Manca oggi un discorso generalista sui videogiochi che – al di là degli specialismi accademici e della partigianeria di «sviluppatori» e giocatori – eviti anche il qualunquismo di certi media, affrontando l’argomento con tono equilibrato per restituire la complessità di un settore in rapidissima crescita e indagare l’importanza di scrittura e narrazione al suo interno.
I videogame possono non riguardarci? Quanto contino oggi lo dicono le cifre. I numeri dei titoli in commercio, dei giocatori, delle ore giocate, delle imprese che li progettano e realizzano, dei siti che ne parlano. E del fatturato complessivo dell’industria videoludica, che da qualche anno ormai ha staccato quello del cinema. Ma: ne stiamo ragionando abbastanza e come si deve?
Difficile dire che non se ne parli. Le parole sui videogame scorrono, mi pare, in quattro grandi ambiti. C’è il discorso accademico, quello degli operatori dell’industria videoludica, quello dei giocatori e quello dei media. Tre settori su quattro in cui il discorso è d’indole, in vario modo, specializzata, in cui ritorna una rete di termini chiave, perché – come dice Zach Waggoner nel titolo di un suo volume recente – anche qui “words matter”. Le riflessioni sono spesso molto competenti, condotte prevalentemente dall’interno del mondo del videogiocare, segnate da un forte investimento personale che può renderle penetranti. Nel caso dei game designer e delle tante altre professionalità di un’impresa profondamente collettiva il coinvolgimento è economico e tecnico-culturale: le considerazioni e discussioni nascono dalla chiara conoscenza dei complessi processi produttivi e progettuali necessari perché un titolo possa venire alla luce. Estetico-ludico – e dunque anche esistenziale – per quel che riguarda invece i giocatori. Che a dispetto dello stereotipo del ludofilo vampirizzato dal mondo senza finestre del videogame, non solo giocano spesso insieme (ben prima dei e non soltanto nei giochi Multiplayer Online) ma parlano tanto fra di loro: smontando, confrontando, giudicando titoli e meccaniche di gioco, o raccontandosi e rimeditando partite ed esperienze vissute, con il gusto dell’intenditore che vuole mostrarsi capace e affinarsi, o con quello del viaggiatore di ventura che tante ne ha viste affrontate e scampate, e narra e testimonia per bisogno di condivisione e per compiacimento narcisistico. Certo con i modi duttili, quasi eruditi, entusiasti o aggressivi, informali informalissimi del discorso dei fan. (Detto per inciso, le forme «istituzionali» e i linguaggi elaborati dagli appassionati di cinema, letteratura, musica, sono uno dei fenomeni e dei meccanismi di metabolizzazione della cultura più rilevanti del secondo Novecento, che attende ancora di essere davvero studiato e messo in connessione con altri elementi del sistema comunicativo.)
Più libero e disinteressato sarebbe invece il discorso accademico, in sviluppo progressivamente accelerato. Con una netta distanza fra noi e i paesi anglosassoni, come mostra soltanto una veloce consultazione del catalogo di una libreria online e il relativo numero delle voci estratte. Ma non di rado appesantito dalle esigenze di idioletto. E con un problema non banale di legittimazione, come – e più – di quanto accade ad altri settori di studio di prodotti culturali popolari.
Quelli che ho richiamato fin qui sono discorsi fatti da chi sa abbastanza o molto di quello di cui sta parlando. Tante volte faticano a filtrare fuori dagli spazi istituzionalizzati della sfera videoludica (aziende, giocatori forti – come si dice lettori forti –, università). Al contrario le parole dei media vedono poco e male il mondo dei videogiochi, ne propongono immagini parziali, deformate, ristrette. È un discorso a folate, fatto di insistenze e ossessioni, di rimozioni e smemorataggini. I videogame abbandonano gli utenti al demone dell’aggressività, li plagiano favorendo uno scatenamento delle pulsioni peggiori. O invece li consegnano allo spirito dell’inerzia, che li sottomette e li isola.
