I dialetti sono una delle ultime scommesse del mercato editoriale e, a guardare le classifiche, rivelano un alto indice di redditività. In principio fu Camilleri, con il suo siciliano vigatese usato come grimaldello con cui convincere i lettori dell’accesso a un mondo appartato di sapori, usanze, ritualità, segreti. Poi toccò a Salvatore Niffoi usare termini e giri sintattici propri della sua terra per dipingere situazioni, atmosfere, sentimenti che in italiano non troverebbero espressione. La vivacità delle isole è contrappuntata da altre enclave linguistico-tematiche, e da un diverso uso del dialetto come strumento di caratterizzazione espressiva.
«come si dice in sardo, “libbru” o “liburu”?» si chiedeva, alla Fiera del Libro 2008, il direttore della trasmissione radiofonica Fahrenheit Marino Sinibaldi. Si dice «libbru» in gallurese, sassarese e tabarchino e «liburu» in campidanese, logudorese e nuorese e, «libbru» o «liburu», significa libro. Alla Fiera del Libro di Torino lo stand degli editori sardi esponeva i dizionari dei diversi dialetti dell’isola, guide necessarie per entrare a pieno titolo in volumi, appunto, che si fregiavano di titoli come In su cielo siat (traduzione non ostica, dal «Padre Nostro») di Anna Castellino, oppure Ocros e Caratzas (Occhi e Maschere) di Giovanni Dettori e Roberta Sotgiu. Opere di nicchia? In tal caso, non per vocazione, perché i dialetti sono, semmai, una delle ultime scommesse del mercato editoriale.
In principio fu Camilleri… Risale a quindici anni fa, con La forma dell’acqua, il primo dei romanzi editi da Sellerio, l’entrata in scena del commissario Montalbano e l’apparizione di Vigata, il paese immaginario che sta a Camilleri come Macondo sta a Garcia Màrquez e l’ideale Obaba sta al basco Bernardo Atxaga. Quindici anni dopo, dieci milioni di copie vendute dall’oggi ottantatreenne scrittore di Porto Empedocle. Città che, per rendergli omaggio, dal 2003 ha aggiunto al proprio nome quel «Vigata» con cui è ribattezzata sulla pagina scritta.
Se a Camilleri è toccato in sorte di cambiare da vivo la geografia, per via toponomastica, come succede in genere post mortem – vedi il San Mauro di Romagna diventato San Mauro Pascoli vent’anni dopo la scomparsa del poeta – è certamente grazie alla serie tv con Luca Zingaretti, insomma grazie alla potenza della televisione. Ma il suo successo in termini di copie vendute è dovuto – molto – al suo uso del dialetto siciliano, il grimaldello con cui convince noi lettori che, leggendolo, ci sta facendo entrare in un mondo appartato, un forziere di sapori, usanze, ritualità, segreti. Tesori propri della Sicilia, non rinvenibili in altri luoghi. E vero dialetto quello che Andrea Camilleri usa? Lui stesso spiega che la sua è una lingua d’invenzione, plasmata su quella parlata dai siciliani emigrati in America, forgiata sull’agrigentino, tra gli idiomi siciliani il più simile all’italiano, e duttile, cioè più chiusa in sé quando scrive romanzi storici, più aperta alla lingua nazionale quando scrive gialli, per lettori cui interessa anzitutto la trama.
La maestria con cui il coltissimo Camilleri padroneggia lo strumento che l’ha fatto diventare un re del bestseller, diviso oggi tra Sellerio e Mondadori, dice già in sé parecchio sull’attuale «redditività» delle lingue un tempo parlate dai ceti diseredati.
Dall’isola Sicilia, torniamo all’altra isola, la Sardegna. Chissà se è un caso che in un’altra regione circondata dal mare sia maturato l’altro botto editoriale, quello di Salvatore Niffoi. Nato a Orani, dove tuttora risiede, provincia di Nuoro, Barbagia, classe 1950, ex insegnante di scuola media, esordio con una casa editrice locale, Solinas, poi alcuni titoli pubblicati con un’etichetta fucina della nuova narrativa sarda, Il Maestrale, infine assunto nell’empireo Adelphi. E con La vedova scalza, romanzo che vince nel 2006 il premio Campiello, che Niffoi raggiunge il suo top di copie vendute, centoquarantamila. A differenza del bonario Camilleri, Niffoi non ammette di usare il dialetto come esca per il lettore. Lui, spiega, usa termini come «lados», «leppa», «cosinzos», ma anche dei giri sintattici tipici del parlato della sua terra, per dipingere situazioni, atmosfere, sentimenti che a suo dire in italiano semplicemente non troverebbero espressione. Bravo Roberto Calasso, allora, a fiutare che certi scenari insulari feroci, e questa lingua in teoria criptica per chi barbaricino non è, sarebbero stati in grado di trasformarsi in oro. Anzi, in «oru».
