Come la letteratura, anche il cinema sente il richiamo della non fiction ed esplora quel terreno a metà fra documentario e finzione in cui il regista rinuncia a esprimere un commento esplicito su quanto mostrato nelle inquadrature e sprona lo spettatore a farsi interprete attivo, partecipando alla costruzione di senso.
Jean-Luc Godard ha affermato che il cinema inizia con David W. Griffith e finisce con Abbas Kiarostami. Inizia con colui che viene considerato il caposcuola del linguaggio cinematografico del cinema di finzione e finisce con il regista iraniano ritenuto uno dei massimi esponenti del cinema di non fiction. L’affermazione godardiana è indice del riconoscimento di un filone nuovo, che si sta conquistando uno spazio sempre maggiore nel panorama visivo contemporaneo. Negli ultimi tre decenni abbiamo assistito a un radicale mutamento nel mondo delle immagini, che ha provocato qualche disorientamento ma portato anche un rinnovato stimolo di energia creativa. La trasformazione dovuta all’avvento del digitale ha reso gli strumenti accessibili a un maggior numero di persone, democratizzando il medium e abbassando le competenze. Sul versante estetico, la rappresentazione fotografica ha perduto il suo valore ontologico di copia del reale, divenendo un processo di sintesi da cui creare immagini virtuali potenzialmente manipolabili all’infinito. Per chiarire, un fotogramma del Colosseo, trattato in postproduzione con i procedimenti digitali, non sarà più la riproduzione reale del monumento, ma qualcosa di molto più prossimo alla tradizionale idea di rappresentazione pittorica. Questa mutata prospettiva ha portato da un lato a un eccesso di realtà virtuale sfociato nella vasta produzione di film di effetti speciali e in 3D; dall’altro, ha invece acuito la necessità di un ancoraggio al mondo reale, rappresentato da un rinnovato interesse produttivo nei confronti del documentario.
L’attenzione da parte dei festival è un ulteriore segnale di quanto il documentario stia acquisendo uno spazio sempre maggiore nel panorama cinematografico, ma soprattutto solleva una questione cruciale: la difficoltà nel rinserrare alcuni film all’interno di una categoria decisamente ristretta. Nel maggio 2002, Bowling for Columbine di Michael Moore entra nella competizione principale del Festival di Cannes, dopo quarantasei anni in cui i documentari erano stati in genere relegati nelle sezioni collaterali. Nel 2013, dopo all’incirca quarant’anni, anche nel concorso della Mostra di Venezia i documentari ritornano a confrontarsi con lungometraggi di finzione. Sacro Gra di Gianfranco Rosi vince a sorpresa il Leone d’oro, presentando un affresco di insolita umanità lungo il Grande raccordo anulare di Roma, quasi settanta chilometri di tangenziale urbana, una camminata antropologica che collega storie di vita vera. La vittoria di Rosi solleva varie polemiche tra gli addetti ai lavori. Definito «in bilico tra finzione e realtà», Sacro Gra viene accusato di non essere abbastanza fiction per meritare la vittoria. Le parole pronunciate da Pupi Avati, durante una manifestazione letteraria a Pordenone, esprimono efficacemente la natura delle perplessità: «[Il festival] si è ridotto ad assegnare il primo premio a un documentario, antitesi di quello che dovrebbe essere quest’arte. Il Leone d’oro a un regista che non ha mai diretto un attore ne denuncia lo stato di crisi». La questione è, in realtà, più complessa, perché si tratta di riconoscere la presenza consolidata di un nuovo filone, un genere ibrido che sfugge ai parametri delle classificazioni precostituite. Ci riferiamo all’ineffabile mescolanza tra riproduzione e rappresentazione che è indiscutibilmente la cifra del tempo presente. Un po’ vita reale, un po’ narrazione, modulata in stili differenti dai registi che ne hanno fatto il loro marchio di fabbrica, viene variamente etichettata quale «docufiction», «documentario di creazione», «cinema del reale», «non fiction» ecc. La mancanza di una terminologia univoca esprime la fluttuante incertezza dei confini classificatori di questa forma eterogenea, che sembra attingere ai due generi principali – fiction e documentario – per dare origine a una nuova tipologia di film, onesta nei presupposti estetici ed etici, e soprattutto attenta allo spettatore, quest’ultimo sempre più disincantato dal coevo immaginario televisivo dei reality, che ha fatto dell’ostentata esibizione della realtà merce appetibile per la vittoria dell’audience.
