Bibliotecari trattati come pericolosi sovversivi e la Biblioteca Nazionale di Roma trasformata da luogo pubblico di incontro a cittadella proibita, un governo che celebra la centralità della cultura come volano per lo sviluppo ma sottrae a comuni e province le competenze sui servizi culturali, asini che vagano per la pianura padana alla ricerca di lettori e bibliotecari che si rintanano nella loro fortezza in attesa di lettori: benvenuti a crazy Italy, il paese in cui le biblioteche più belle non vogliono più chiamarsi con il loro nome.
«Carta batte forbice», e arriva la polizia
Che le biblioteche siano male in arnese è noto da tempo, ma non era mai successo che fossero considerate una minaccia per l’ordine costituito… non prima dell’11 ottobre 2011 almeno, quando a Roma un’assemblea indetta presso la Biblioteca Nazionale Centrale da varie componenti del mondo della cultura è stata impedita dalla polizia schierata in tenuta antisommossa. Alla stregua di pericolosi sovversivi, a bibliotecari, attori, scrittori, stimati accademici e semplici cittadini, è stata negata con la forza la possibilità di discutere della crisi e del futuro delle biblioteche italiane.
Il fatto, mai completamente chiarito nei presupposti e nelle motivazioni, non ha precedenti nella storia repubblicana e induce a qualche considerazione. Le biblioteche, prima ancora che luoghi deputati allo studio e alla ricerca, dovrebbero essere spazi aperti alla libera espressione delle idee e alla costruzione di una coscienza civica fondata sulla centralità della cultura e dell’istruzione. L’episodio romano ci ricorda invece che basta poco per trasformare un luogo di cultura in uno spazio inaccessibile e ostile. Strano paese quello che preferisce difendere le biblioteche con le camionette invece di metterle in condizione di svolgere i loro compiti dotandole di risorse e personale, e che pretende di difenderle non dai detrattori ma da chi quei libri li cataloga, li scrive, li pubblica, li divulga, li studia, ne fa una professione (tra mille difficoltà quotidiane) o, più semplicemente, li legge. Per paradosso l’assemblea di Carta batte forbice si è tenuta lo stesso ma fuori dalla biblioteca, con i relatori costretti a declamare per strada col megafono e circondati dai poliziotti. Un’immagine icastica di come in Italia il sostegno alla cultura sia diventato una lotta senza risorse e senza quartiere.
Per reazione, oltre alle interrogazioni parlamentari di rito e a una scia di interesse mediatico presto sopita, l’Associazione italiana biblioteche ha promosso l’appello «La notte delle biblioteche», per stimolare una riflessione civile e costruttiva sugli effetti della crisi che colpisce le biblioteche e per chiedere un’inversione di rotta che faccia affluire maggiore attenzione e maggiori risorse, prima che sia troppo tardi. Nel testo dell’appello si legge che in Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Spagna le biblioteche sono considerate servizi indispensabili, da promuovere perché grazie a esse è possibile costruire una coscienza civica fondata sulla centralità della cultura e dell’istruzione, mentre in Italia moltissime biblioteche (statali, di ente locale, universitarie, scolastiche, di istituti culturali) subiscono pesanti tagli ai bilanci e al personale, blocchi all’aggiornamento delle raccolte e riduzioni dell’orario di apertura. Per molte di esse la linea che segna l’impossibilità di svolgere le funzioni più elementari è sempre più vicina, con buona pace del diritto dei cittadini alla cultura, all’istruzione, alla conoscenza. E con buona pace di tutti, perché il governo predica bene – la cultura è il volano per lo sviluppo, è elemento centrale per la crescita del paese – ma razzola male, eliminando i servizi culturali dalle funzioni fondamentali dei comuni e dalle funzioni proprie delle province, come si evince dal D.L. 95/2012. Per questo si merita un bel 10 e lode in retorica ma 4 in condotta. Resta un dubbio: chi finanzierà i servizi culturali nell’epoca della spending review.