Per costume le regioni sono presenti in forze, coi propri stand, alla Fiera torinese. I metri quadrati, al Lingotto, costano cari, e i soggetti istituzionali spendono con meno oculatezza e meno ansie dei privati. Ma nel 2008 la Regione Sardegna ha effettuato un’operazione espositiva tutt’altro che burocratica. Lo stand, infatti, era accompagnato da una vistosa campagna pubblicitaria sui quotidiani: a tutta pagina, fotografia multicolore di una pila di romanzi e un «Grazie» ai relativi autori che in ordine alfabetico, da Francesco Abate a Bachisio Zizi, sono cinquantaquattro. Slogan: «Sardegna. L’isola dei libri».
Ora, non tutti gli scrittori elencati puntano sulla propria «sardità»: per una Milena Agus, un Flavio Soriga, un Salvatore Mannuzzu, un Niffoi appunto, che dalla «sardità» partono, in modo più stentoreo o più autoironico, nella pila si annidava, poniamo, un Nicola Lecca che – classe 1976 – da Cagliari è scappato e si è rifugiato nientemeno che in Islanda. Da dove scrive pagine in cui un termine come «cosinzos» sembrerebbe un refuso tipografico.
Ciò che è interessante, però, è il connubio «sardità»-cultura, individuato come parola d’ordine dalla Regione. E un binomio che l’isola sta esplorando a tutto campo: da Gavoi a Seneghe a Berchidda vi cresce il numero di festival dedicati al racconto, alla poesia, alla musica, mentre l’esordio nella fiction di Enrico Pitzianti e il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, ispirato a una storia di Michela Murgia, hanno fatto titolare i giornali – esagerando – su un «Nuovo cinema Sardegna».
La «sardità», cioè il sapore regionalista espresso col ricorso al dialetto, si intreccia poi con altri filoni economicamente propizi: il noir, per esempio, che Mannuzzu, ma anche Marcello Fois, Giulio Angioni, Giorgio Todde, declinano a proprio modo, come strumento per indagare una realtà isolana misteriosa, in modo da far salutare da alcuni – ne scriveva a gennaio 2008 «Librando», periodico della Carlo Delfino editore – l’avvento di una scuola sarda del noir.
Questo genere ci porta su un’altra pista regional-dialettale: il giallo bolognese, fiorito nuovamente dentro il «Gruppo 13» di Carlo Lucarelli, alla cui fortuna, negli anni passati, ha contribuito insieme ai nebbiosi scenari padani la tipica pastosità linguistica locale.
Che, al di là dei singoli autori e singoli testi, esista un filone, si deduce, in genere, da una controprova: se altri cercano di imitarlo. Ecco i genovesi Fratelli Frilli che tentano il successo con i «Noir liguri», collana nei cui titoli abbondano termini come «creuza» e simboli evidenti, come «focaccia» e «basilico».
Diverso il caso d’un dialetto che, per antonomasia, viene da considerare lingua letteraria, il napoletano. Esso, citato con levità, contribuì al successo, negli anni settanta, della serie di Bellavista di Luciano De Crescenzo. Ma, sia perché sdoganato allora, attraverso De Crescenzo anche in televisione, sia perché già di per sé popolarissimo, grazie al teatro di Eduardo e alla tradizione melodica, il napoletano non sembra, ora, in grado di aprire forzieri di segreti appetibili dal grande pubblico.
Esso è protagonista piuttosto di un altro fenomeno che tocca i dialetti: di stile anziché di cassetta. Cioè il loro ritorno sulla pagina grazie a scrittori che, però, di essi non si fanno un marchio: sono l’abruzzese usato da Dacia Marami in Colomba, l’italo-albanese che conquista una forma scritta nei romanzi di Carmine Abate, l’avellinese impiegato da Emilia Bersabea Cirillo nell’Ordine dell’addio e, appunto, il napoletano in forma di mitraglia trascritto da Elena Ferrante nell’Amore molesto e da Domenico Starnone in Labilità. In questi casi il dialetto (o vera lingua, come l’arbèresh di Abate) è uno dei tanti strumenti e, nel testo, segnala un’epoca, un luogo, un’età, cui lo scrittore ha accesso solo usando un altro idioma.
Sono passati vent’anni non inutili da quel 1988 in cui, in sede di premio Viareggio, Giorgio Caproni e Giovanni Giudici contestarono l’assegnazione del riconoscimento a Raffaello Baldini, perché i suoi versi scritti in romagnolo erano a parere del primo scritti «in una lingua ignota» e a parere del secondo dopati, artificiosi, come se il poeta «avesse nuotato con le pinne».
Il mercato ha voglia di Commedia dell’Arte. Appetirebbe un Balanzone e un Pulcinella, una Colombina e un Capitan Spaventa, tante fortunate maschere – insomma scrittori in dialetto – quante sono le nostre città? Gli editori hanno una miniera in cui cercare: l’Italia, certifica Tullio De Mauro, è il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa, ha una presenza ancora viva dei dialetti entro il 60% della popolazione e ha quattordici minoranze linguistiche di antico insediamento. Anticorpi potenti contro la lingua televisiva e l’inglese da computer. E allora noi stiamo qui, pazienti: aspettiamo il prossimo bestseller scritto in ciociaro.