Il graphic novel di non fiction si è ritagliato uno spazio sempre più importante nel mercato editoriale, raggiungendo persino le piattaforme digitali. Biografie, cronache, resoconti di viaggio, testi divulgativi: le tematiche affrontate sono varie, prevalentemente correlate a fatti storico-politici del proprio paese – la tragedia dell’11 settembre negli USA, il sequestro Moro in Italia – o a battaglie di impegno civile. Perlopiù i racconti «documentari» che si servono delle animazioni si sviluppano in terza persona con un registro impersonale, e se l’autore inserisce se stesso nella narrazione è per meglio rispondere a una funzione di accompagnamento didattico del lettore davanti alla complessità dei diversi punti di vista.
Che fumetto e cinema presentino evidenti contiguità non è certo una rivelazione. Ma diventa più interessante osservare come entrambi i media manifestino distintamente, negli ultimi dieci-quindici anni, il rinvigorimento di un macrogenere: la non fiction, più precisamente definita «documentario di creazione» per i film, e «reportage giornalistico» per il graphic novel. In ambito cinematografico in virtù delle tecnologie digitali, a partire dalla fine degli anni novanta, effetti speciali sempre più ridondanti hanno preso il sopravvento sulle storie, in un tripudio mirabolante di spettacolarità e azione, tenuti insieme da un montaggio incalzante e vertiginoso. Secondo il filosofo Jean Baudrillard, si deve parlare di «illusione cinematografica perduta» e di «estetica della disillusione», nel senso in cui la nostra coeva società dell’immagine resta schiacciata dall’apologià del virtuale, dal citazionismo, dalla proliferazione di schermi che finiscono per creare veri e propri trompe-l’oeil che si rispecchiano gli uni negli altri in un’esasperata e fittizia «iperrealtà».
D’altronde, a contrastare ciò che Baudrillard definisce «orgia di immagini che non produce più illusioni», si è assistito, in ambito cinematografico, a due fenomeni ben precisi. Anzitutto, il nuovo slancio vissuto dai documentari di creazione che approdano a una ricorrente distribuzione nelle sale cinematografiche e non solo sullo schermo televisivo, da sempre luogo per eccellenza di fruizione di questo tipo di prodotti. Per citare un solo nome su tutti, basti pensare al successo del regista americano Michael Moore che, con Bowling for Columbine, riesce a fare ammettere un documentario in concorso al Festival di Cannes, dopo ben quarant’anni; e due anni dopo, nel 2004, vince addirittura la Palma d’oro con Fahrenheit 9/11. Parallelamente all’espansione del documentario, muta il ruolo del cinema d’animazione che, in rapporto all’immagine fotografica non più analogica, ma digitale e quindi di per sé potenzialmente ingannevole e mendace, può ora mostrare la sua capacità di simulare la realtà, generando una personale alternativa figurativa alla rappresentazione live action. Nel nostro presente non esistono più immagini uniche e originali, ma soltanto universi visivi in continua circolazione ed esposti a molteplici manipolazioni. Ne consegue che, in un certo qual modo, il documentario di creazione e il film d’animazione non sono che due facce di una stessa medaglia: la necessità dell’immagine di trovare un suo posto di fronte alla realtà. Oggi, intorno a noi, assistiamo a un processo di ibridazione delle immagini che, oltre a un diffuso disorientamento, ha portato anche novità interessanti. Tra queste, l’originale «documentario d’animazione» del 2008 Valzer con Bashir (di Ari Folman). Vincitore del Golden Globe come migliore opera straniera, questo «film di guerra», «pezzo di giornalismo investigativo» com’è definito sulla locandina del dvd, racconta le atrocità del conflitto libanese all’inizio degli anni ottanta attraverso il disegno dei cartoni animati, già di per sé negazione di una possibile ricostruzione oggettiva. Allora, come la mettiamo con una delle condizioni primarie del genere documentario, e cioè la presenza del reale?