La palingenesi dei bibliotecari come conversazione
David Lankes insegna biblioteconomia all’Università di Syracuse, nello Stato di New York, un ateneo non esattamente in cima alle classifiche americane. La sua visione della biblioteconomia, però, da qualche anno fa il giro del mondo e anima le discussioni degli addetti ai lavori, suscitando non di rado entusiasmo e speranza in una categoria di professionisti della mediazione informativa – i bibliotecari – che guardano al futuro con motivata apprensione. Lankes si è guadagnato la fama di guru grazie a due lavori – il saggio Participatory Networks: the Library as Conversation (2007) e il più recente e fortunatissimo Atlas of New Librarianship (2011) – nei quali è illustrato il suo pensiero a proposito del futuro di biblioteche e bibliotecari. La questione non è banale: cosa resterà nell’era digitale di un lavoro che ha costruito una relazione secolare con una tecnologia destinata all’obsolescenza – il libro di carta – sviluppando attorno a essa edifici, tecniche e strumenti di lavoro? E le risposte sono ancora più decisive, se si vuole invertire il trend che vede le assunzioni di bibliotecari in picchiata un po’ dappertutto, e massimamente in Italia. Gli organici delle biblioteche italiane, infatti, stanno subendo un dimagrimento forzato per via della stretta alle assunzioni nel settore pubblico e degli imminenti pensionamenti: nel comparto delle biblioteche statali, per esempio, dove l’età media degli addetti si aggira attorno ai cinquantacinque anni, fra poco non resterà più nessuno visto che la maggior parte dei dipendenti è entrata nei ruoli nel lontano 1982, data dell’ultimo concorso.
Il tema rimanda a quello più generale del finanziamento pubblico alla cultura: perché lo Stato e gli altri enti pubblici dovrebbero continuare a scommettere su un istituto che pare abbia ormai fatto il suo tempo, soppiantato da altre modalità di trasmissione della conoscenza? La tesi di David Lankes è semplice e provocatoria: se ci troviamo di fronte a questo dilemma, se così tante persone mettono in dubbio il bisogno di biblioteche, la colpa è in buona parte dei bibliotecari. E le ragioni sono il frutto di due fenomeni opposti, un grande fallimento e un grande successo.
Il fallimento della biblioteconomia si manifesta nell’identificazione della disciplina con le sue funzioni: si è bibliotecari perché si cataloga, si raccolgono e conservano libri, si fanno ricerche nei database e tutto ciò che non rientra nei canoni dell’ortodossia biblioteconomica è considerato estraneo o, peggio, minaccioso: Google diviene quindi un competitor, non qualcuno con cui collaborare, Amazon un pericolo, non un interlocutore con il quale far valere i valori della biblioteconomia. Se i bibliotecari resteranno fermi sulle funzioni che hanno determinato la loro storia millenaria e il loro ruolo nel passato, non potranno sperare, secondo Lankes, di essere considerati interlocutori interessanti.
Il grande successo è invece la cultura partecipativa che caratterizza l’epoca in cui viviamo. Le persone che si sono abituate a essere cittadini consapevoli e attivi oggi vogliono dire la loro sul modo in cui i bibliotecari gestiscono i loro servizi. E un fenomeno che negli Stati Uniti e in Scandinavia inizia ad avere tratti molto marcati, che stanno conducendo a un ripensamento delle biblioteche, della loro organizzazione e persino della loro forma fisica. I bibliotecari hanno lavorato per questo, sostiene Lankes, e ora si meravigliano se quella stessa cultura chiede di dare un contributo alla definizione del loro lavoro, quasi fosse un’interferenza.
Quindi le biblioteche come istituzioni dedicate alle collezioni fisiche, alla catalogazione descrittiva, alla conservazione, hanno i giorni contati e la via che conduce a un diverso futuro richiede un cambio di paradigma. «Il domani è nelle vostre mani, guys» sembra dire il faccione sorridente di David, mostrando in questo l’impronta culturale tipica dell’americano self-made man. Il potere della biblioteca non sta nell’architettura o nelle collezioni ma nella capacità dei bibliotecari di individuare i problemi della comunità e cercare attivamente un modo per risolverli, senza aspettare che qualcuno venga a chiedere il loro aiuto. L’ideologia partecipativa deve diventare parte essenziale dell’atteggiamento del bibliotecario, che da neutrale fornitore di informazione si trasforma in interprete dei bisogni emergenti e agente del cambiamento sociale.
La diatriba è antica e vede su opposti fronti quanti considerano il mestiere del bibliotecario come attività di natura prevalentemente tecnica che si esprime nella dedizione alle norme codificate e applicate dalla professione, e coloro che collocano il cuore della loro attività nell’interazione con il pubblico, nel saper attribuire valore alle collaborazioni e alle alleanze. Chierici contro Laici, insomma. Lankes parteggia apertamente per i secondi e ha sviluppato una «nuova» biblioteconomia basata sull’apprendimento e la conversazione, ben illustrata durante le sue ultime due apparizioni italiane (a Firenze e a Milano in videoconferenza). Il concetto è molto semplice: gli «utenti» sono parte della biblioteca, ne rappresentano il nucleo, mentre i libri, le risorse elettroniche, i fondi antichi e rari sono lì per ispirare, educare e provocare conversazioni e apprendimento, altrimenti non servono a nulla.
«Books are for use» scriveva il maestro indiano Ranganathan nel 1931; ma l’uso, chiosa Lankes, deve aiutare le comunità ad apprendere per compiere scelte migliori. La missione dei bibliotecari consiste nel migliorare la società facilitando la creazione di conoscenza comunitaria.
