Minimum fax: la «start up» più longeva dell’editoria

Nata a Roma nel 1994, minimum fax si è da sempre distinta per la riconoscibilità del marchio editoriale, dovuta non solo alle coraggiose scelte di catalogo ma anche dell’attenzione rivolta alla grafica, alla comunicazione e alla formazione. Oggi la casa editrice è pronta ad affrontare la rivoluzione del digitale e i drastici cambiamenti che ne derivano nell’attitudine alla lettura.
 
Quando la parola start up ancora non esisteva – almeno non nel senso che le attribuiamo oggi –, Daniele Di Gennaro e Marco Cassini stavano mettendo in piedi a Roma una casa editrice innovativa, sia nella proposta sia nel modo di lavorare e collaborare. Sono passati circa vent’anni da allora e il Dna di minimum fax non è cambiato: in continua evoluzione e apertura, come tutte le start up, ma con la stessa attitudine indipendente degli inizi.
 
Intervista a Daniele Di Gennaro
 
«… andrò a New York a lavorare / ti assicuro che lo faccio / se non altro vado al parco / leggo David Foster Wallace… » Così recita la canzone Hipsteria dei Cani, gruppo di giovani ragazzi romani che bazzica da alcuni anni la scena della musica indipendente italiana. E subito viene in mente minimum fax, dal 1994 punto di riferimento per i giovani indie – e non solo – di tutta Italia che nel tempo sono cresciuti ma hanno conservato la stessa attitudine, al di là delle vecchie e delle nuove etichette. Cosa significa per voi essere una casa editrice indipendente? E cosa è cambiato dagli inizi a oggi?
È indipendente una casa editrice libera di scegliere progetti editoriali e di costruire il proprio gruppo di ragionamento, libera di scegliere le persone con cui lavorare. Una realtà che vive unicamente del suo lavoro e non di altri sostegni finanziari. La definizione editore indipendente negli anni novanta si inseriva in un contesto generale che vedeva grandi gruppi editoriali contrapposti a case editrici di ricerca, a volte costituite da pochissime persone, ma capaci di alimentare il sistema editoriale con nuovi autori, nuove linee grafiche, nuovi processi di comunicazione. Prima che nel settembre 1998 minimum fax lo pubblicasse in Italia, David Foster Wallace non era mai stato tradotto, quindi non era mai uscito dagli Stati Uniti: lui stesso si considerava pressoché intraducibile. Oggi, data la sofferenza del mercato del libro, il legame connettivo fra i termini indipendente e libero è sub iudice: staremo a vedere quanto gli editori di proposta riusciranno a riempire di vera libertà operativa i loro progetti, oltre il mero significato ideologico dell’indipendenza.
 
La grande attenzione alla grafica di copertina è da sempre un elemento di riconoscibilità di minimum fax, sia per quanto riguarda i nuovi titoli sia per le ristampe. Che peso ha avuto questa vostra politica nell’affermazione del marchio e come vi ponete ora rispetto al fatto che molti lettori non sfogliano più il libro in libreria ma ne vedono la «miniatura» sui negozi online o le «sfumature di grigio» sull’e-book?
Oltre alle scelte sui contenuti, l’identità di un marchio editoriale vive della sua riconoscibilità. La cura delle grafiche e di tutti i dettagli dell’oggetto libro è stata fondamentale sin dagli inizi, per poi diventare ancora più incisiva con l’avvento di Riccardo Falcinelli, un art director che ha saputo creare continuità fra i contenuti editoriali, la veste grafica e l’attitudine di coloro che lavorano a ogni progetto.
Sulle copertine, a seconda delle collane, si lavora sulle parole chiave della singola pubblicazione cercando nell’illustrazione, nella fotografia e nella natura dei caratteri un risultato finale convincente che dia impatto, continuità e una riconoscibile relazione stilistica rispetto al genere e all’identità di autore e testo. Un lavoro nel complesso molto approfondito che richiede fatica ma che alla fine dà parecchia soddisfazione.
L’e-book è un prodotto editoriale a se stante, che racchiude straordinarie possibilità distributive oltre che informative: può raggiungere ovunque lettori lontanissimi dal luogo fisico della libreria e può avere contenuti «extra» disponibili gratuitamente per il download (rassegne stampa, informazioni sul percorso del libro all’estero, biobibliografie, mappe culturali che indicano in che contesto culturale si colloca quell’autore, quel libro e quello stile). Tutti elementi che possono ricoprire un prezioso ruolo motivazionale rispetto all’acquisto di quello e altri testi correlabili, ben al di là dei colori e della grafica della copertina.
Anche noi ci stiamo muovendo sul versante digitale e a oggi contiamo oltre cento titoli minimum fax in formato elettronico; inoltre abbiamo sia un workshop sia un modulo specifico all’interno del corso «Il lavoro editoriale» dedicati agli e-book, che affrontano il tema da un punto di vista teorico ma anche pratico: insegnano a creare e impaginare un ePub.
 
