Lo scorso ottobre, mentre a Franco forte l’Aie dichiarava il 2013 annus horribilis quanto allo stato dell’editoria in Italia, Grand Theft Auto V incassava nel suo primo giorno di vendite negli Stati Uniti e in Europa 800 milioni di dollari, entrando difilato nel Guinness dei primati non solo come il videogioco che può vantare le maggiori vendite nell’arco di ventiquattro ore, ma anche, poco più tardi, come il prodotto d’intrattenimento ad aver incassato più velocemente un miliardo di dollari.
Nel settembre 2013, la società di consulenza PwC, nel suo rapporto su intrattenimento e media in Italia (E&M in Italy 2013-2017), evidenziava come «nonostante il difficile clima economico, la spesa totale per media e intrattenimento ha continuato a crescere, in gran parte grazie al consistente aumento della spesa lorda destinata al gioco» (assai più tranchant il titolo dell’articolo di Luca Tremolada con cui «Il Sole 24 Ore» riprendeva la notizia: Giochi, videogiochi e web salvano il mercato di media e entertainment italiano). In particolare, il settore dei videogiochi ha generato lo scorso anno un giro d’affari di quasi un miliardo di euro (959 milioni di euro, per la precisione), con un tasso di crescita annuo stimato fino al 2017 al 5,9%. Ora, sebbene sia chiaro che non avrebbe alcun senso stabilire una relazione diretta fra i due dati, se diamo velocemente uno sguardo ai libri, possiamo accorgerci che nei primi otto mesi del 2013 si registra un peggioramento del 5,4% nei canali trade (dati Nielsen). E poiché, secondo molti e autorevoli pareri, la sfida futura degli editori sarà la competizione non tanto fra case editrici diverse quanto, più in generale, fra i vari soggetti del settore dell’intrattenimento (sempre più legato, peraltro, a quello tecnologico), ci siamo chiesti come si stia trasformando il nostro inestinguibile bisogno di storie, adesso che a fianco della figura del lettore (e dello spettatore) non si può fare a meno di considerare anche quella del giocatore (secondo il «Financial Times» questa è l’«era del gioco di massa»). E soprattutto lo abbiamo chiesto a Niccolò Ammaniti, scrittore, lettore ed ex giocatore, da sempre curioso nello sperimentare forme di narrazione al di là del libro.
Quali erano i tuoi videogame favoriti quando eri un giocatore «forte»?
Vuoi dire quando ero un giocatore compulsivo? Giocavo principalmente a World of Warcraft, un gioco online [si tratta di un Massively Multiplayer Online Game, ossia di una modalità di gioco online capace di supportare anche migliaia di giocatori contemporaneamente], un mondo popolato di elfi, nani, orchi… era un po’ come stare in un libro di Tolkien.
Cosa ti affascinava in questo gioco?
Gli aspetti affascinanti erano molti: prima di tutto, le persone con cui facevi amicizia, perché combattevi con e contro persone vere, e poi era un gioco complesso, in evoluzione. Vivevi un’avventura con altri giocatori, stringevi amicizie forti, altrettanto importanti di quelle che avevi con gente che conoscevi nel mondo reale.
Qualcuno potrebbe pensare che ai videogame si dedichino soprattutto i ragazzini, ma l’età media dei videogiocatori in tutto il mondo è in continuo aumento, vuoi perché invecchia quella che alcuni hanno chiamato la «Nintendo Generation», i nati intorno alla metà degli anni settanta, vuoi perché molti genitori utilizzano i videogame come uno strumento per interagire e trascorrere del tempo con i propri figli.
È capitato anche di incontrarci e conoscerci di persona con alcuni fra quelli con cui giocavo di più, s’era formato come un gruppo. Non erano affatto ragazzini, e spesso m’è capitato anche di giocare con italiani che vivevano e lavoravano all’estero.
Però mi sono poi accorto che, quando smetti di giocare, quei legami a poco a poco si allentano fino a svanire, sono come amicizie centrate su un unico interesse.
Adesso non giochi più?
No, da qualche anno. Il fatto è che, quando ti allontani da quel mondo per un po’, tornarci è complicato – perché nel tempo c’è un’evoluzione dei videogiochi e dunque anche dei videogiocatori (voglio dire, io sono partito con Pac-Man…) – e, se rimani indietro, perdi l’abilità, non riesci più a stare al passo, persino le parti più semplici per te diventano troppo difficili. E poi perdi la velocità… in fondo, è anche un modo per misurare il proprio invecchiamento !
Quali sono le caratteristiche principali della narrazione videoludica e quali le differenze significative rispetto alla narrazione dei romanzi?
Di videogame ce ne sono di tantissimi tipi, perciò in generale è impossibile rispondere alla domanda, ma si può affermare senza dubbio che quello che più si avvicina ai libri, con cui condivide le ambientazioni, è il videogioco di avventura (che richiama, per l’appunto, i romanzi d’avventura).