Manca mi pare un discorso «generalista» informato, capace di sottrarsi alla trappola degli unilateralismi, alle amplificazioni gridate, insomma alla forcella esecrazione/entusiasmo, catastrofismo/apologia, che interferisce con tanta parte dei ragionamenti odierni sui paesaggi culturali tecnologici in cui viviamo. Servirebbero articoli, saggi, volumi agili che svolgano rispetto alle riflessioni interne al mondo videoludico (di operatori, giocatori e professori) un lavoro di divulgazione e insieme di interrogazione e richiesta. Ci vorrebbe poi (comunico un altro imbarazzo che mi sto portando dietro) un tono giusto, che sappia non cadere nell’esortazione didascalica, evitare il tecnicismo degli accademici, non scivolare nell’impressionismo giornalistico, scansare l’entusiasmo ingenuo da colonizzatore di nuovi ambienti culturali.
Provo allora qui a segnalare alcuni errori di visione – per lo più credo ben chiari a chi di videogiochi si occupa abitualmente – che informano l’immagine corrente che del videogioco ha il lettore medio 2013. Non intendo dilungarmi. Vorrei soltanto affermare un principio, la necessità di non scordare il plurale.
Bisognerebbe riconoscere sul serio – imparare a pensare a fondo – la varietà, le differenze che attraversano l’universo dei videogame. A partire da quelle più tangibili, anche fisicamente più evidenti: la diversità di supporto tecnologico (pc, console fisse e mobili) o di situazione sociale (in pubblico/in privato, nelle sale giochi e in altri locali o nelle abitazioni personali; da soli/in gruppo, in presenza oppure online). Ma quella che mi interessa di più è la diversità dei generi: una molteplicità di temi e scenari certo, ma più ancora di forma dell’esperienza. Basta accostare due dei nomi correnti con cui i videogiochi sono raggruppati in famiglie, sparattutto in prima persona e God games. Rinviano ai differenti sistemi di gioco, alle diverse architetture procedurali realizzate dai designer, ma sistemi e architetture sono stati progettati in quel modo a partire da un’esigenza di prospettiva, da una questione di punto di vista (dato che non dovrebbe lasciare indifferente chi si occupa di letteratura), per far assumere al giocatore un determinato assetto di fruizione, per fargli vivere un preciso tipo d’esperienza. Catapultandolo dentro il mondo di finzione del gioco, con una visuale ristretta e il tempo compresso degli eventi di crisi, in un itinerario di sopravvivenza, come in Doom, Half-Life, Halo, Cali of Duty. O disegnandogli un punto d’azione e di visione distante e panoramico, consegnandogli le chiavi dello sviluppo di un pezzo di mondo o di un mondo intero, mettendolo alle prese con i tempi lunghi dei cicli naturali e delle fasi storiche (da Civilization a SimCity e Spore). Non è affatto la stessa cosa: cognitivamente ed emotivamente le differenze di game System e di prospettiva narrativa configurano attività e vissuti ludici profondamente diversi, comuni ai vari giochi appartenenti allo stesso genere o peculiari della singola opera.
C’è poi, incorporata nell’offerta di oggi, una pluralità di tempi che resta tante volte del tutto inavvertita. C’è un passato inscritto nei videogame: uno filogeneticamente più antico e uno prossimo. Pensiamo alla questione dell’interattività, della quale tanto si discorre come tratto decisivo della morfologia odierna del videogioco (verissimo) e come carattere chiave della sua originalità specifica (meno vero). Forse può valere la pena di ricordare che l’interazione è da sempre uno dei dati basilari dell’esperienza del giocare umano: come, per la verità, l’impiego di un’utensileria, di una strumentazione tecnica (dalla palla ai tavolieri), di un sistema di regole per produrre eventi, e come, tanto spesso, il coinvolgimento corporeo. Si potrebbe anche indicare in modo nient’affatto arbitrario uno dei motori della molteplicità attuale di generi elettronici nella ripresa di uno ieri ludico «analogico»: flipper e bigliardini, giochi da tavolo di simulazione (bellica e non soltanto), role-playing games. E dire che un passato di carta ha contribuito in maniera importante a modellare il nostro modernissimo universo videoludico. La carta delle mappe e dei fitti libri di regole e scenari che definiscono l’identità dei mondi di finzione verosimile dei giochi di simulazione militare (come quelli prodotti dalle statunitensi Avalon Hill e Spi), la carta dei manuali dei giochi di ruolo come Dungeons & Dragons o The Call of Cthulhu, come la carta dei libri di storia e dei romanzi che hanno costituito il terreno di documentazione, la fonte inventiva, l’enciclopedia di riferimento per game designer e giocatori. Nel caso dei role-playing games si dovrebbe aggiungere la scrittura prodotta dai giocatori per vivere o progettare le avventure strutturate e rese possibili dai sistemi di gioco. («Il mio master in scrittura l’ho fatto dal 2000 al 2007 dentro una comunità virtuale di gioco online», quella di DreamALOT, ha raccontato Michela Murgia).
