Per un pugno di libri: cultura e western, competizione e ironia. Un quiz televisivo sulla letteratura che coinvolge gli studenti delle superiori, ma è ascoltato in gran parte da anziani di buona cultura. Un pubblico limitato ma fedele, quello del libro in televisione, da coltivare con fantasia e coraggio. E che, secondo Piero Dorfles che conduce la trasmissione, potrebbe crescere anche nei numeri se chi fa i programmi, a sua volta, conoscesse meglio i libri.
Domenica, ore 18. Alla televisione – su Rai 3 – si gioca con i libri. Senza intervistare autori, senza presentazioni di novità editoriali e senza sussiego. In una scenografia dai violenti accostamenti di rosso, di blu e di giallo sono in gara due gruppi di ragazzi (compagni di classe, studenti dell’ultimo anno delle superiori). Nella migliore tradizione del quiz televisivo vince la squadra che conosce meglio un’opera: trama, personaggi, luoghi e ambienti. E sa mettere in sequenza una lista di parole, vagamente ispirate al libro in questione, attraverso un surfing intuitivo tra significato, fonetica, rapporti storici (il gioco si chiama gaddianamente «lo Gnommero»), oppure individuare il titolo del romanzo di cui vengono lette alcune righe («Per chi suona la campanella»), oppure ancora chi attribuisce l’autore giusto a una serie di titoli annunciati dal conduttore («Fuori gli autori»)… Il tutto insaporito da un sistema di «puntate» sulla base di una dote iniziale di 35 libri assegnata a ciascuna squadra, che decide di volta in volta quanti giocarsene. Vince chi alla fine (con il «Domandone» su temi e personaggi del libro cui la puntata è dedicata) ha accumulato più libri. Una partita sul campo della narrativa che non conosce limiti storici o geografici: da Colette a Saviano, dalla Storia della colonna infame alle Cronache marziane.
A condurre lo spettacolo, in coppia, un «clown» (l’attore Neri Marcorè) e un «padre nobile» (il giornalista Piero Dorfles). Il primo impegnato ad animare i giochi e a far sorridere concorrenti e pubblico; il secondo – ironicamente arcigno – nel multiforme ruolo di «notaio televisivo», di commentatore autorevole, di suggeritore di approfondimenti. Dietro di loro gli autori (Andrea Salerno, Marta Mandò, Gabriella Oberti, Alessandro Rossi) e il regista Igor Skofic.
Il senso del loro lavoro traspare dal titolo della trasmissione: Per un pugno di libri, cultura e western, competizione e ironia (www.perunpugnodilibri.rai.it). E il tentativo di collegare, nel format televisivo del quiz, qualità e popolarità. Già non sarebbe poco. In più si tratta di far parlare di libri gli studenti delle superiori in ambito extrascolastico, e infine di parlare di libri in televisione. Per un pugno di libri ha messo insieme i tre problemi e se li è accollati. «Senza risolverli…», sottolinea tra modestia e sarcasmo Dorfles. «Noi facciamo giocare i ragazzi con i libri; farli parlare dei libri è difficilissimo. Abbiamo tentato più volte di aprire un dialogo (anche facendo realizzare dei brevi filmati, dei raccontini). Ma è uno sforzo inane: se li avvertiamo prima arrivano con un compitino da recitare, altrimenti non si ottiene nessuna risposta significativa. Non perché non siano in grado di parlarne, ma perché è l’idea dell’interrogazione quella che prevale. Fuori da questa situazione, come nella società in generale, tra gli studenti c’è un cinque per cento di persone che hanno non solo forte passione ma spesso anche grandi capacità di analisi e di critica. Ma è molto difficile che ne parlino in televisione. Noi non ci siamo riusciti.»
