I formati dell’immaginario tv

Figlia degli sceneggiati Rai del secolo scorso, la fiction odierna – pur mantenendo strutture narrative basate sul racconto seriale, linguaggio accessibile e funzione pedagogico-educativa – è sempre più sottoposta a criteri di programmazione commerciali e alle logiche di concorrenza determinate dal moltiplicarsi delle emittenti televisive. Strette tra i vincoli di budget e lo spauracchio dei «periodi di garanzia», le produzioni recenti rincorrono lo «spettatore medio» a colpi di narrazioni di genere, soap opera ibridate di localismo e storie quotidiane in stile «reality».
 
Una volta si chiamavano sceneggiati, teledrammi, teleromanzi e in altri modi ancora. Oggi tutto ciò che in televisione non è prodotto cinema o programma d’intrattenimento confluisce più genericamente nella vasta categoria soprannominata «fiction». Un’etichetta onnicomprensiva e duttile, necessaria dal momento che, nel corso degli anni, generi e sottogeneri sono nati, si sono evoluti e persino estinti al traino di mutate pratiche testuali e alterne politiche di palinsesto.
La fiction odierna è figlia degli sceneggiati televisivi prodotti dalla Rai a partire dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni ottanta circa. In origine gli sceneggiati si rifanno a situazioni narrative di matrice teatrale o letteraria, sono filmati negli studi televisivi e interpretati da attori provenienti prevalentemente dal palcoscenico. Dall’enorme successo della riduzione televisiva di Delitto e castigo nel 1963 si afferma la convinzione che la tv possa diventare un grande teatro nazionale a domicilio, rivolto a un pubblico di massa grazie all’adattamento di un linguaggio meno ampolloso e più accessibile. Ma anche il romanzo sceneggiato in più puntate riscuote grandi consensi, creando aspettative alimentate dall’attesa settimanale. Basti citare la cospicua concentrazione di scene madri interrotte al momento cruciale di La cittadella (1964) e il conseguente primo caso di clamoroso divismo televisivo del protagonista Alberto Lupo.
Oltre al teatro, la televisione guarda anche al cinema come a una provvidenziale fabbrica di idee collaudate presso il vasto pubblico, prendendone in prestito competenze tecniche e professionalità necessarie. Dal punto di vista tematico i generi spaziavano dalla commedia al dramma, dal giallo alla fantascienza, e la regia era affidata ad autori di solida esperienza cinematografica e teatrale. Ma è nell’aspetto formale che il cinema e la televisione differiscono radicalmente. Le strutture narrative della neofita tv non si plasmano sull’entità conclusa del lungometraggio cinematografico, quanto piuttosto sul feuilleton ottocentesco e sul radiodramma degli anni trenta, modelli di racconto seriale e di funzione pedagogico-educativa. Non a caso, è con il romanzo italiano per eccellenza che la Rai raggiungerà la massima maturità di un’azienda in espansione: le otto puntate dei Promessi sposi (1967) sono girate per la prima volta interamente in elettronica nel più grande studio di produzione appena inaugurato a Milano. Salvo alcune eccezioni quali Odissea (1968), pensata per il mercato internazionale e con lo stanziamento di un budget più alto di quello riservato d’abitudine agli sceneggiati, fino alla fine degli anni settanta la produzione è affidata unicamente a risorse aziendali interne. Dagli anni ottanta, oltre a impegnative produzioni internazionali (Marco Polo, 1982; Quo vadis?, 1985; Gli ultimi giorni di Pompei, 1989), la soluzione preferita diventerà l’appalto, sia per l’aumento delle ore di programmazione che arriva a coprire il mattino e anche tutta la notte, sia perché nel 1979 le reti Rai diventano tre.
Con gli anni ottanta il panorama mediologico italiano si rivoluziona, tanto che Umberto Eco conia a proposito il termine di «Neotelevisione» (Sette anni di desiderio, 1976). Il monopolio televisivo della Rai viene contrastato dalla liberalizzazione delle emittenti private con conseguente aumento dei canali disponibili a livello locale e nazionale, ma altresì l’introduzione di nuovi criteri di programmazione più commerciali. In questo periodo s’incrementa il numero degli apparecchi della fruizione domestica e le loro funzioni (televideo), vengono proposti nuovi terminali collegabili (videoregistratore) e, soprattutto, a causa dell’introduzione del telecomando, nasce la «sindrome da pulsante», altrimenti detta zapping, che diventa l’unica strategia possibile da parte dell’utente per difendersi dall’offerta strabordante di un enorme quantitativo di canali disponibili.