Ancora. Ben poco percepita (e analizzata) è la molteplicità dei livelli di competenza con cui i videogiochi sono giocati. Tendono a rimuoverla tanto il pregiudizio antitecnologico della passività come dominante della loro fruizione, quanto l’enfasi tecnofila di questi ultimi anni sui nativi digitali. Come se di per sé una certa cornice mediale limiti o garantisca la qualità dell’uso che se ne può fare. Come se l’esperienza dei videogiochi non sia sempre la somma di esperienze di opere singole, spesso fortemente individualizzate (anche dissimili all’interno di un certo filone di genere). Eppure, come segnalava nel 2011 Blake Snow, abbiamo a che fare con a lot of unfinished games. Tanti fra i giovani e giovanissimi «nativi» sono i giocatori che si arrestano a usi elementari, molto basic. Con un eccesso di fiducia verso il learning by doing (o meglio un learning by doing a bassa intensità), sono sovente disposti ad accontentarsi di essere riusciti a far funzionare la macchina del gioco, senza chiedersi se stanno utilizzando solo la prima delle cinque marce possibili. Individuando la gamma dei gradi di competenza effettivamente esercitati, si colgono meglio le potenzialità e i limiti effettivi del medium. Secondo un approccio empirico, esplorativo, non generico, astratto, ideologico.
Lo sfruttamento pieno o parziale delle potenzialità offerte dal sistema di gioco è un tema decisivo per la critica dei prodotti culturali e ancora di più se si vuole ragionare (credo non si possa non farlo) su come i videogame debbano entrare in un percorso di formazione, di educazione mediale; e letteraria. Sarebbe uno degli argomenti chiave di una «competenza digitale» pensata oltre le abilità strumentali tecnologiche. L’unico modo, credo, perché serva davvero.
Infine: quanto contano la narrazione e la letteratura? Un punto nodale degli studi e ragionamenti professionali sul videogioco è il rapporto fra meccanica di gioco e narrazione. Non di rado c’è insofferenza verso le storie (e la scrittura) nei videogame.
Da parte di operatori e accademici che insistono sulla dominante ludica, sulla centralità egemonica del game System. Non poche volte con qualche unilateralità. Sarebbe la meccanica di gioco, non lo sviluppo di una storia, a garantire il divertimento dell’utente, e la spinta verso la linearità propria del racconto sarebbe più che altro avvertita come intralcio. Così accadrebbe, tipicamente, per le cosiddette cutscenes (le sequenze filmiche non interattive che inframmezzano o incorniciano il gioco), sentite come orpello, corpo estraneo di cui sbarazzarsi in fretta.
Gli osservatori «di parte letteraria» invece mal sopportano i vincoli dettati dalle strutture e dall’organizzazione produttiva del videogame e la mediocrità dei risultati narrativi (e ancor più verbali) di tanti titoli. Per questi osservatori partigiani, cioè per noi, la questione nevralgica è accettare, qui, per la forma di discorso che prediligiamo, una subordinazione. Se ci suona meglio, una secondarietà. Convinti però che possa essere molto attiva. Perché forse non tutti si appassionano alle cutscenes, ma tutti hanno bisogno che uno scenario narrativo dia forma estetica alle loro esperienze di gioco (uno scenario d’insieme – di mondo – e uno scenario locale – di episodio, missione, azione). Il racconto, i dialoghi, nel videogame si potrebbe insomma provare a pensarli, senza aure e sussieghi, come un virus, che sappia inoculare nei corpi delle future opere videoludiche dosi sempre un poco più elevate di un sapere fine, intenso e duttile, fatto di storie, parole, prospettive personali, emozioni. Per imparare sempre meglio a raccontare attraverso sistemi di regole che generano eventi, secondo i modi espressivi ibridi e dinamici di quella «retorica procedurale» di cui ha scritto Ian Bogost, per riuscire a dialogare con settori nuovi di pubblico.