Se un autore italiano, oggi, vuole vendere, e bene, il suo libro, deve andare in tv da Fabio Fazio. E solo per lui che gli uffici stampa delle case editrici vanno in fermento: la carta stampata ormai muove poche copie. Ma anche in tv è solo Che tempo che fa a far impennare davvero le royalties degli autori nostrani. Merito del suo conduttore, che più di ogni altro è stato in grado di coniugare l’alto e il basso, e facendo leva sui sentimenti basilari di un pubblico che ha saputo modellare a propria immagine e somiglianza.
L’ufficio stampa freme, il direttore editoriale si prepara a ordinare la prima corposa ristampa, la soddisfazione è palpabile: stasera lo scrittore appena approdato in libreria andrà in televisione, ospite di Fabio Fazio. Da domani il suo libro sarà illuminato dal sole più fulgido.
Si rincorrono le leggende editoriali sui numeri che lievitano dopo un’apparizione a Che tempo che fa, la domenica e il lunedì sera su Rai3, canale dove per tradizione affluisce una fascia di ascoltatori più incline alla lettura: si dice che ogni presenza in trasmissione garantisca da un minimo di 25mila copie in su.
Non per tutti gli autori, naturalmente: anche la loro pregressa popolarità incide sulla potenza accelerativa del volano-Fazio.
Per fare un esempio, è inevitabile che, fra l’autunno e l’inverno 2011-2012, La casa sotto i portici di Carlo Verdone, pubblicata da Bompiani, abbia visto impennarsi le vendite, dopo il racconto televisivo delle sue memorie – abitate da non pochi miti popolari, quali sono stati Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Sergio Leone -, mentre non è successa la stessa cosa a Le cose che ho imparato (Mondadori) di Gianni Riotta, anch’egli narratore di infanzia e gioventù fra un’arcaica Sicilia e una modernissima Silicon Valley. Ma meno noto al grande pubblico.
Fatto sta che il pigia-pigia degli uffici stampa intorno alla redazione di Che tempo che fa è massiccio quanto, talvolta, inutile: gli ospiti e i libri li decidono Fazio e i suoi autori. Ben attenti a invitare personalità dai profili mai troppo estremi, troppo eccentrici, troppo sconosciuti, troppo giovani – meglio se indiscutibili «grandi vecchi» della cultura -, coerenti con «l’anima» del conduttore. Nella Weltanschauung di Fazio si intrecciano con accortezza il politicamente corretto, lo sdoganamento delle emozioni, una certa mitologia pop – sentimentale e casereccia, persino ironicamente cheap, postmoderna, da Claudio Baglioni ai Cugini di Campagna – e qualche oculata incursione nell’«alto» culturale, come confermano le presenze in trasmissione, ricorrenti ma non troppo, di Roberto Calasso e Alberto Arbasino, per esempio. Fatto salvo che Fazio è più incline a ospitare il più redditizio eloquio giullaresco di Benigni o quello più tetragono di Roberto Saviano.
Ormai Fabio Fazio, infatti, è l’incarnazione televisiva del nazional-popolare contemporaneo, sia detto nell’accezione migliore del termine, senza tuttavia scomodare Gramsci ma piuttosto Pippo Baudo, da Fazio soppiantato. Tanto è vero che sarà quest’ultimo a presentare il Festival di Sanremo, il prossimo febbraio.
Pippo resta caro ai nonni, anche per motivi anagrafici, mentre Fazio è vicino al pubblico più «attivo», alla banda larga dei suoi coetanei quaranta-cinquantenni. Mediamente colti, mediamente politicizzati, mediamente lettori della «Repubblica». Mediamente tanti. Quello è il pubblico che lui intercetta.
È stato abile perché anno per anno, tassello su tassello, da ottimo professionista della comunicazione, il suo pubblico l’ha assemblato e persino strutturato. Ora quei lettori gli riconoscono credibilità, seguendolo con soddisfacente fedeltà e comprando i libri che lui suggerisce di leggere.
È lui uno dei più forti opinion makers culturali, nonché il benefattore di autori, editori e librai, in un mercato che boccheggia. In questo momento è davvero il più forte. I numeri continuano da tempo a dargli ragione.
La sua ormai consolidata posizione ha tratto vantaggio, tuttavia, da un fenomeno relativamente recente: l’oggettivo indebolimento di ruolo della critica letteraria e delle pagine culturali dei giornali tradizionalmente delegate a ospitarla (resiste Antonio D’Orrico, recensore di battaglia su «Sette» e sul «Corriere della Sera», ma sulle sue iniziative torneremo a breve): una falla che da tempo si è aperta fra critica e pubblico. A favore della televisione, medium più potente e più generalista.
Più di una ventina di anni fa aveva cominciato Maurizio Costanzo che per primo aveva beneficiato le patrie scritture, e le librerie, purché l’autore fosse anche un po’ personaggio. Meglio se comico. O se scriveva delle proprie sventurate vicende. L’autobiografia muove sempre emozioni e identificazioni catartiche nello spettatore medio, ma anche su questo torneremo a stretto giro di righe, oltre che su Fazio e D’Orrico. Per anni i librai hanno rinforzato le pile dei libri l’indomani delle presentazioni allo show di Costanzo che, tuttavia, lentamente ha preso una deriva un po’ circense. Negli anni i suoi personaggi erano diventati maschere.
