Usabilità, portabilità, comodità! La nuova generazione dei nativi digitali ha sviluppato un inedito approccio alla conoscenza: non lineare, multitasking, abduttivo, open source. Ora che la transizione dal supporto cartaceo a quello digitale è quasi ultimata, il nuovo «homo zappiens» è il consumatore da tenere d’occhio: solo comprendendo il suo stile comunicativo e di fruizione l’industria culturale potrà ridefinire tipologie di prodotti, contenuti e asset digitali, ed elaborare i relativi modelli di business.
Il diffondersi dei media digitali e l’affermarsi dei nuovi stili di comunicazione interattiva sono il fenomeno più clamoroso dell’industria culturale e dell’editoria dell’inizio del millennio. Oggi i computer portatili, gli e-book e gli smartphone, così come i tablet pc, sempre connessi in forma wireless e 3G a Internet, stanno assediando sempre più da presso il regno della «carta stampata» e la cittadella dell’editoria gutenberghiana. Questo assedio si è fatto anche più serrato da quando, a partire dal 2007, i nuovi supporti interattivi touch, creati dal genio di Steve Jobs e di Apple – gli iPod, gli iPhone, gli iPad e i loro «cloni» di altro marchio – permettono di sfogliare semplicemente con un tocco dei polpastrelli le pagine digitali dei libri e dei quotidiani on line, o di navigare il web in punta di dito, attraverso applicazioni specifiche. Gli schermi multitouch di questi dispositivi mobili ed estremamente portatili permettono infatti a tutti gli utenti – siano essi lettori, ascoltatori o videogiocatori – di abbandonare mouse, tastiera e «chiavette» adsl, oltre che i pesanti e ingombranti notebook del passato, e di utilizzare semplicemente le dita per navigare, molto più agilmente, tra i contenuti e sul web mediante i magici schermi/tavoletta sempre connessi a Internet e sempre più portabili. Allo stesso modo, questi nuovi strumenti touch permettono agli utenti di acquistare contenuti culturali on line con una procedura molto semplificata: basta registrarsi una sola volta su Apple Store o su iTunes, e inserire una sola volta il numero della carta di credito e la password, per acquistare poi dal proprio dispositivo, semplicemente e in mobilità, tutti i contenuti che si desiderano. L’usabilità, la portabilità e la comodità di questi nuovi dispositivi sono la carta vincente: due o tre colpetti di dito sullo schermo e si è sul sito della libreria on line preferita; altri due o tre colpetti, e attraverso la propria carta di credito si acquistano i contenuti: e poi, in meno di due o tre minuti si può leggere e consultare ogni campo della narrativa, della saggistica e anche della musica, della televisione o del video digitale e dei videogiochi. La «tecnologia caratterizzante» del trasferimento e della diffusione della cultura e dell’informazione è cambiata, e la transizione dal supporto cartaceo a quello digitale è quasi ultimata. Questo fenomeno, che si sta dispiegando con una rapidità impressionante (più di due milioni gli iPad Apple venduti nei primi tre mesi dalla presentazione), non può essere considerato semplicemente una moda o un fenomeno passeggero: non siamo noi «immigranti digitali» il principale soggetto attivo di questa trasformazione, noi che consideriamo i «nuovi giocattoli digitali» come una incredibile innovazione da accettare o rifiutare.
Il diffondersi dei media digitali, infatti, e l’affermarsi di uno stile della comunicazione orientato all’interazione, alla produzione di contenuti e alla condivisione sono stati accompagnati nel corso della rivoluzione digitale, durante gli ultimi diciassette anni (convenzionalmente fissiamo l’avvio della rivoluzione digitale nel 1993 con l’ideazione, da parte di Tim Berners-Lee, dei protocolli www, http e html, che hanno permesso la comunicazione grafica e ipertestuale di dati tra computer remoti nella forma che conosciamo oggi come rete Internet), dall’affacciarsi sulla scena di una nuova forma evolutiva dell’Homo sapiens: i «nativi digitali» secondo la definizione di Prensky (Digital Natives, Digital Immigrants, 2001). Nati e cresciuti all’ombra degli schermi interattivi dei «nuovi media», sono loro i soggetti che attueranno pienamente la transizione dalla carta al silicio. Ma chi sono i «nativi digitali»? Una prima considerazione sociologica: il tasso di penetrazione di Internet nella società è impressionante, e tanto più impressionante è quello tra le giovani generazioni, come dimostrano i dati statunitensi del Pew Internet Project (Grafico 1).
Ma anche i dati italiani del report Istat Cittadini e nuove tecnologie (Istat, 2009) dimostrano come, a fronte di una bassa penetrazione di computer e Internet in Italia rispetto ai paesi più avanzati – nel 2009 solo il 47,5% della popolazione era connesso (solo il 54% delle famiglie ha un pc o un laptop) –, i giovani, in particolare quelli tra i 15 e i 19 anni, sono grandi utilizzatori di media digitali e di Internet (Grafico 2).
