse degli sforzi di una conciliazione tra ripensamenti contristati e sconfessioni corrucciate se non polemiche. Infine, il tempo duemillesco, che pure è tempo di grandi e piccole guerre o guerricciole o guerriglie di ogni genere, non sembra in grado di aprirsi a speranze prospettiche di rivolgimenti positivi: dopo il 1989, gli utopismi più o meno volonterosi hanno perso credibilità. E allora, meglio rifarsi al vecchio ben noto genere dei racconti sui conflitti tra le generazioni, che consentono almeno di tenere vivo il senso della perennità di una evoluzione antropologica che è pur sempre il contrario dell’immobilismo e della involuzione passatista.