Jean-Luc Godard, che ha passato una parte ragguardevole della sua vita a domandarsi cos’è la fiction e cos’è la non fiction e a indagarne ripetutamente i confini nei suoi film e nei suoi scritti, suggerisce che bisogna sempre partire dallo sguardo. E lo sguardo che fa la fiction, vale a dire il modo in cui, come spettatori, siamo messi in condizione di guardare. In Valzer con Bashir il regista Folman lavora alla sceneggiatura del film mettendo un annuncio su Internet, per cercare persone che avessero qualcosa di interessante da raccontare per un documentario sulla guerra del Libano. Sono arrivati in centinaia, sono stati intervistati e ripresi con la telecamera. Dichiara Folman: «Era come avere delle storie fantastiche senza fine. Dovevi solo allungare la mano e scegliere il finale che volevi». Il protagonista di Valzer con Bashir ha perso la memoria degli anni in cui ha combattuto e per recuperarla parla con la gente, interroga i testimoni e i suoi ex compagni d’armi, si fa descrivere ogni dettaglio, anche il più insignificante. Più notizie riesce ad acquisire e più si avvicinerà alla verità. E noi spettatori andiamo con lui in cerca del bandolo della matassa, passo dopo passo, in un rapporto partecipativo di ricostruzione della realtà effettiva, come accade anche nei lavori del fumettista Joe Sacco, di cui parleremo più avanti. Poco importa allora che il regista, nel finale, per rappresentare più crudamente la strage, ceda all’immagine fotografica. La presenza del reale è già nelle premesse di una narrazione raccolta dalle testimonianze dirette dei sopravvissuti e nella decisione di non schierarsi e di non essere orientato politicamente, che è anche la scelta dichiarata da Marjane Satrapi in Persepolis (fumetto e film, da lei codiretto insieme al fidanzato), nel raccontare la storia di una donna, se stessa, in Iran ai tempi dello scià e del regime integralista di Khomeini. In linea di massima, possiamo dedurne che un prodotto etichettato come «documentario», cioè non fiction, non ci dice cosa è giusto e sbagliato, non dà giudizi, illustra solo i tanti risvolti di una situazione, ancor più se si serve dello stile dell’animazione, già per definizione antitetico al genere. Eppure collocare Persepolis tra i graphic novel di non fiction non sembra così scontato. Catherine Deneuve, che nell’omonimo film d’animazione tratto dal fumetto ha prestato la voce a uno dei personaggi, dichiara che la Satrapi è la sua «romanziera» preferita e che considera Persepolis uno «straordinario romanzo a fumetti».
Nel 1991 il «New York Times» ricevette una lettera di disappunto. A scriverla era stato Art Spiegelman, il quale rimproverava il quotidiano di aver inserito il secondo volume del suo Maus, appena uscito, nella classifica dei migliori bestseller di fiction. Scriveva Spiegelman: «Fiction indica che il lavoro non è basato su fatti reali, e questo mi provoca un certo fastidio». Spiegava che, se l’avesse voluto scrivere come un romanzo di finzione, non avrebbe certo dedicato tredici lunghi anni della sua vita a cercare una struttura narrativa e che non osava immaginare come avrebbero reagito le persone di cui racconta le vicissitudini, a partire dai ricordi di suo padre stesso, a vedere classificate come fiction la vita dell’Europa sotto Hitler e le morti nei campi di concentramento. E il «New York Times» rispose dando ragione all’autore e spostando di categoria il volume in questione.
Si può dire che, da allora, nel fumetto è stato sdoganato il genere del graphic novel non fiction che, come vedremo, attualmente vive un vero e proprio boom. Biografie, cronache, resoconti di viaggio, testi divulgativi, ce n’è per tutti i gusti. Perlopiù i racconti si sviluppano in terza persona con un registro impersonale e se l’autore inserisce se stesso nella narrazione è per meglio rispondere a una funzione di accompagnamento didattico per il fruitore. Le tematiche affrontate sono varie e prevalentemente correlate alla ricostruzione di fatti storico-politici del proprio paese.
Negli Stati Uniti si spazia dalla tragedia dell’11 settembre 2001 ai viaggi di studio per capire Israele, fino alla devastazione provocata dall’uragano Katrina a New Orleans. Prevalentemente si tratta di prodotti cartacei, sebbene gli americani abbiano cominciato a sondare il terreno anche con una nuova collana editoriale digitale di non fiction, che realizza adattamenti di alcuni tra i bestseller americani degli ultimi anni (Smarter Comics, per Round Table Companies, da aprile 2011). In Italia si è ritagliata uno spazio di spicco la casa editrice padovana Becco Giallo, specializzatasi nel pubblicare fumetti d’impegno civile, con un ricco e variegato catalogo che va dal sequestro Moro al problema della mafia, ma anche alla banda della Magliana, a grandi figure di spicco come quella di Adriano Olivetti e l’immancabile Che Guevara, senza trascurare l’attualità con la vita del fondatore di WikiLeaks Julian Assange.
