Dylan Dog, orrori dal postmoderno

Dylan Dog ha rinnovato la concezione del fumetto seriale avvalorando presso un pubblico nazionalpopolare la disinvoltura e la fantasiosità narrativa dell’avanguardia fumettistica contemporanea. Campione di postmoderno «dal basso», si muove tra diversi generi, registri e linguaggi, con una derivazione smaccata delle fisionomie dalla memoria cinematografica comune, tra atrocità sanguinarie e catarsi ridicolizzante. In vent’anni di uscite in edicola, il fumetto ideato da Tiziano Sciavi che racconta per immagini le avventure dell’«indagatore dell’incubo» è diventato un’opera di culto; la sua formula paradossale ha fatto scuola; ma non ha trovato sinora continuatori altrettanto originali.
 
Dylan Dog costituisce una delle manifestazioni salienti e più tempestive della narrativa postmoderna italiana, di efficacia estetica non inferiore rispetto ai suoi capisaldi letterari: Il nome della rosa di Umberto Eco (1980) e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979). Non a caso il professor Eco ha mobilitato tutta la propria sottigliezza di intellettuale-scrittore a sostegno del fumetto concepito da Tiziano Sciavi, diffuso in edicola dall’ottobre 1986. In «Dylan Dog» si ritrovano molti dei tratti che contraddistinguono le opere assegnate alla cosiddetta postmodernità: citazionismo, ironia, double coding, intertestualità, ibridazione dei generi, metalinguaggio. Esso inoltre si colloca con piena disponibilità in un sistema mediatico fluido: è dotato di un’elevata propensione all’intermedialità, è in grado di mettere a frutto spunti ed elaborazioni provenienti da molteplici ambiti espressivi, sia dalla storia dei mezzi artistici e letterari istituzionali sia dalle sperimentazioni dei mezzi culturali di massa.
Al contrario di Eco o Calvino, tuttavia, Sciavi agisce principalmente in un comparto produttivo – il fumetto – cui viene durevolmente negato ogni titolo di decenza estetica. Per giunta l’opera sclaviana di maggior impatto, «Dylan Dog» appunto, si affaccia sulla pubblica scena nel solco della serialità sempre perseguita dall’editore Bonelli, mentre si stanno avviando a un lento declino i vettori editoriali sino allora prediletti dal fumetto più consapevole e coltivato: riviste come «Linus», «Alter», «Il Male», «Frigidaire». Proprio in concomitanza con l’affanno della sperimentazione fumettistica di marca autoriale, Sciavi raggiunge i suoi risultati creativi migliori all’interno di un circuito produttivo popolare: imperniato sul lavoro d’équipe, sulla centralità del personaggio, sulla modularità fissa delle tavole e della sintassi grafico-narrativa, sull’uniformazione merceologica, votato insomma a un conservativismo quasi artigianale.
Il postmoderno di Sclavi, dunque, si contraddistingue per aver elevato una classe fumettistica di estrazione popolare a un livello di complessità non lontano dalla produzione di ricerca, senza perdere la capacità di comunicare con un insieme di lettori assai largo. Se in territorio romanzesco i Calvino e gli Eco si impiegano per ripristinare, su basi nuove, la leggibilità dell’opera letteraria, in territorio fumettistico Sciavi sa conferire all’albo popolare una smagatezza compositiva e uno spessore culturale inediti. In casa Bonelli, egli riesce a introdurre e adattare il fermento che proprio l’antecedente stagione del fumetto d’autore, tra gli anni settanta e gli ottanta, aveva sviluppato con proposte tanto disparate e discontinue quanto folgoranti.
L’albo bonelliano è costruito in maniera ferrea, con la didascalica costanza che già ha garantito a Tex Willer, l’altro pilastro dell’editrice milanese, il suo longevo e perdurante successo. Bene, in questa famiglia fumettistica impostata sulla riconoscibilità e la perpetuazione di formati forme figure, sulla consecuzione evidente della vicenda e sulla stabilità iterativa dei caratteri, Sciavi ha inoculato elementi inauditi di sofisticazione intellettualistica. La sua abilità si è manifestata nel confermare i tratti di ripetizione rassicurante e finanche barbosa del fumetto più standardizzato, proprio nel momento in cui vi produce incisivi effetti di perturbamento narrativo e concettuale.
Episodi di «Dylan Dog» come Cagliostro!, Memorie dall’invisibile, Golconda!, Ai confini del tempo, Storia di nessuno o il più fresco Ascensore per l’inferno – per menzionare alcuni degli albi dove l’assetto straniante del racconto appare assai spinto – sono giocati interamente sulla moltiplicazione dei piani di realtà, sullo scombussolio delle coordinate logico-temporali o dei registri di rappresentazione. Nella quiete di casa Bonelli, Sciavi e i suoi numerosi coautori sono in grado di raccontare quelle storie «a forma di elefante, campo di grano o fiamma di cerino» di cui predicava Moebius a metà degli anni settanta, dalle pagine di «Metal Hurlant», all’insegna di un intransigente sperimentalismo. Né suona troppo bizzarro che Sciavi, cultore della storica rivista francese «Pilot», ossia di un fumetto costruito sul primato della sceneggiatura organica e distesa, sia pervenuto a soluzioni per certi versi analoghe a quelle di Moebius e degli altri Humanoides Associés, che contestavano proprio «Pilot» e l’oliata pianificazione della sceneggiatura.