A ogni modo, non penso che il videogioco sia interessante quanto più somiglia alla letteratura o ai film, ma piuttosto quanto più somiglia alla vita.
In alcuni giochi, come per esempio Resident Evil o The Last ofUs, che ha avuto un grande successo lo scorso anno, a un certo punto la trama scorre come se fosse un film, i personaggi si bloccano e tu puoi agire poco o niente: in quel momento è il gioco che ti determina [si tratta di quelle che gli studiosi di videogame chiamano cut-scenes]. Ecco, secondo me è questo il limite dei videogiochi: sei dentro una sorta di territorio dove devi camminare per una strada già tracciata (per esempio prendi un sentiero nascosto e allora cadi in un burrone e poi devi attraversare un ponte e così via). C’è una strana tensione fra l’abilità che ti richiede il gioco, che è l’abilità di superare degli ostacoli e risolvere dei problemi, e quanto ha già predeterminato lo sviluppatore del gioco stesso, che è come un binario unico, uno scenario che ti viene imposto.
Certo, non è sempre così: ci sono dei giochi, soprattutto online, talmente ampi che hai la possibilità di muoverti su migliaia di binari che s’intersecano, e allora hai l’impressione di camminare su un piano, anziché sopra una retta.
Questo accade, per fare un esempio, in Grand Theft Auto, dove puoi anche compiere azioni inutili rispetto agli obiettivi del gioco in senso stretto. Per dire, ti viene in mente di ammazzare quel gruppo di vecchietti che attraversa la strada? Puoi farlo. Anche solo perché ti va, senza che questo rientri in alcun modo nella tua missione di gioco.
Però rimane sempre una sensazione di libertà relativa.
Quanto è diverso, di conseguenza, scrivere per un videogame o scrivere un romanzo? Tu hai provato entrambe le esperienze, giusto?
In realtà non ho mai scritto per un videogioco. Ho lavorato per una casa di produzione di videogame di San Francisco [Mondo Media], ma era il 2001, il digitale era un ambito piuttosto nuovo, perciò ho lavorato a questa sceneggiatura senza avere un’idea così precisa di dove saremmo andati a finire e infatti Gone Bad, che inizialmente doveva essere un videogame, è diventato un corto digitale.
Posso solo immaginare il tipo di lavoro che sta dietro alla realizzazione di un videogioco, ma tutto sommato mi pare che abbia più a che fare con il mondo del cinema che con quello dei libri.
I videogiochi richiedono attenzione in un ambito che è territorio prediletto della lettura, dove dimora il racconto e si esprime l’immaginazione: quale differenze hai riscontrato fra leggere e giocare?
Per quanto mi riguarda, è molto meglio leggere, è più interessante, presuppone uno spazio in cui il lettore reinterpreta e reinventa le parole scritte.
Il videogame è uno strano ibrido, l’incontro fra un esercizio di abilità e la fruizione di un oggetto visivo e sonoro che ti viene dato.
Il libro invece è questione di immaginazione, ciascuno ha un’idea personale del libro che legge, ciascuno se ne fa un’idea e un’interpretazione proprie.
Gli appassionati di videogame, però, sostengono esattamente l’opposto…
Mah, per come la vedo io, nei videogame in fondo fai sempre lo stesso gioco.
Anni fa, i libri hanno provato ad avvicinarsi alla struttura per «cicli sovrapposti di scelte e conseguenze» di moltissimi videogiochi con i libri-game, che però non hanno riscosso grande successo. Perché secondo te?
A ben vedere, lì tutto si riduceva a scegliere fra un finale A e un finale B, o poco più di questo, ma in fondo avvertivi una sensazione di disagio perché non potevi rintracciare nessun senso, sotto non sentivi alcuna necessità di costruire qualcosa… quei libri difficilmente ti emozionano.
Un videogame, al contrario, ti può emozionare: per esempio, se giochi online puoi interagire con persone reali, avere uno scambio con chi magari sta giocando all’altro capo del pianeta e ha una vita diversissima dalla tua; oppure mi emozionava quando mi capitava di andare in aiuto di mia sorella, del suo personaggio intendo. Tutto ciò che mi ha più emozionato giocando con i videogame, insomma, ha a che fare principalmente con l’interazione con i giocatori. .. la cosa più interessante per me restano le reazioni umane. Se incontri un personaggio grande e grosso che ti pesta gratuitamente e tu gliene chiedi il motivo e scopri che gli andava semplicemente di picchiarti, così, per il gusto di farlo, allora quella è una forma di violenza gratuita che ti richiama alla vita, a quanto succede nella vita.
E tuttavia un videogame non ti trasmette quelle sensazioni primarie che riesce a trasmetterti, con il senso di solitudine della lettura, il libro.