Come cambia allora la fiction? Già a partire da questi anni comincia a delinearsi una tendenza che oggi regna sovrana nel piccolo schermo. La televisione, per essere vincente in termini di ascolto e agganciare un pubblico più vasto possibile, dovrà necessariamente strutturarsi su un ipotetico spettatore medio, rappresentato da utenti con tasso di bassa scolarità, abitanti delle province e dei piccoli paesi più che delle grandi città. Diventa sempre più difficile realizzare prodotti dove i requisiti «colto» e «popolare» coesistono, se non in casi del tutto sporadici ed eccezionali per le stesse reti che sono le prime a non voler rischiare, se non possono garantirsi una media accettabile di ascolti – e quindi di riscontri pubblicitari adeguati. Negli anni ottanta cominciano a spopolare in televisione i serial e i telefilm americani e la Rai, rifacendosi ai tratti caratteriali di alcuni di questi modelli (Dallas*, Il padrino), si vede scoppiare tra le mani il successo di La piovra (nove edizioni dal 1984 al 1998) che a livello televisivo produce una sorta di corrispettivo del cinema medio nelle sale, senza pretese autoriali, disinteressato ad approfondire la psicologia dei personaggi, pieno di stereotipi da romanzo giallo e colpi di scena, improntato su una tematica volta a procurare indignazione e partecipazione perché racconta il mondo spietato dei killer e dei poliziotti trucidati dalla mafia. Il tutto condito da un’estetica manierista e da una fotografia patinata. D’altronde, le neonate reti Fininvest, uniche aspiranti concorrenti della Rai sulla produzione di fiction, sperimentano un primo esempio di intrattenimento per ragazzi con Love Me Licia (1986), una serie di 35 episodi per sfruttare l’ottimo risultato del cartoon giapponese, che avrà un notevole riscontro presso il pubblico giovane, tale da giustificarne due sequel. Il prodotto è di livello scadente e rivela l’esiguità del budget produttivo: le scenografie sono ridotte all’osso, la recitazione è improvvisata e le situazioni narrative spesso risibili. Parallelamente alla produzione di serie per il pubblico giovanile la Fininvest (poi Mediaset dal 1993) comincia a realizzare sitcom (Casa Vianello) a scadenze regolari e fitte.
Vediamo ora come si è evoluta ulteriormente la fiction negli ultimi dieci-quindici anni. Anzitutto va detto che la fiction ha costi di produzione molto elevati e per motivare il budget deve necessariamente andare in onda sulle principali reti generaliste in prime time, cioè nell’orario in cui si ottiene l’audience maggiore. Questo spiega perché quando una fiction non ottiene immediato riscontro sulle principali reti Rai o Mediaset (Rai 1 e Canale 5) viene precipitosamente spostata su altre reti e rimbalzata nei giorni finché il palinsesto di programmazione sembra avvantaggiarne la visione. Bisogna altresì segnalare che all’incirca alla fine degli anni ottanta in primavera e in autunno, in date rigorosamente prestabilite, in televisione si attuano dei cosiddetti «periodi di garanzia», durante i quali vengono raccolti i numeri degli ascolti maggiori e quindi, in base ai risultati raggiunti, stabilite le tariffe per gli inserzionisti pubblicitari. Ovvio che in questi spazi di programmazione, della durata di alcuni mesi circa (da febbraio a fine maggio; da fine settembre a fine novembre), le reti Rai e Mediaset mettano in campo le loro offerte migliori e, in particolare, le fiction su cui maggiormente puntano. Oggi in tv l’obiettivo principale consiste nel conquistare il più vasto pubblico possibile, spesso anche a discapito di un discorso autoriale. Ecco perché, a differenza del cinema, i registi televisivi sono ottimi professionisti ma difficilmente riconoscibili per caratteri stilistici propri e non influenzano la forma narrativa, perché il prodotto è improntato essenzialmente allo sviluppo di un racconto semplificato e lineare, immediatamente comprensibile.
Al momento presente i formati si distinguono fondamentalmente in: tv movie (episodio singolo), miniserie (2 episodi), serialità breve (fino a 6 episodi) e serialità lunga (oltre 6 episodi). Dal punto di vista tematico, accantonata la fantascienza che in televisione funziona poco, oltre ai consolidati filoni del giallo ibridato con la commedia (Don Matteo; Ho sposato uno sbirro; Il maresciallo Rocca; E poi cè Filippo), hanno un discreto successo il genere poliziesco (La squadra; Distretto di Polizia) e ospedaliero (La dottoressa Già; Incantesimo; Un medico in famiglia). Senza disdegnare qualche escursione nel filone storico (si pensi al buon risultato della prima serie di Elisa di Rivombrosa, 2003, che invece nella successiva ha registrato un considerevole calo di ascolti) e su personaggi attinti dalla storia (Perlasca un eroe italiano, Paolo Borsellino, Gino Bartali l’intramontabile, Maria José l’ultima regina). Da citare anche un singolare esperimento della Rai nel musical (Tutti pazzi per amore) e il caso a sé del Commissario Montalbano, che si inscrive nel filone degli investigatori di matrice letteraria sullo stampo degli sceneggiati Rai della metà anni sessanta-primi anni settanta (Le inchieste del commissario Maigret, Nero Wolfe). Comunque sono le numerose miniserie a sfondo religioso (Rai: Papa Giovanni, Padre Pio tra cielo e terra, Don Bosco, San Pietro,Giovanni Paolo II, Papa Luciani il sorriso di Dio, Madre Teresa ecc.; Mediaset: Francesco, Padre Pio, Il Papa buono, Don Gnocchi l’angelo dei bimbi, Rita da Cascia, Karol un uomo diventato papa, Karol un papa rimasto buono, L’uomo della carità Don Luigi Di Liegro ecc.) a garantire gli share migliori, tanto da indurre a saccheggiare il grande catalogo di papi e santi.