La primigenia ripartizione dei generi vede la luce alla fine dell’Ottocento, con la nascita del cinema stesso: da una parte il documentario dei fratelli Lumière, che riproducono scene di vita quotidiana; dall’altra la fiction fantastica dell’illusionista Méliès, che usa le immagini in movimento per arricchire i suoi spettacoli. I primi sono scienziati, figli della nuova epoca industriale, che mirano a trarre uno sfruttamento commerciale dalla loro invenzione; il secondo è uomo di teatro che lavora alla messa in scena puntando sui trucchi cinematografici, non come artificio narrativo, ma rendendoli il fine stesso dei suoi lavori. I film di Méliès puntano cioè sugli effetti con l’unico scopo di sbalordire gli spettatori, non di raccontare storie. Da allora, l’industria e l’arte hanno proceduto di pari passo, il cinema ha sviluppato un proprio linguaggio e differenziato l’offerta del prodotto, ma i due filoni principali sono sempre rimasti capisaldi. A riprova, la convenzione di scegliere a priori il formato di pellicola anche in base al genere: il 35mm, più raffinato e pulito, per la narrativa di finzione (che incassa di più e può permettersi mezzi migliori), e il 16mm, più sgranato ed economico, che si avvale di attrezzature più leggere e maneggevoli, per le riprese documentarie. Certo, talvolta i canoni sono stati trasgrediti, ma come eccezione alla normativa, inosservanza eccentrica o sperimentazione ai margini. Eccellente esempio, in tale senso, La terra trema di Visconti (1948), che, sebbene sia ispirato alla narrativa romanzesca dei Malavoglia di Verga, è interpretato dai veri abitanti di Aci Trezza, alle prese con la durezza dell’esistenza quotidiana, che parlano un siciliano così stretto da rendere necessario il doppiaggio per l’uscita nelle sale. In Italia si osservano altri sporadici casi isolati, ma bisogna fare attenzione a non cadere nell’equivoco del Neorealismo che, a parte il ricorso ad attori non professionisti e l’ispirazione alle vicende reali dell’Italia del dopoguerra, è ben lontano dalla docufiction già solo per l’assenza di presa diretta e per l’utilizzo invasivo di musica extradiegetica di commento.
Pur essendo a metà strada tra il documentario e l’horror, sfugge a una classificazione semplicistica The Blair Witch Project. Il mistero della strega di Blair di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, che costituì un vero e proprio caso nel 1999, prodromo del cambiamento in atto nel mondo del cinema. Il film racconta la sparizione di tre studenti nei boschi del Maryland e il ritrovamento di alcune pellicole e nastri audiovisivi da loro girati nei giorni immediatamente precedenti la scomparsa. Un prodotto modesto nella sostanza, liberamente ispirato a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980), eppure record d’incassi proprio grazie all’equivoco tra realtà e finzione architettato dall’originale campagna pubblicitaria, scaltro esempio di neomarketing virale, cioè attraverso la Rete. Un anno prima dell’uscita del film, diventa popolarissimo il sito Internet che spiega nei dettagli la misteriosa sparizione, spacciandola come fatto di cronaca, e promette aggiornamenti in tempo reale. Dalla fotografia sgranata all’utilizzo della macchina a mano, tanti sono gli ammiccamenti al filmino di documentazione amatoriale. Basti pensare alla famosa inquadratura – astutamente usata come «trailer» dissimulato – di un primissimo piano della protagonista che si autoriprende, fuori fuoco e con la voce tremolante, rivolgendosi all’ipotetico futuro spettatore e domandando perdono per il suo progetto sulla strega di Blair. The Blair Witch Project. Il mistero della strega di Blair è tra i primi esempi di come l’introduzione del digitale abbia cambiato profondamente la concezione dell’opera cinematografica, perché il pubblico inizia ad abituarsi all’estetica sporca e barcollante delle nuove telecamere numeriche proiettata sugli schermi delle sale cinematografiche.