La vostra casa editrice propone una serie di attività formative e di corsi per aspiranti scrittori e redattori. Come è nata questa idea e quali ritorni ha avuto?
L’incontro tra me e Marco Cassini avvenne in un corso di scrittura che si teneva in un pub romano. Là conobbi altre persone che come me erano appassionate e incuriosite dal mondo della scrittura – e quindi da quello editoriale –, con le quali decidemmo di dar vita a una «rete solidale», ovvero un circuito nel quale ciascuno potesse condividere le proprie passioni personali legate al mondo del libro e scambiare idee. I nostri corsi nacquero così, come condivisioni di esperienza.
Oggi la formazione è gestita da una associazione culturale (Emme Effe) che per definizione non ha scopo di lucro. Genera un movimento di aggregazione professionale che va al di là di quello quotidiano e che diffonde attenzione rispetto al marchio editoriale. I nostri corsi consentono una visione globale della produzione editoriale e la possibilità di capire quale dei tanti mestieri della catena produttiva si addice alle attitudini di ognuno. E chiaro che una buona consapevolezza del mondo del libro costituisce solo una base per l’ingresso vero e proprio nelle case editrici, che dipende molto anche da elementi come la motivazione, la capacità di concentrazione, la cura dei dettagli, il saper lavorare sotto pressione, l’avere un atteggiamento positivo rispetto al lavoro di squadra; tutte cose che non si possono apprendere in corsi sul mestiere dell’editore o del redattore.
Detto ciò, la nostra esperienza nel campo della formazione è più che positiva, perché tanti dei nostri corsisti hanno fondato nuovi marchi editoriali o hanno trovato poi lavoro in diverse realtà editoriali italiane.
 
Il proliferare di case editrici a Roma e dintorni ha fatto sì che nel corso dell’ultimo decennio la capitale diventasse un polo editoriale degno di nota, contrapposto alla storica egemonia milanese. Insomma fare libri a Roma è diventata la normalità, ma vent’anni fa, quando avete iniziato voi, le cose non erano così. Come vedete questo fenomeno e come l’avete vissuto? Oggi predomina la «competizione» o la voglia di «fare sistema»?
Nel 1992, quando nacque l’omonima rivista via fax, la scena romana prendeva forma e si poneva come nuova realtà di proposta editoriale. Ricordo che consideravo Alberto Castelvecchi e Sandro Ferri di e/o come due maestri. L’aria che si respirava era stimolante: la scelta dei titoli da pubblicare e del modo di raccontare le storie avveniva con cura appassionata. La frase che sentivo pronunciare più spesso sia dagli altri sia dai miei collaboratori era «si può fare»; si condivideva insomma un’idea di possibilità più tipicamente newyorkese che romana.
Nessun predominio o competizione fra le due «capitali», ci sono entrambe. Il problema italiano è una sotterranea, sistematica diffidenza: una guerra di posizione che riduce la lotta alla mera difesa dei propri confini e non alla conquista e alla proposta di iniziative che aggiungano qualcosa di importante al panorama preesistente. Probabilmente una diffidenza dovuta al fatto che gli editori come noi sono innamorati del loro lavoro, ci si affezionano, restano fondamentalmente lettori orgogliosi più che imprenditori dell’editoria, anche per la loro natura radical-borghese, quindi sprovvista di una vera, pragmatica cultura d’azienda. La crisi ha generato belle realtà di forze unite per specifiche questioni anche legislative fra editori affini per dimensione e sguardo (come il gruppo dei Mulini a Vento), lungi però dal costituire un vero e proprio sistema, che sarebbe frutto di pura cultura imprenditoriale. Dall’altro fronte il paradosso attuale vuole che gli egemoni oggi vivano preoccupazioni anche più forti degli editori che vivono fuori dai grandi gruppi editoriali.
 