Dunque nei videogame la parte più interessante secondo te è la narrazione intesa come interazione… Credi che nei videogiochi esista un rapporto inversamente proporzionale fra una ricca sceneggiatura e l’interattività? Voglio dire, ritieni che più il videogame si fa immersivo ed emotivamente coinvolgente e più la necessità di dover agire diventa un ostacolo, un impiccio all’esperienza emotiva e conoscitiva?
Mi ricordo di un videogame, uno dei più riusciti, che viene unanimemente riconosciuto come un capolavoro del genere: Ico [videogame d’avventura dinamica in 3D]. Non richiedeva abilità particolarmente affinate e questo ti permetteva di vivere dentro il gioco con molta più libertà, potevi soffermarti a guardare i paesaggi, per dirne una.
Fra i teorici del settore, in effetti, sono in molti a sostenere che nei videogame più della storia importi il sentimento di essere in un certo luogo, «the feeling of being somewhere».
In effetti un altro aspetto emozionante dei videogame ben progettati e disegnati è l’ambientazione: continuo a ricordarmi di posti digitali che esistono nella mia mente proprio a fianco alla memoria di paesaggi reali. Ricordo per esempio quando andavo sul bordo di quel tale laghetto ad ammazzare i pesci e lì incontravo altri personaggi. Era un luogo bellissimo, e me ne ricordo come ricorderei un’esperienza fatta realmente. In quel caso l’immedesimazione è totale. Ma normalmente un videogame quest’effetto non lo produce.
Dunque sembra si debba ancora trovare un equilibrio fra la necessità di dover agire all’interno del gioco e la complessità/libertà della storia…
C’è un grande limite di cui mi sono reso conto giocando, cioè il fatto che nei videogiochi finora in circolazione non esista né un oggi né un domani. Se per esempio radi al suolo un castello, il giorno dopo o anche soltanto dopo due minuti quel castello rispunta come se niente fosse, e sarà sempre uguale, sempre con la stessa pianta esagonale, per dire. Nella vita non è così.
Secondo me chi realizza videogame troverà questo equilibrio solo quando riuscirà a fare in modo che il videogiocatore possa trasformare completamente il mondo digitale intorno a sé. In sostanza, quando riuscirà a inserire il tempo all’interno della dimensione del gioco: quando il personaggio non potrà morire con la facilità con cui muore adesso, quando le azioni del protagonista avranno una ricaduta su di lui e sul mondo circostante (quando anziché distruggere un castello che poi il giorno dopo rispunta tale quale, quel castello diroccato potrò costruirlo, sistemarlo, cambiarlo come piace a me, e così poi resterà in futuro), e viceversa quando le cose che accadono in quel mondo avranno un effetto duraturo su di te, come personaggio protagonista del gioco.
Se dovessi scegliere un tuo romanzo o racconto per trarne un videogame, quale sceglieresti?
Sicuramente Branchie.
Hai risposto senza esitazione. Perché Branchie?
Riducendo ai minimi termini la struttura di un videogame si può dire che il risultato è una storia a senso unico, in cui un personaggio deve attraversare una serie di luoghi e, se all’inizio sembra impossibile, poi impara che ci sono dei posti nascosti o degli oggetti che possono aiutarlo.
In Branchie è un po’ così: il protagonista è in difficoltà, si ritrova in India, incontra vari personaggi, viene rapito, finisce in un castello e deve ammazzare i cattivi.
Ora che ci penso, in quel periodo giocavo molto e questo ha senza dubbio influenzato la scrittura del libro: il protagonista per esempio, proprio come i personaggi nei videogiochi, a un certo punto trova per terra una cassetta di primo soccorso per curarsi.
E se dovessi scrivere un libro ispirandoti a un videogame?
In realtà, non è un’operazione che m’interessa particolarmente, ma diciamo che, se proprio dovessi, sceglierei Silent Hill [un survival horror]. Lo sceglierei per l’atmosfera di quella storia [un padre cerca di ritrovare la figlia per le strade della spettrale città di Silent Hill, abitata da creature mostruose]. Sì, credo che per trasformare un videogame in un romanzo la cosa principale sia l’atmosfera che riesce a evocare e con cui ti colpisce.
So che adesso stai scrivendo per un progetto di serie televisiva. Cosa ti spinge a sperimentare forme di narrazione diverse dal romanzo o dal racconto?
Film ne ho scritti parecchi, basati sui miei romanzi, ma si tratta pur sempre di un’opera di adattamento, non è un lavoro particolarmente creativo… certo, durante la lavorazione emergono delle novità, ma sono diventato piuttosto insofferente a questo tipo di scrittura, in fondo si tratta soprattutto di comprimere o espandere qualcosa che è già definito.
Le fiction tv, invece, grazie ai tempi più lunghi in cui si dipanano, ti concedono una maggiore libertà nella narrazione, la storia non si articola in maniera troppo progressiva e questo ti permette di soffermarti anche sulle storie e sui personaggi secondari. Assomiglia di più a quanto succede in letteratura.