Come si vede, gli schermi interattivi digitali non sono affatto gadget per adulti tecnofili. Sono i «nativi digitali» i principali utenti, e per loro questa interazione è parte integrante dell’identità soggettiva, non un divertissement raffinato o alla moda. E proprio sulla dieta mediale dei nativi è necessario soffermarsi, in seconda battuta, perché sarà il pay-off dell’industria culturale del futuro.
I digital natives, infatti, hanno una dieta mediale digitale che si costruiscono da soli, spesso nell’inconsapevolezza da parte degli adulti di riferimento, genitori, insegnanti o editori che siano.
Il loro percorso di appropriazione dei nuovi media è oggi indipendente, e spesso lontano e distonico da quello degli adulti immigrati. I digital natives crescono, apprendono, comunicano e socializzano all’interno di questo nuovo ecosistema mediale, «vivono» nei media digitali, non li utilizzano semplicemente come strumento di produttività individuale e di svago, sono in simbiosi strutturale con essi. Vivono, cioè, all’interno del «brave new world» dell’informazione e della comunicazione digitale e globalizzata. Anche i loro stili di comunicazione, e forse i loro modi di pensare, sono differenti. Una rassegna ragionata della letteratura scientifica in materia ci indica i valori che orientano gli stili comunicativi dei «nativi»:
– l’espressione di sé;
– la personalizzazione;
– la condivisione costante di informazione (sharing)
– il riferimento costante ai coetanei.
I digital natives sono nati in un mondo di schermi digitali, per loro quello che per noi è «nuovo» e «scintillante» è il modo normale di accedere ai contenuti, di comunicare e di interagire fin dalla prima infanzia. Questa simbiosi digitale cambia ovviamente anche il loro modo di vedere e rappresentare il mondo. Lo cambia come la «galassia Gutenberg» lo ha fatto per noi e per tutte le generazioni passate che l’hanno abitata. Ma in che modo la «galassia Internet» trasforma il modo in cui i «nativi» vedono e costruiscono il mondo? Le ricerche che il gruppo di lavoro «Bambini e computer» dell’università Bicocca ha condotto sull’appropriazione degli strumenti digitali da parte dei bambini tra due e sei anni (Bambini e computer, 2006; Digital Kids, 2008; entrambi a cura di S. Mantovani e P. Ferri), insieme a una serie di indagini internazionali, ci permettono di formulare alcune prime generalizzazioni euristiche per provare a rispondere a questa complessa domanda. I nativi digitali stanno sviluppando nuove rappresentazioni, nuovi metodi per conoscere e fare esperienza del mondo, cioè stanno sperimentando differenti schemi di interpretazione della realtà che li circonda, e conseguentemente differenti modalità di apprendimento e comunicazione. Wim Veen, studioso di nuovi media, utilizza la metafora dell’Homo zappiens. «Il termine Homo Zappiens identifica una generazione che ha avuto nel mouse, nel pc e nello schermo una finestra di accesso al mondo. Questa generazione, i nativi digitali di Prensky, mostra comportamenti di apprendimento e comunicazione differenti dalle generazioni precedenti; in particolare, apprendere attraverso schermi, icone, suoni, giochi, “navigazioni” virtuali e in costante contatto telematico con il gruppo dei pari significa sviluppare comportamenti di apprendimento non lineari» (Homo Zappiens, 2006).
Prendiamo per esempio in considerazione il primo codice comunicativo con cui i nativi digitali vengono in contatto: i videogiochi, che incontrano in tenerissima età, tre o quattro anni, attraverso il cellulare o il computer dei genitori, prima che attraverso le console di gioco. Alcuni videogiochi hanno poco a che fare con l’apprendimento e la comunicazione, poiché si limitano ad attivare funzioni neurali di tipo percettivo-motorio, azioni automatiche e di stimolo-risposta, che nel tempo lungo rischiano di danneggiare le capacità di apprendimento, dal momento che tendono a limitare «l’attenzione selettiva», il precursore della memoria. Altri videogiochi, però – soprattutto quelli che richiedono strategia, riflessione e costruzione di mondi possibili, quali Crash Bandicoot, Spyro, Super Mario, Sim City, Age of Empire – plasmano la mente in maniera del tutto opposta: sviluppano, cioè, l’attenzione selettiva, la «riserva cognitiva». Recenti studi neurofisiologici dimostrano come le attività intellettuali di svago diminuiscano fino al 60% il rischio di malattie neurologiche quali Alzheimer, demenza senile, depressione senile. Uno studio longitudinale condotto su residenti in comunità per anziani ha correlato direttamente le attività come la lettura, la scrittura, le parole crociate, o giochi da tavolo e il gioco delle carte, l’ascoltare musica – in ordine di rilevanza preventiva e di frequenza di svolgimento – con la prevenzione del decadimento cognitivo. E il dato per noi più interessante è quello che testimonia come la riserva cognitiva si costituisca nella prima infanzia, e perciò l’«intelligenza» dei giocatori si sviluppi secondo una modalità nuova e del tutto originale, rispetto a noi nativi Gutenberg. «Videogiocare» per esempio a Crash Bandicoot, Spyro o ai Sims, implica una attenzione selettiva e proattiva costante, la ricerca abduttiva di soluzioni a problemi che via via si manifestano nel gioco, la cooperazione (on line o in presenza) con il gruppo dei pari – ormai si gioca on line con altri «umani», e non solo in maniera solipsistica contro la macchina – insieme alla sperimentazione di ruoli differenti all’interno del contesto del gioco. L’imprinting precoce a queste modalità cognitive e di interazione sociale non potrà non influenzare il modo di vedere e costruire il mondo dei nativi. I videogiochi rappresentano cioè un trastullo molto serio che attiva stili cognitivi, comunicativi e di relazione del tutto nuovi rispetto alla nostra esperienza del mondo analogica e gutenberghiana. Un approccio alla conoscenza e ai saperi che può essere descritto efficacemente in uno schema oppositivo nativi digitali/immigranti gutenberghiani (Tabella 1).