Ormai si parla tanto di ibridazione, multicanalità, transmedialità… Putti termini che indicano la necessità – per le imprese culturali e non solo – di esplorare continuamente nuovi ambiti di attività e di essere presenti su più canali fisici e virtuali allo stesso tempo. Anche voi seguite questa tendenza e siete presenti su più fronti (penso per esempio al festival «La grande invasione» e a minimum fax media). Qual è diventato il peso di queste attività all’interno del vostro progetto e cosa avete in mente per il futuro?
Più che una tendenza, portare i libri in contesti anticonvenzionali per noi fu una necessità, dovevamo conquistare visibilità e risorse economiche delle quali all’inizio eravamo totalmente sprovvisti. Oggi l’editoria è più di allora da intendere come selezione, scelta e proposta di contenuti. Un testo può dare vita a un libro, a uno spettacolo teatrale, a un adattamento audiovisivo; può costituire un blog culturale o diventare parte integrante di un progetto formativo. La chiave resta sempre l’affidarsi alle persone giuste, che siano un traduttore, un regista, un attore, o un grafico. La proposta su Sky Arte del format Bookshow, per esempio, è stata davvero una bella prova di forza, è andata oltre ogni nostra migliore aspettativa per qualità del risultato e dei riscontri. Il libro deve essere sempre al centro, anche di festival o eventi dal vivo.
Minimum fax media nasce nel 2004 con l’intento di estendere quando possibile i contenuti della ricerca editoriale alle piattaforme audiovisive: documentari sul mestiere dello scrittore come Acqua in bocca (A quattro mani), o di impegno civile come Primavera in Kurdistan o Mare chiuso, o teatral-letterari come il lavoro di Gifuni e Bertolucci su Gadda e Pasolini, riflettono il lavoro delle collane «Filigrana» (teoria della scrittura), «Indi» (inchiesta di impegno civile), e così via. Gli effetti positivi sul piano editoriale sono chiari: dal documentario Acqua in bocca nacque un libro a quattro mani di Camilleri e Lucarelli, che generò grande attenzione dei media e vendite oltre le 300mila copie, grazie anche a due messe in onda su Rai3. Il documentario di Giuseppe Sansonna su Zdenek Zeman e l’etica dello sport è stato presentato da Fabio Fazio a Che tempo che fa così come i film Gadda/Pasolini di Gifuni/Bertolucci, con qualche buon effetto sulle vendite, sulla percezione del marchio editoriale e sui librai. Avere a disposizione dei materiali audiovisivi genera anche dei trailer molto visti nella Rete, che funzionano da veicolo virale e forte sostegno del prodotto editoriale.
 