Nel 2003, l’anno dopo Bowling for Columbine di Michael Moore, viene presentato al Festival di Cannes Elephant di Gus Van Sant, un film così bello da portarsi a casa sia la Palma d’oro che il premio alla Miglior regia. L’argomento è condiviso con Moore, la strage alla Columbine High School in Colorado, provocata da un paio di studenti armati fino ai denti. Però, mentre Moore aveva confezionato un documentario funzionale ad argomentare la propria tesi e orientare il punto di vista degli spettatori, Gus Van Sant fa l’opposto. Mostra senza dimostrare, si esime dall’esprimere giudizi di qualsiasi genere, regala allo spettatore la libertà di scelta: la possibilità (e la responsabilità) di un’opinione non telecomandata in merito ai fatti rappresentati sullo schermo. Basti confrontare la rappresentazione della strage nei due film. Dirigendo un prodotto «documentario», Moore non può ricostruire a posteriori gli omicidi, quindi decide di utilizzare la diretta delle telecamere di sorveglianza della scuola, organizzandole però con artificioso montaggio in uno split screen di quattro inquadrature, per moltiplicare l’eco della violenza. Inoltre, poiché le scene sono in bianco e nero e gli assassini si confondono nella folla degli studenti in fuga, escogita l’espediente degli aloni luminosi per indicarli, una sorta di evidenziatore per gli spettatori più disattenti. Aggiunge infine a colori i volti in lacrime degli astanti sopravvissuti, enfatizzati da una musica retorica e sovrastante che si aggiunge alle sue considerazioni. Di tutt’altra natura la regia di Elephant, esemplare dimostrazione del modello di cinema non fiction. Van Sant non usa voce narrante e si limita a pedinare i protagonisti nelle loro lunghissime camminate per i corridoi scolastici, utilizzando principalmente il piano sequenza, l’inquadratura senza stacchi di montaggio che rispetta la temporalità del fluire della vita. Rinuncia agli attori professionisti e seleziona veri studenti che interpretano se stessi, mantengono i loro nomi e il loro abbigliamento. In Elephant, il regista ci racconta una quotidianità di ordinaria banalità, osservata da diversi punti di vista. Nella sequenza della strage, non accentua la rappresentazione della violenza, ma anzi compie un lavoro di sottrazione, mantenendo in fuoricampo visivo le scene più efferate, di cui però percepiamo i suoni e i rumori. Van Sant non vuole suscitare la partecipazione lagrimevole dello spettatore ma sollevare interrogativi che lo invitino a una riflessione personale. Dopo aver girato film narrativi tradizionali quali Will Hunting. Genio ribelle (1997) e Scoprendo Forrester (2000), poco prima di Elephant Van Sant dichiara di avere scoperto un nuovo filone di registi di cui ignorava l’esistenza e a cui si è ispirato. Tra loro, l’ungherese Béla Tarr, il russo Aleksandr N. Sokurov e soprattutto l’iraniano Abbas Kiarostami.
Rappresentante per eccellenza del filone non fiction, Kiarostami è abilissimo nel coniugare il tempo della vita e quello del racconto, come in Close Up (1990), disorientante andirivieni tra il documentario e la fiction. Sempre più numerosi sono i registi che negli ultimi anni hanno intrapreso la strada della non fiction, tra cui non possiamo non ricordare i belgi Lue e Jean-Pierre Dardenne, due volte vincitori a Cannes con film che sembrano spaccati di vita vera, Rosetta (1999) e L’Enfant (2005), e il cui eloquente motto è «Bisogna essere nel culo delle cose». I film degli autori citati hanno in comune alcune scelte di regia, ma non necessariamente: per esempio, Kiarostami predilige la macchina fissa mentre i Dardenne la camera a mano, entrambi attribuiscono una maggiore importanza ai rumori e ai suoni presenti sulla scena rispetto alla musica extradiegetica, che per lo più è assente. E un altro, invece, e più importante elemento ad accomunare tutti gli autori che si collocano nel filone della non fiction. Come Van Sant, Kiarostami e i Dardenne si collocano nel solco della libertà di scelta dello spettatore. L’incomprensione, cioè la possibilità per un film di non essere capito, diventa un valore e non un detrimento, perché solo così si può stimolare il pubblico ad avere una presenza attiva e costruttiva, promuovendo la divergenza tra le persone piuttosto che la convergenza che mette tutti d’accordo. I registi di non fiction sono legati dalla convinzione che il solo mezzo di progettare un nuovo cinema sia considerare di più il ruolo del pubblico, affinché partecipi a riempire i vuoti e le mancanze di una struttura narrativa concepita appositamente debole e incompleta, come le inquadrature, che non necessariamente devono mostrare tutto, ma possono soltanto alludere a un’altra immagine, avvalendosi del fuoricampo visivo o sonoro. Tra finzione e documentario, oggi le opere più interessanti sembrano provenire proprio da questo filone di cinema sincretico, che rimette lo spettatore al centro di un processo estetico ed etico.