La macchina televisiva
Il prezzo da pagare per portare i libri in televisione è nasconderli dietro il tifo, la passione per la squadra, l’applauso. Gestire la trasmissione come uno spettacolo, in qualche modo «a braccio», sfruttando la battuta improvvisata, reagendo a ciò che accade casualmente. «Il copione della trasmissione sono i giochi: l’unica cosa scritta che abbiamo sono le domande preparate dagli autori. Né Marcorè né io abbiamo una traccia scritta: io non arrivo mai con tre-quattro libri di cui parlare, ma ne ho sempre sei o sette. Tiro fuori quello che mi pare più adatto secondo il momento, le cose dette, gli agganci con altri discorsi fatti poco prima… E un’improvvisazione, ma in televisione non è poi una cosa così rara.»
Un meccanismo da gioco in famiglia, come la tombola di buona memoria, ma con una struttura abbastanza complessa: «Prima di portare una classe in televisione bisogna verificare che sia adatta: occorre che comprenda almeno due-tre forti lettori. Perciò alcuni programmisti vanno in giro per l’Italia a verificare che le classi che si sono proposte per partecipare siano a un livello sufficiente. Quanto alle candidature, ce ne sono sempre più di quante ne possiamo soddisfare». I concorrenti vengono scelti avendo cura di mettere di fronte tipi di istituto e provenienze geografiche differenti. «Si propongono sempre più licei che istituti tecnici, il che rende ulteriormente complessa la scelta. E poi, una volta distribuito alle classi il libro oggetto del gioco, si realizza, con mezzi tecnici molto semplici [una collezione di istantanee, poi inglobate nella sigla d’apertura, NdA] un “ritratto” della classe. In più c’è il normale lavoro di redazione.»
Effetti a catena
Ci sono differenze tra i vari tipi di scuola dal punto di vista dell’interesse? «Ce n’è una sostanziale tra scuole delle grandi città e scuole della provincia: chi viene dalle grandi città il più delle volte viene con aria di sufficienza. Una classe di Catanzaro invece non solo ha dimostrato grande entusiasmo, ma dopo la trasmissione ha organizzato un convegno sullo scrittore oggetto del gioco, e ha addirittura messo in scena una piccola pièce teatrale tratta dal romanzo. In un liceo di Brescia si sono svolti dei “campionati interni” di Per un pugno di libri e a Taranto una delle classi ritenute tra le più difficili dell’istituto ha partecipato con tanta passione a uno di questi campionati interni che il loro modo di rapportarsi alla scuola è cambiato.»
Viene in mente il ruolo etico attribuito alla televisione pubblica negli anni cinquanta-sessanta: la televisione come molla per innescare nella società una catena di processi culturali positivi. Funziona ancora? Dorfles ne è convinto, nonostante l’aria del tempo: «La trasmissione è stata accusata di essere “vecchia”, “pedagogica”. Il che dà molto fastidio, perché esce dal canone attuale della televisione: senza urli, strepiti, parolacce, volgarità, donne spogliate e litigi in diretta la televisione non funziona. E in effetti la nostra trasmissione non funziona: non va incontro al grandissimo pubblico. Anche se non andasse in onda la domenica pomeriggio, quando il grande pubblico si occupa probabilmente di calcio, non riusciremmo a ottenere molto più del 7-8% di share che raggiungiamo. Ma il nostro pubblico fa parte di una categoria non facilmente rilevabile da Auditel, è composto per una buona metà da persone che sono la negazione del consumo: oltre i 65 anni, titolo di studio superiore o laurea, single, cultura elevata. Con una distribuzione più equa dei rilevatori Auditel credo che raggiungeremmo un numero più alto. L’unica cosa certa è che i ragazzi vengono a giocare, ma non guardano la trasmissione».
Il pubblico c’è, ma non si vede
Come si può parlare di libri in televisione? «La mia domanda è esattamente alla rovescia: come si può parlare alla televisione senza libri? Questo mi sbalordisce: che noi si possa sopravvivere in un mondo dove l’intero apparato televisivo è ignaro dell’esistenza del patrimonio della scrittura. Lì è il nodo. Basterebbe richiamare l’attenzione, tutte le volte che si può, sui libri che possono essere utili a capire la società che abbiamo davanti – anche raccontando semplicemente un pezzo della trama di un libro. Anche a proposito della cronaca nera: i gialli sono un magnifico strumento per capire come è fatta la società italiana.»
