Se i video giochi dei primordi si poggiavano su idee elementari, non dissimili da quelle alla base del flipper, le generazioni successive hanno iniziato a sviluppare pulsioni narrative e a elaborare ambienti di gioco sempre più complessi e raffinati, con l’obiettivo di fornire all’utente la sensazione di un controllo illimitato sul mondo virtuale.
La distesa sterminata di zeri e di uni entro cui si compongono i titoli di testa di Matrix dei fratelli Wachowski è una rappresentazione piuttosto precisa della memoria di un calcolatore. Tradurre quella pianura binaria, composta da miliardi di interruttori che possono essere solo accesi (1) o spenti (0), in un videogioco è una faccenda che ha a che fare con la progettazione della UX, cioè con il disegno di metafore e di ambienti.
UX è l’acronimo di User eXperience e si riferisce all’interazione tra gli esseri umani, gli utenti appunto, e i calcolatori. Con questa sigla si indica un campo della progettazione che, a quasi settant’anni dalla nascita dell’Eniac (il primo calcolatore generai purpose) e a oltre venti dalla rivoluzione www, continua a essere una questione estremamente affascinante.
In fondo, un computer è una macchina programmabile in grado di eseguire semplici operazioni logiche e aritmetiche. Queste operazioni – combinate tra loro ed eseguite molto velocemente e in parallelo – producono la deliziosa complessità che ci troviamo tra le mani ogni volta che navighiamo in Rete, vediamo un film in streaming, usiamo una app sullo smartphone o giochiamo un videogioco.
La necessità di agire su informazioni binarie, custodite in memoria ed elaborate attraverso processori sempre più potenti, ha richiesto l’ideazione di metafore che fornissero una rappresentazione di oggetti informatici, altrimenti gestibili da pochi tecnici molto specializzati.
Da quando si è posta con insistenza la questione del design delle interfacce uomo-macchina, la sfida del progettista è stata quella di semplificare il dialogo tra l’utente e il calcolatore, in una catena evolutiva di paradigmi di interazione che mostra più di un anello mancante.
Alla metafora del dialogo tra l’utente e il terminale si è affiancata quella della compilazione di maschere, e, a questa, quella della «manipolazione diretta» di oggetti in uno spazio fisico rappresentato sullo schermo. Agendo direttamente – con il mouse, il game controller o il dito – su questi oggetti, l’utente può spostarli, cancellarli, mandarli in stampa, eseguirli in forma di playlist, affettarli con una lama ninja, muoverli perché segnino un gol straordinario, tirando da centrocampo, in accordo a una combinazione di input.
Parallelamente all’evoluzione dei paradigmi e delle metafore, sono cambiati gli oggetti tangibili dall’utente, i dispositivi per interagire con il calcolatore: i mouse che muovono una freccia sullo schermo diventando una proiezione dello sguardo, e quindi dell’identità, dell’utente; i touch screen che obbligano l’utente a compiere un’azione fino a poco prima sacrilega, appoggiare le mani sullo schermo; i game controller dalla forma sempre più ergonomica che catturano la posizione e i movimenti del corpo del giocatore e li spostano nel videogame…
Il design dei videogiochi ha una storia relativamente breve, ma tanto intensa e articolata da mostrare traiettorie evolutive serratissime. Prima che i giochi trovassero la loro piattaforma prediletta nel calcolatore, il gioco più diffuso nei bar era il flipper: un piano inclinato lungo il quale far rotolare una sfera metallica puntata verso un’uscita. A difesa di quella buca, due pale, comandate da altrettanti bottoni posti all’altezza delle mani del giocatore. Scopo del gioco è mantenere la sfera il più a lungo possibile sul piano. Una conoscenza istintiva della fisica consente al giocatore di colpire con la biglia le parti meccaniche disposte lungo il piano, guadagnando punti e, al raggiungimento di obiettivi dati, nuove sfere, che, nella metafora del gioco, equivalgono a nuove «vite». La disposizione degli ostacoli meccanici, la scelta dei suoni, i disegni sul piano inclinato e sul tabellone rappresentano l’ambiente di gioco. Un ambiente così importante da segnare puntualmente rimmaginario. Guy Peellaert, illustratore e artista belga cui si devono, tra l’altro, i fumetti Les adventures de Jodelle e Pravda, la surviveuse, spiega chiaramente come l’essere ascritto alla pop art sia in realtà una conseguenza diretta del suo amore per i flipper: «La mia fonte di ispirazione erano i flipper prodotti dalla Gottlieb. Alla fine degli anni cinquanta, trascorrevo le mie giornate al Gymnase, che era il luogo di ritrovo scelto dalla malavita di Bruxelles. La musica era favolosa, vero rock americano nei jukebox, e lì c’erano file e file di flipper della Gottlieb, con i loro sontuosi tabelloni. E i disegni, su quei tabelloni, erano così belli da togliermi il fiato».