Parallelamente all’inaugurazione e diffusione del fenomeno «reality», anche l’immaginario televisivo della fiction si sposta sempre di più sulla quotidianità, con il ritorno regolare e durevole di piccole storie incentrate sul presente (Commesse, I Cesaroni). Oltre alle costose fiction di prima serata, va segnalata la produzione seriale a basso costo di soap opera (meglio, real soap) che vede il capostipite nella fortunata Un posto al sole, dal 1996 su Rai 3, nella fascia di programmazione definita access, perché introduce letteralmente al prime time. L’obiettivo è conquistare il maggior pubblico possibile, senza distinzione, con un prodotto che costi meno delle soap d’importazione. La formula vincente della serie risiede nel dare voce a quello che Aldo Grasso definisce il «bisogno di localismo», cioè la ricerca di prodotti ambientati nel proprio territorio e con personaggi ammiccanti a un neorealismo domestico in cui è possibile immedesimarsi. Il format in realtà è dell’australiana multinazionale Grundy, ma adattabile a disparate necessità secondo le usanze nazionali.
Ci sono ancora un paio di elementi su cui è utile soffermare l’attenzione. Il primo riguarda l’ulteriore prolificazione dei canali indotta dal digitale terrestre e dai canali satellitari. Il cinema non può essere sufficiente a riempire l’eccesso di spazio a disposizione e, una volta di più, sarà la fiction di produzione e di importazione il prodotto vincente su cui puntare. Dopo avere riciclato tutti i fondi di magazzino, sarà necessario produrre nuovi contenuti, ed è significativo che anche Sky abbia iniziato a cimentarsi nella produzione di serie, e l’abbia fatto con proposte in qualche modo d’autore, di spiccata impronta cinematografica: Romanzo criminale, ispirato all’omonimo film di Michele Placido (a sua volta trasposizione dal romanzo di Giancarlo De Cataldo); Quo vadis baby?, anch’esso dall’omonimo film di Gabriele Salvatores che ne cura anche la direzione artistica; e il recente Moana sulla pornodiva più famosa d’Italia.
La seconda questione è relativa allo sviluppo tecnologico dei nuovi apparecchi televisivi. Dall’elettrodomestico a tubo catodico che si occultava incastrandolo nei mobiletti di rovere all’esibizione dello schermo digitale ultrapiatto con impianto stereo a diffusori differenziati. Lamentando la psicologia massificata dello spettatore di cinema che disertava i suoi film nelle sale, Roberto Rossellini elogiava la libertà immensa offerta dalla televisione e la diversità del pubblico che offriva. Non duemila persone indifferenziate davanti a uno schermo ma dieci milioni di spettatori che sono dieci milioni di individui, uno dopo l’altro. Una visione più intima e infinitamente più persuasiva. Tutto il contrario dell’attuale fruizione del teleutente che tende a ricalcare sempre di più la visione della sala cinematografica. L’ultima frontiera dell’home entertainment è la tv tridimensionale, in grado di riprodurre immagini in 3 D grazie a un pannello veloce sincronizzato con gli occhialini tramite trasmettitore a infrarossi (ma la Samsung sta già commercializzando apparecchi 3D senza gli scomodi occhiali). Attualmente però, a parte i film, non ci sono contenuti specificamente pensati per questa nuova modalità di fruizione, né crediamo che serie quali I Cesaroni o Un posto al sole possano suscitare vertiginose ebbrezze in visione tridimensionale. Mentre il cinema nel giro di pochi mesi ha adeguato la maggior parte delle sale per il 3D e propone una svariata offerta di generi (animazione, fantascienza, horror, musical) in continuo incremento, la tv non sembra essersi ancora allineata. Hanno già cominciato a essere disponibili per l’home video i primi film tridimensionali, ma da soli non potranno certo soddisfare un’utenza che sta sostituendo gli apparecchi e attrezzando il salotto per vivere la televisione come esperienza stereoscopica (si pensi anche alle console domestiche multimediali collegate al televisore che permettono di interagire con i movimenti del corpo e con la voce). Ecco allora che sarà necessario progettare a breve nuove tipologie di prodotti che possano rispondere a questa impellente richiesta, magari con escursioni in generi finora marginali in televisione, come per esempio la fantascienza che maggiormente sembra corrispondere a questo formato (si pensi al caso Avatar).