La visione di Lankes pone il bibliotecario decisamente al centro della scena: non semplice custode dei ramponi e delle funi che servono per affrontare una scalata, ma guida alpina che accompagna persone nell’arrampicata, indicando i sentieri più agevoli e i percorsi alla portata di ciascuno per educare al gusto di salire fino in cima alla montagna: «se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito» scriveva Antoine de Saint-Exupéry in un noto aforisma. E il mare vasto di David Lankes non sono le collezioni bibliotecarie o gli edifici che le contengono ma i bibliotecari capaci di connettersi alle loro comunità e di organizzare i loro servizi secondo le norme e i bisogni di queste ultime. Il bibliotecario del XXI secolo sarà dunque un facilitatore e un militante: «un esperto mediatore che aiuta studenti, professori, uomini d’affari e politici a compiere decisioni migliori, un combattente in nome di una civiltà istruita e informata come componente necessaria della democrazia». Cedere spazio alla comunità, quello spazio che le tecnologie digitali rendono sempre meno indispensabile, abbattere barriere regolamentari e burocratiche per entrare in contatto con il pubblico, non aspettare che il mondo entri in biblioteca ma andargli incontro, essere là dove c’è bisogno di competenze informative con gli strumenti più adatti: ecco la via per garantire un luminoso futuro ai bibliotecari, «un futuro in cui i bibliotecari possono aiutare il mondo a lenire i suoi mali, non semplicemente intrattenerlo. Dove i bibliotecari non documentano le loro comunità, ma le trasformano». Yes, we can, sembra dire il nostro guru-cowboy, ma solo a patto di dimostrare che il vostro lavoro ha un impatto positivo sull’ambiente sociale circostante.
Biblioteca, caro nome
La ricerca di risposte alla crisi di identità delle biblioteche si rivolge sempre più a esplorare nuove possibilità di integrazione fra i servizi «tradizionali» (lettura, consultazione, reference), altri servizi culturali (musei, archivi, ludoteche), opportunità offerte dalle tecnologie (Internet, banche dati, e-book), approccio alle tematiche sociali (integrazione, multicultura, lotta all’esclusione), attivazione di capacità individuali (literacy, alfabetizzazione tecnologica e alla ricerca informativa) e spazio pubblico di cittadinanza attiva che promuove la socializzazione attraverso attività di varia natura (corsi, gruppi di lettura) e spazio virtuale di partecipazione (attraverso i social network).
Meno collezioni e più servizi, ecco il Leitmotiv di una ricerca che si alimenta di discussioni fra gli addetti ai lavori ma che, per essere efficace, deve trovare ben altri ambiti di narrazione pubblica. In Italia l’orizzonte semantico del sostantivo «biblioteca» è molto ampio e nell’accezione prevalente si richiama alla forma della biblioteca di studio e alta cultura, a quel «museo bibliografico» che ben si attaglia agli istituti dediti alla conservazione mentre risulta del tutto obsoleto nel caso delle biblioteche di base – comunali e di quartiere – dove il pubblico di riferimento è, almeno in linea potenziale, tutta la platea degli aventi diritto. Soccorre, in quest’opera necessaria di divulgazione, la collana «Conoscere la biblioteca» pubblicata da oltre un anno dall’Editrice Bibliografica, prima in Italia a mettere al centro di un progetto editoriale la volontà di spiegare e raccontare le declinazioni contemporanee del tema.
Per fortuna, oltre alle discussioni, c’è ancora qualcuno che, incurante delle difficoltà e delle ristrettezze, getta il cuore oltre l’ostacolo scommettendo sulla possibilità di mobilitare la comunità locale attorno al progetto di una nuova biblioteca. Il 17 settembre 2011 ha aperto la nuova sede dei servizi culturali di Cavriago, un comune di circa diecimila abitanti alle porte di Reggio Emilia. Un progetto nato dalla necessità di dare uno sviluppo agli spazi ormai saturi della vecchia biblioteca; un’occasione per ripensare l’esistente alla luce delle più avanzate esperienze e riflessioni italiane e straniere, per ridefinire i confini del servizio bibliotecario per renderlo più vicino alle esigenze della comunità e guadagnare nuova utenza. Il risultato di questo lavoro è il Multiplo, 2.800 metri quadrati immersi nel verde e affidati alle cure di uno staff di quindici operatori competenti e motivati, in cui si integrano vari servizi culturali (ludoteca, scuola di musica, biblioteca, spazio corsi per il tempo libero), una collezione libraria e multimediale organizzata secondo criteri tematici, giochi in scatola, videogame e opere d’arte disponibili al prestito. Un investimento sostenuto attivamente da venticinque aziende locali e da oltre novanta volontari. A un anno dall’apertura gli indicatori del servizio sono in crescita esponenziale e il Multiplo ha triplicato i nuovi iscritti.