Di ben altra natura sono invece i lavori del cinquantenne Joe Sacco, nato a Malta ma trapiantato dall’età di dodici anni negli Stati Uniti, dove si è laureato in giornalismo. Fumettista per vocazione ma reporter per formazione, Sacco è autore di sostanziosi tomi di graphic novel, in particolare sul conflitto nella ex Iugoslavia e sulla guerra israelo-palestinese, tutti contraddistinti da un disegno bianco e nero più raffinato e complesso rispetto ai tratti elementari della Satrapi, ex illustratrice di libri per bambini. D’altronde per Sacco non c’è proprio dibattito, l’imparzialità non fa al caso suo. La questione cruciale dello sguardo che Godard sollevava a proposito dell’equivoco confine tra fiction e non fiction, è per il fumettista il punto di partenza dei suoi lavori: «Sono dentro la storia perché voglio mostrare come le persone reagiscono di fronte a un estraneo. E anche perché voglio che sia chiaro che disegno il mio punto di vista, non qualcosa di obiettivo. I lettori vedono le cose attraverso i miei occhi». Invece di proporsi come un osservatore anonimo, tagliato fuori dal mondo diegetico, Sacco diviene testimone oculare di un mondo che, parallelamente, diventa reale.
Consapevole di rivolgersi al pubblico statunitense, in Palestina, prima opera di lungo respiro di giornalismo a fumetti, prende una netta posizione e sceglie di raccontare il conflitto dando voce ai palestinesi piuttosto che agli israeliani. In Gaza 1956, ma ancora di più in Neven. Una storia da Sarajevo, palesa la difficoltà dei giornalisti, legati a doppio filo all’interprete o ai militari, a verificare le fonti e decide di porre il lettore davanti alla complessità dei punti di vista che si contraddicono, mostrando in fieri il processo di ricerca. Nel mettere in scena se stesso all’interno delle proprie ricerche fattuali, Sacco compie un’operazione molto simile, ma molto meno faziosa, al documentarista Michael Moore che, nei suoi film, interpreta un ficcanaso fisicamente ingombrante, col pallino del sociale, che fa quanto necessario per esplorare la questione presa in esame. In campo, di fronte alla cinepresa, il reporter di immagini Moore fa derivare la propria legittimità argomentativa dal fatto che la presenza di se stesso, in quanto testimone, avalla la veridicità della rappresentazione visiva. Come spiega bene il semiologo francese Francois Jost in Pealtà/Pinzione. L’impero del falso, rispetto agli anni cinquanta-sessanta, oggi l’immagine delle trasmissioni di reportage si è «somatizzata», nella misura in cui non si immagina più un soggetto vuoto dietro l’obiettivo, una voce di commento anonima, un semplice dispositivo semiologico, ma un corpo. E questo ancoraggio dell’immagine al corpo è ormai così consueto nei reportage da essere diventato indizio e garanzia di realtà, troppo spesso pericolosamente scambiata per verità. Ma se Moore ne approfitta portando avanti le sue asserzioni con domande retoriche che tradiscono una malcelata superiorità rispetto ai suoi interlocutori, alterando la cronologia degli eventi, utilizzando tutti gli stratagemmi visivi e sonori per smuovere le emozioni degli spettatori come nei più collaudati format di consumo televisivo, Joe Sacco colpisce per l’onestà intellettuale e artistica, e si colloca forse più vicino al lavoro dello storico che del giornalista. Per ricostruire i fatti dei conflitti non parla ai pezzi grossi ma alla gente comune, «quelli sulle cui teste passa la Storia, quelli che subiscono le decisioni altrui» e chiede dettagli «visivi» sull’aspetto dei luoghi e sui vestiti delle persone. Scatta foto «noiose» ma necessarie, e ogni sera tiene un diario accurato per descrivere situazioni e immagini. Poi, quando torna in America, indicizza, sbobina, scrive la sceneggiatura e soltanto dopo comincia a disegnare. Gaza 1956 contiene un’appendice con una serie di testi di documenti e fonti degli anni cinquanta, provenienti dagli archivi delle Nazioni Unite a New York e da altri archivi in Israele consultati da due ricercatori assoldati da lui. Ma soprattutto, colpisce l’autoironia che Sacco dissemina nelle sue tavole e le interpellazioni dirette al lettore che, in quanto indicatori dei dispositivi stessi del medium, obbligano il fruitore a entrare nella narrazione con una partecipazione più attiva e a riflettere sul senso del fumetto. Costruendo così non un punto di vista assoluto, egocentrico e strumentale, basato sulla spettacolarizzazione degli eventi drammatici, ma un’esplicitata possibilità di sguardo. Uno tra i tanti possibili, proprio come nella realtà.