La preistoria dei videogiochi è fatta di idee semplici e intuitive: Pong, del 1972, è un tennis in cui due semplici linee devono respingere un quadratino che, in assenza di risoluzione adeguata, rappresenta la palla; Gran Trak 10, del 1974, è il primo gioco di corsa e prevede che un’automobilina, guidata dal giocatore, si muova su un circuito, affrontando le curve ed evitando gli ostacoli; Breakout, del 1976, ha come obiettivo la distruzione di un muro di mattoni tramite una palla che il giocatore deve respingere con una piccola barra…
Queste idee elementari poggiano sul medesimo modello di gioco del flipper. Un unico ambiente di gioco in cui bisogna mantenere la palla, o l’automobilina, il più a lungo possibile, accumulando punti e bonus. Perse tre «vite», la partita finisce: game over.
Alla seconda generazione di videogiochi, quella che inizia convenzionalmente nel 1977, con la diffusione dei coin-op nei bar e la commercializzazione delle prime piattaforme di gioco domestiche (il Nintendo Color tv Game 6 e l’Atari 2600), appartengono i primi personaggi riconoscibili: Pac-Man e i suoi spettrali antagonisti, nel 1980; Mario che deve sconfiggere Donkey Kong, nel 1981; e la strana creatura Q*Bert che, saltando, modifica il colore dei cubi di una piramide, nel 1982.
Questi nuovi personaggi, come quelli meno riconoscibili dei molti giochi famosissimi distribuiti nello stesso periodo, si muovono in ambienti dalla struttura semplice. Ogni ambiente rappresenta un livello di gioco e deve essere percorso integralmente per essere superato. Le motivazioni dei personaggi sono elementari, ma, accanto alla necessità di mangiare tutte le sfere presenti in un labirinto o di cambiare uniformemente il colore di tutti i cubi che compongono una piramide, iniziano a prendere forma pulsioni quasi narrative. Mario, per esempio, è mosso da una ricerca: deve salvare la fidanzata Pauline dalle grinfie dello scimmione Donkey Kong, che cerca di fermarlo lanciandogli contro barili e fiamme letali. E non è un caso che, di lì a poco, per gestire quetes di complessità sempre maggiore, al nostro eroe sarà affiancata una compagnia di sodali sempre più composita e articolata.
Il mondo elementare dei videogiochi evolve rapidamente. Le sfide per gli eroi diventano sempre più articolate e il modo più evidente e rappresentativo per mostrare al giocatore l’accresciuta complessità narrativa di storie i cui eroi saltano, sparano, colpiscono e scappano per la maggior parte del tempo è quello di costruire ambienti sempre più complessi e interessanti. Il level design, la progettazione degli ambienti entro cui si svolge il gioco, diventa il vero cuore narrativo dei videogame. E mentre crescono le potenzialità grafiche tanto del software quanto dell’hardware, le case produttrici di videogiochi riservano attenzione sempre maggiore alla progettazione.
Nel marzo del 2013, durante la Game Developers Conference, importantissimo evento dell’industria mondiale del videogame, il progettista Dan Taylor ha enumerato le dieci regole del level design di un gioco. In un intervento intitolato Tutto quello che sai della progettazione degli ambienti di gioco è sbagliato, Taylor ha presentato il suo decalogo, alternando osservazioni quasi banali (un livello deve essere divertente da navigare, sorprendente, efficiente ed emozionante) ad altre meno scontate (non deve basarsi sulle parole per raccontare una storia e deve comprendere tutti i livelli di difficoltà di gioco). Il nocciolo duro del discorso di Taylor, quello su cui concordano tutti i progettisti di videogame, si riferisce al trasferimento di potere al giocatore.
Obiettivo di ogni videogioco è fornire all’utente la sensazione di controllo assoluto. Il giocatore muove il proprio corpo virtuale, spingendolo fino ai limiti imposti dalla fisica progettata per il gioco, in un ambiente spesso ostile. Il suo obiettivo è determinato dal gioco stesso e, per conseguirlo, deve visitare quell’ambiente, attraversarlo con decisione, abitarlo, spesso addirittura modificarlo.
Ed è così che il giocatore, agendo sul sistema di metafore che nasconde la complessità del calcolatore, vive le emozioni narrative del videogioco. Supera i livelli, conquistando forza, potere, conoscenze ed esperienza, visitando un mondo possibile che è stato creato per lui.
In questa geografia coerente con gli obiettivi del gioco, l’utente può scegliere il proprio grado di coinvolgimento. Può essere l’esploratore il quale cartografa un territorio che, in zone sconosciute, nasconde i leoni, o il flaneur che perde tempo cercando di affastellare esperienze, o ancora il colonizzatore, che ambisce a sottomettere un mondo e gli indigeni che lo abitano, oppure, come purtroppo accade più spesso, il turista da viaggio organizzato, alla deriva tra luoghi troppo comuni.
Nell’epoca del mainstream, il videogioco è uno strumento narrativo dalle infinite possibilità e al blockbuster senz’anima si affiancano continuamente gioielli nati da idee non convenzionali che tollerano, anzi fomentano, usi divertiti ed esplorazioni di mondi possibili. In un’epoca in cui la fantascienza ha perso la sua funzione di genere eletto per l’analisi sociale, il videogame sembra essere ancora in grado di ricordarci il famoso adagio di Marge Piercy: «Per conquistare un futuro, bisogna prima sognarlo».