A Meda, in Brianza, il primo aprile 2012 è stata inaugurata la MedaTeca, una nuova biblioteca caratterizzata da un’architettura di qualità e da soluzioni tecnologiche e impiantistiche di alto livello, realizzata a costi decisamente contenuti (1.040 euro/mq IVA compresa). Un successo documentato dall’incremento dei prestiti (+50%) e degli iscritti (+30%) in una regione dove gli standard sono già sensibilmente alti. Un progetto dove architettura dell’edificio e del servizio sono due facce della stessa medaglia, orientate a fare della biblioteca un luogo polivalente, molteplice, integrato e flessibile, ma dotato di fisionomia riconoscibile e addirittura di una propria identità visiva, progettato con l’ambizione di intercettare l’interesse di quella maggioranza silenziosa di cittadini che non va oltre la lettura di un libro all’anno.
A Cinisello Balsamo, alle porte di Milano, è attivo dal 21 settembre 2012 «Il Pertini», nuovo centro culturale di 5.400 metri quadrati, 78mila libri, dvd, riviste, quotidiani, e-book e contenuti digitali, 450 posti a sedere più un auditorium e 3 cyclette per fare sport leggendo. Uno sforzo imponente che richiede il lavoro di venticinque bibliotecari per sessantatré ore settimanali di apertura, domenica compresa. Uno spazio di scoperta, non un deposito di libri; una risorsa a disposizione della comunità, aperta, accogliente, concepita perché domanda e offerta di cultura possano incontrarsi.
Tre progetti di successo in cui il concetto di biblioteca evolve per rispondere alle trasformazioni sociali e all’emergere di nuovi bisogni, assumendo con diversi accenti il punto di vista del cittadino non come utilizzatore ma come partner. Tre realizzazioni che problematizzano il tema della biblioteca pubblica, innestando una riflessione che conduce «oltre» la biblioteca tradizionale per approdare a un nuovo assetto integrato di servizi culturali. In questo processo evolutivo il lupo (la biblioteca) non perde il vizio (la matrice fortemente incardinata nella dimensione testuale, informativa e interpersonale) ma si spoglia della pelliccia (il nome): i tre centri culturali, infatti, rinunciano a chiamarsi «biblioteca» per evidenziare il valore aggiunto e per cercare nuovo valore percepito, o forse per scrollarsi di dosso la polvere che il sostantivo si porta dietro. Niente di nuovo, è già accaduto negli anni novanta in Francia con la médiathèque e più di recente a Londra con gli Idea Store. Le cose devono essere chiamate con il loro nome perché nomina sunt omina. Però, pensando al recente BiblioPride, la circostanza non è esattamente uno sfoggio d’orgoglio bibliotecario.
Asini si nasce, bibliotecari si diventa
Luis Soriano, maestro elementare colombiano, da anni porta libri nei piccoli villaggi delle campagne che affacciano sulla costa colombiana. Lo fa con due asinelli, Alfa e Beto, diffondendo la lettura con la convinzione che sia un buon medicinale per guarire dalle ferite di una società violenta. Il «Biblioburro», partito con settanta libri alla fine degli anni novanta e cresciuto fino a circa cinquemila volumi grazie alle donazioni, ha ora un emulo anche in Italia: si chiama «Biblioasino» e solca le campagne attorno a Milano portando libri e allegria ai bambini della zona. Il progetto è dell’associazione «Asini si nasce… e io lo nakkui», può contare sulla passione e sulla competenza di Lucia Pignatelli, bibliotecaria e asiniera, e su Serafino, l’asino. E un esempio di come si possa promuovere e valorizzare i libri e il piacere di leggere ma anche la figura di questo animale estremamente intelligente e curioso, esattamente come i bambini a cui si rivolge. Serafino e Lucia arrivano nei cortili delle scuole, nelle piazze ma anche nelle comunità terapeutiche, nei paesi o frazioni privi di biblioteche, in cascine, aziende agrituristiche, parchi, boschi… e prestano libri a chiunque, purché in possesso della tessera della biblioteca.
L’idea di affidare all’asino – un animale protagonista di molte storie – il compito di portare in giro libri vuole essere anche un modo per riscoprire il piacere della lentezza, è un invito a rallentare e a liberare un po’ di tempo dal logorio della vita moderna, come recitava un noto spot del passato.
Anche il Biblioasino è un esempio di biblioteca che esce dalle sue mura per incontrare coloro che non la frequentano abitualmente. A David Lankes piacerebbe sicuramente.