Poi, si era visto il buon esperimento televisivo di Alessandro Baricco, meno concentrato sull’attualità: Pickwick, del leggere e dello scrivere, spostato in breve dall’eclettico scrittore torinese sul melodramma, la nostra vera, alta tradizione letteraria nazional-popolare: L’amore è un dardo. Erano seguiti altri buoni tentativi di coniugare il mezzo catodico ai libri – quali A tutto volume, condotto da Alessandra Casella, per esempio -, ma in breve la logica dell’audience aveva vinto penalizzando il connubio. Gli spettatori erano pochi, come i lettori del resto.
A oggi resiste – con qualche consistenza – la benemerita Per un pugno di libri, riservata ai ragazzi delle scuole superiori, scritta fra gli altri da Piero Dorfles. Ma lì si leggono i classici di una buona formazione, non le ultime uscite in libreria Intorno alla boa del secolo la lotta fra giornali e televisioni era tornata a segnare un punto a favore dei giornali, con il profilarsi di opinion makers la cui tribuna era cartacea. Era in tale diatriba che si era incuneato il fenomeno D’Orrico, che su «Sette» segnalava piuttosto di frequente, forse per amor di provocazione, tanti e tanti scrittori lanciati come i migliori del secolo.
A lui, per breve tempo, si affiancò un altro eccentrico slalomista delle opinioni forti, Giuliano Ferrara: dalle pagine del suo barneyano e frondista «Foglio» lanciava, per esempio, Mordechai Richler e Pietrangelo Buttafuoco, due campioni del politicamente «scorretto»; ma nel volgere di poche stagioni era tornato alla più focosa diatriba politica.
Intanto, da mezzofondista che macina i chilometri a testa bassa, Fazio assommava crediti culturali più continuativi con un pubblico – di ascoltatori e di lettori – che, a un certo punto, ha trovato in Roberto Saviano il suo evangelista.
Il capolavoro mediatico e promozionale di Fazio, comunque, l’abbiamo visto nel 2012. Si chiama Massimo Gramellini, giornalista, scrittore, editorialista della «Stampa» e opinionista proprio di Che tempo che fa – ogni settimana presente in tivù, volto assai noto, quindi -, in libreria da marzo e in classifica nelle zone alte e altissime della medesima per tutta l’estate e ancora nell’autunno: il best seller italiano dell’anno, un’autobiografia che ormai non è lontana dal milione di copie.
Fai bei sogni è il racconto di un bimbo orfano – Gramellini medesimo – che solo da adulto ha la forza di dirsi un’insopportabile verità sulla morte della madre: il suicidio della donna mentre un cancro la consumava. Temi di estremo impatto emotivo.
Premesso che il libro ha una discreta tenuta stilistica, almeno fino a metà – fino a quando si racconta la solitudine e lo sguardo attonito, più che disperato, di quel bambino – e che Gramellini è scrittore molto consapevole di quanto il patetico rischiasse di rendere troppo caramellosa la sua storia – per questo ha scelto con intelligenza narrativa ed emotiva un registro in levare, attento a fermarsi sulla soglia del larmoyant -, va segnalato che la puntata primaverile di presentazione del libro non poteva essere più produttiva.
In un mirabile cortocircuito di verità e finzione si sono visti l’emozione e l’utilizzo di un’accorta tecnica narrativa, il pianto non del tutto trattenuto dell’autore, per una ferita forse irrisarcibile, e l’omissione del finale della storia. Autenticità e artificio. Per circa mezz’ora, un tempo di dimensioni mitiche in televisione.
Per inciso, e per amor di disincanto, segnaliamo che l’anno appena archiviato ha sdoganato le lacrime come registro espressivo, utilizzato perfino da un ministro nell’esercizio delle sue funzioni. E molte discussioni sull’opportunità del disvelarsi pubblico di emozioni destinate, per convenzione sociale, a restare inespresse.
Ma non dimentichiamo che l’immenso Charles Dickens all’allievo di scrittura Wilkie Collins raccomandava di andare a intercettare quelli che sono i due istinti primari di ogni lettore: «Falli ridere, falli piangere» lo incoraggiava, lui gran maestro di scrittura.
Torniamo, però, a Gramellini e ai suoi lettori, passati al moltiplicatore dal giorno successivo a Che tempo che fa, pronti a identificarsi con le emozioni sommesse del libro e con quelle più esplicite e amplificate dal mezzo televisivo. Torniamo al trionfo del potere «culturale» di Fazio che fra un Saviano e un Gramellini copre l’intero arco dell’emotività del suo pubblico, compresa quella politica.
Questa strutturazione a largo raggio, la sua longa manus, dev’essere stata ritenuta eccessivamente espansiva da Antonio D’Orrico il giorno di primavera in cui ha letto sulla fascetta di un libro di Andrea Vitali, uno dei suoi «migliori scrittori», una frase non esattamente incisiva di Fazio.
Da quel momento, invitando all’iscrizione i tanti lettori della sua rubrica, ha fondato il movimento antifazista, contrario soprattutto all’ovvio, alla tautologia, alla banalità di cui il presentatore-opinionista sarebbe responsabile.
Scontri fra media diversi o fra giornalisti «buoni» e «cattivi»? Ennesima versione della scontro fra Davide e Golia?