Ma i videogiochi sono solo la punta di un iceberg, il primo contatto dei nativi con gli schermi. I digital natives, infatti, hanno a disposizione una grande quantità di codici e di strumenti di apprendimento e comunicazione formativa e sociale: dai social network come Facebook, Netlog, Habbo a MSN Messenger, al telefono cellulare, ai siti di file sharing e condivisione dei contenuti on line. Inoltre, un comportamento di appropriazione mediale molto frequente presso i digitai natives è il multitasking: fanno i compiti, cioè, mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con il gruppo di pari attraverso Messenger o i social network – nel frattempo il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Noi adulti gutenberghiani cerchiamo sempre un «manuale», una traccia lineare e alfabetica che ci guidi, o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarci a esso. I digital natives no: non è detto che sia un fattore positivo, ma è un fatto. Apprendono per esperienza, un deweyiano learning by doing inconsapevole. Costruiscono la loro esperienza non linearmente ma per successive approssimazioni, secondo una logica che è più vicina a quella «abduttiva» di Pericle, che non a quella induttiva di Galileo o a quella deduttiva di Aristotele, che invece caratterizzavano lo stile di esperienza gutenberghiano.
Da questo punto di vista i nativi hanno un approccio naturalmente molto più pragmatico, personalizzato, e meno dogmatico del nostro alla comunicazione e al sapere. Un approccio che modella anche i differenti campi di esperienza sociale, comunicativa e formativa: i nativi sperimentano direttamente e naturalmente la pedagogia dell’errore e del trial and error, più che un approccio storico o sistematico e sequenziale alla conoscenza come il nostro.
Inoltre la condivisione con i pari, la cooperazione, l’utilizzo di differenti approcci al problema dato, e di molteplici codici e piani di interpretazione per risolverlo, li differenziano radicalmente rispetto a noi. Si tratta di un approccio «open source» e cooperativo agli oggetti culturali che è ben rappresentato dal modo in cui i giovani condividono la musica, il sapere e le esperienze on line attraverso i più diversi strumenti di comunicazione tecnologica (MSN Messenger, Wikipedia, Skype, l’iPod e il podcasting, i blog). Non siamo in presenza di un fenomeno marginale, ma di una tendenza che sta diventando – se non lo è già – mainstream. In media, oltre il 90% dei giovani europei usa Internet e gli schermi digitali interattivi e centinaia di milioni di adolescenti e preadolescenti, almeno nei paesi sviluppati, videogiocano, hanno un sito, un blog, una loro identità on line sui social network come Facebook o MySpace. I nativi sono simbionti strutturali delle tecnologie, e navigano e condividono contenuti e sapere attraverso la rete con i loro pari.
E con questa «specie in via di apparizione» che dovrà confrontarsi l’industria culturale, a partire da oggi e per tutti gli anni a venire… e non si tratta di «nuovi barbari», sono semplicemente dei diversi. Sono loro i «consumatori» o meglio i «prosumer» dell’industria culturale di domani. Solo comprendendo i loro nuovi stili di «accesso» al mercato digitale della cultura e della comunicazione sarà possibile la definizione di nuovi modelli di business. Solo osservando attentamente gli stili comunicativi e di fruizione dei «nativi» sarà possibile ridefinire le tipologie di prodotti, i contenuti e asset digitali che avranno successo: i nuovi bestseller, e i flow di questo segmento del mercato dell’industria culturale. Restano solo due domande: gli autori e i professionisti dell’editoria e dell’industria culturale italiana sono consapevoli e attrezzati a gestire questa rivoluzione cognitiva della readership. Gli operatori e i decisori sono consapevoli della distanza sempre più grande che separa gli stili di produzione e progettazione dell’industria culturale dai nuovi stili di fruizione dei «nativi digitali»? La risposta è aperta ma, per parafrasare Philip K. Dick in Ubik, «I nativi digitali sono vivi, noi stiamo… invecchiando».