Come vivete la distribuzione, storico punto debole per tutta la piccola editoria? Quali sono secondo voi le strade percorribili per correggere inefficienze endemiche del nostro sistema?
E in pieno corso una crisi di sistema. Le macchine distributive e promozionali sono diventate troppo costose in rapporto alla crisi di mercato che sta mettendo in difficoltà tanti librai.
Detto questo, io penso che un editore sia sempre responsabile del proprio destino, che dipende dalla qualità delle scelte e dalla forza con cui riesce a sostenerle. Non può esistere una distribuzione o una rete promozionale perfetta. Lavoriamo per fornire alla promozione gli strumenti più efficaci perché i librai possano recepire al meglio le nostre proposte, le quali avranno vita, saranno vendute e saranno oggetto di ristampe solo se incontreranno i bisogni, la domanda, i sentimenti e i gusti di un congruo numero di lettori. Oggi è fondamentale riflettere sulle mutazioni dell’attitudine alla lettura e dei suoi ritmi, specie nelle nuove generazioni, compresse in community di coetanei con scarsissimi contatti con le generazioni precedenti, quindi estranei all’idea di eredità culturale. Io devo tutto ai consigli di persone più grandi di me: i libri, i film, i dischi che hanno formato il mio gusto critico me li passarono persone adulte che mi concedevano delle dritte formidabili. Mi sentivo riconosciuto e incuriosito dalla loro attenzione nei miei confronti. Frequentavo le case, quindi i nonni, padri e cugini maggiori dei miei amici. Oggi un sms elude anche l’uso del citofono.
La soglia dell’attenzione ha i ritmi frammentari di sequenze da videogame. Le rivoluzioni non solo tecnologiche stanno cambiando i costumi e la natura della fruizione dei prodotti editoriali. Lì si gioca parecchio del futuro degli editori, nel trovare un equilibrio fra gli estremi. Chi si affeziona troppo a modelli del secolo scorso, come chi rincorre troppo i vettori di moda, rischia, parafrasando Evtusenko, di «venire schiacciato dalla ruota del tempo».
 
Chiudiamo in bellezza e parliamo di «record» per celebrare i vent’anni di minimum fax: il titolo più venduto di sempre, il più difficile da realizzare, il libro cui siete più affezionati, il progetto più bello cui avete lavorato, il prossimo record da realizzare…
Il più venduto: Acqua in bocca di Camilleri e Lucarelli, un prototipo di romanzo epistolare generato dalla produzione di un documentario sui due autori. Una sorta di jam session narrativa che grazie anche alle messe in onda Rai è arrivata a oltre 300mila copie. Quella che per noi fu davvero un’impresa è la riproposta in un’unica collana dedicata all’autore dell’opera omnia interamente ritradotta di Raymond Carver. Ostico sicuramente anche tutto il lavoro fatto intorno alla traduzione e alla proposta dell’allora sconosciuto David Foster Wallace e di tutti i Burned Children of America come lui, figli di un’antologia da noi selezionata che ha fatto poi il giro del mondo. L’affezione c’è per tutti i libri che decidiamo di pubblicare, altrimenti non li sosterremmo. Penso fra i più recenti a Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, e a Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti, conosciuto come operatore e montatore di una nostra produzione audiovisiva: oggi sappiamo che quell’attività fungeva da copertura per uno scrittore straordinario.
Nel 2014 festeggeremo vent’anni di libri, nei quali ho sempre vissuto una condizione e una realtà stimolanti. Ho avuto la fortuna di poter lavorare a progetti sempre diversi e sono stato circondato da persone migliori di me in determinati ambiti che mi hanno insegnato ogni giorno cose nuove: un arricchimento continuo. Il prossimo obiettivo è farne altri venti e vedere che effetto fa invecchiare osservando da vicino i flussi veloci delle idee, delle storie e delle mutazioni sociali.
Per fare questo sarà necessario avere la disposizione mentale del principiante, quella della nudità di sguardo, della capacità di sorprendersi. Ogni posa intellettualoide, rigidità ideologica, supponenza per autocompiacimento da status inibiscono pregiudizialmente questa attitudine all’ascolto, all’apertura, alla presa d’atto dei cambiamenti; all’accettazione di quello che è diverso da noi, o di quello che non abbiamo mai pensato, che un ambito di evoluzione culturale dovrebbe presupporre per natura e definizione.