Possiamo malignamente ipotizzare che per citare i libri bisogna conoscerli? «Chi è impegnato a produrre la comunicazione di massa è talmente market oriented da non essere rilevabile sul piano culturale, e chi si occupa di cultura non è rilevabile sul piano del marketing. La frattura tra i due mondi è anche in parte responsabilità del mondo culturale italiano, che è talmente distante dal modello della comunicazione di massa da non sapere neanche come metterci i piedi dentro. Tanto è vero che portare gli intellettuali in televisione è difficile: sono noiosi, e quelli che non lo sono vengono immediatamente cooptati e diventano personaggi televisivi, smettendo di essere intellettuali.»
Dal punto di vista del format (a parte le «dirette» delle cerimonie conclusive dei premi letterari, che probabilmente come ascolto non raggiungono Per un pugno di libri) ci sono trasmissioni costruite sull’incontro con l’autore, oppure sulla rievocazione narrativa di casi della cronaca nera, sulla docufiction. Queste formule aprono uno spazio ai libri? «Sono convinto che esista un pubblico pronto ad ascoltare anche trasmissioni di taglio “pedagogico”. Ma il problema è riuscire a infilare in trasmissioni che parlino di tutto la riflessione sullo strumento che la letteratura può dare per andare oltre la superficie delle cose. Un minuto o un’ora, non cambia molto. Di questi momenti ce ne sono, ma sono concentrati tutti su una sola rete. La mattina a Cominciamo bene se ne parla; Augias, Fazio e anche Philippe Daverio, oltre a noi, parlano di libri. Tutto questo sempre e solo su Rai 3, il resto è un deserto. In prima serata conduttori e giornalisti evitano accuratamente di citare libri, per non parlare di telegiornali…»
Per un pugno di libri l’altr’anno ha rischiato la chiusura, insieme con certe corazzate dei talk show di prima serata. Quest’anno possiamo stare tranquilli? «Io credo che nessuno possa stare tranquillo…» si incupisce Dorfles, che nella redazione cultura del GR3, con la rubrica «Il baco del millennio», ha fatto per un decennio una radio «con» cultura, ma non «di» cultura. Poi un direttore (tutt’altro che berlusconiano) ha chiuso la rubrica e ha trasformato la redazione Cultura in redazione Spettacolo.
«Sono scelte fatte per aumentare l’audience, che poi non aumentano proprio niente. Non essendoci in questo momento una forte offerta di cultura, non si può sapere se c’è un pubblico. Quando è nato il Festivaletteratura di Mantova non c’era nessuna altra offerta paragonabile in Italia, nessuno ci scommetteva. Oggi di festival culturali ce ne sono cento, con una partecipazione di pubblico impressionante (ancora una volta nelle città di provincia): quello che non produce la sagra della salsiccia lo produce l’incontro con un autore.
«Un mezzo di comunicazione di massa il pubblico se lo crea. Il successo di Fabio Fazio è significativo: prima di lui nessuno faceva quel tipo di trasmissione, dove si mescolano serietà e scherzo garbato, con riferimenti culturali alti, addirittura con grandi maestri della filosofia e della letteratura. Tutte cose che in televisione non avevano spazio da anni. La trasmissione ha costruito il suo pubblico, e c’è riuscita perché, nascosto, c’era un bisogno di riflessione più profonda e anche di temi che normalmente non sono all’ordine del giorno in televisione. La gente non sa di aver bisogno di informazioni su cose serie, su problemi astratti. Io penso che si debba essere ottimisti e ritenere che ci siano dei pubblici nascosti, magari non sterminati: la televisione non è più fatta di reti generaliste. Ci sono una frammentazione del pubblico e un’offerta più vasta. Fare una televisione per pochi è oltre tutto anche costoso, ma bisogna avere coraggio di investirci e avere immaginazione. Questa è la scommessa affascinante, non solo per i risultati economici, ma anche perché ha un ruolo di servizio impagabile.»