Come in Francia gli Humanoides Associés, in Italia i Pazienza Tamburini Mattioli Scozzari perseguivano modalità di racconto grafico svincolate dalle regolari cadenze della trama strutturata e della serialità editoriale, sondavano le possibilità fumettistiche di evocazione lirica, di lunare ironia, di invenzione fantascientifica o deformazione grottesca, svariando estrosamente in una gamma di toni inesplorati. Il linguaggio della narrazione iconico-verbale attraversava con loro una fase intensa di diversificazione e arricchimento, acquisiva modi e forme che rispondevano essenzialmente a una rivendicazione di autonomia estetica dell’autore individuo, alla necessità di riconoscere appunto la sua autorialità e con essa la piena valenza artistica delle «nuvole d’inchiostro».
Forti della nuova sensibilità verso il fumetto incubata da «Linus», gli autori più avvertiti puntavano a oltrepassare di slancio le forme invalse e consuetudinarie dell’editoria di settore, risolvendosi spesso a diventare editori di se stessi. Inevitabile che simili iniziative, così prodighe nell’esaltazione della ricerca espressiva, rischiassero di avere vita grama quanto a tenuta economica, e patissero quindi prospettive limitate di diffusione, durata e sviluppo. Sul finire di questa stagione, Tiziano Sciavi ne fa proprie le istanze oltranzistiche e visionarie e le riversa in «Dylan Dog», cioè in un prodotto che deve restare programmaticamente ancorato agli schemi della pubblicazione seriale, al protagonismo riconosciuto di un personaggio, a modi reiterativi di caratterizzazione e racconto. E questa la via che gli consente di partecipare a un pubblico nutrito, sino al mezzo milione di acquirenti mensili, quel che il fumetto aveva maturato negli anni intercorsi tra «Linus» e «Frigidaire».
In una cornice di indole giallistica, saldamente fondata e ribadita a rischio dello stereotipo, Sciavi innesta una serie di tratti desunti da una molteplicità di codici e generi tipizzati: sovente altrettanto ridondanti, ma non sempre compatibili tra loro né, soprattutto, coerenti con il profilo basilare del detective privato a cui Dylan Dog si rifà. Ecco allora le diverse gradazioni del terrore e dell’orrido, l’esitazione protratta del fantastico, le trovate del motto di spirito, l’eccitazione erotica, il pathos sentimentale, l’interrogazione esistenziale, il dramma psicologico, l’apologo sociale. Pur rispondente alle coordinate prioritarie della ricostruzione poliziesca e della fantasia orrorifica, anzi proprio a partire da questa duplicità di fondo, una simile miscela non può che approdare alle ambivalenze del grottesco e dell’assurdo.
D’altronde le combinazioni antirealistiche e gli incroci tra generi, subordinati al principio essenziale dell’eroismo avventuroso, appartengono a gran parte della precedente produzione Bonelli: da Zagor a Mister No a Martin Mystère. Il fatto è che in Dylan Dog simili procedimenti di mescidanza dei registri e delle convenzioni diventano fulcro del racconto, dinamizzano ulteriormente la scansione narrativa per sequenze alternate, e richiedono al lettore l’assunzione di un’ottica ironica: che in parte è desunta e condivisa dallo stesso protagonista, in parte va esercitata «oggettivamente» sulle sue avventure, a meno di restare storditi dalla giostra avvolgente degli sbalzi di tono e di genere.
Una funzione fondamentale è svolta in questo senso dal comprimario di Dylan Dog, il suo amico-assistente Groucho Marx, che fomenta un umorismo scapestrato, affatto spiazzante rispetto al nerbo drammatico o tragico delle vicende. L’evocazione delle ossessioni orrorifiche più feroci è contraddetta ed esorcizzata dalle insorgenze comico-ironiche di cui Groucho si fa paladino logorroico e che lo stesso Dylan Dog interpreta con più stemperata sprezzatura. Da questo punto di vista sono tanti i personaggi, anche minori o occasionali, che si riservano un momento di arguzia: a denotare una componente capitale e capillare della serie. L’iperbolismo sovreccitato dell’orrore è pressoché simmetrico allo scorno ridanciano dello straniamento. Ciò funziona almeno fin quando non prevalgono limitazioni censorie o autocensorie di ordine moralistico, quali sono state esercitate sul fumetto di Sciavi già pochi anni dopo l’esordio.
La collana di delitti, catastrofi, enormità snocciolata da Dylan Dog delinea la nostra apocalisse quotidiana: ma il suo ideatore l’ha detto e ripetuto: «il mostro c’est moi». O meglio, i mostri siamo noi: le psicologie, i comportamenti e i tipi sociali della contemporaneità sono caricaturati nelle figurazioni metaforiche dell’orrore. Sicché il panico attinge una sublimazione tragica, ma per sciogliersi nella satira ovvero nell’autoironia. Benché incline talora all’elegia nichilista, secondo quanto richiede la sua aura romantica, è lo stesso «indagatore dell’incubo» che fornisce un antidoto alla normalizzazione apocalittica: perlopiù in forma di sovvertimento umoristico-grottesco, ma anche nella fattispecie della pietas amareggiata. Eroe tutt’altro che d’un pezzo, squattrinato e vegetariano, soggetto a diverse fobie, reduce dall’alcolismo e dal servizio nella polizia, esposto alla morte violenta di varie amanti dopo essere quasi riuscito a salvarle, Dylan Dog sopravvive anche perché è capace di immedesimarsi in un’alterità teratomorfa che si rivela infine contigua o addirittura omologa alla presunta normalità, non senza echi del principio freudiano di reversibilità dei moti psichici.
Nella qualifica professionale di Dylan Dog, impegnato a chiarire casi misteriosi e terrificanti al limite del soprannaturale, sta già tutto il senso del paradosso su cui poggia la sua fama: «indagatore dell’incubo» è poco meno che una contraddizione in termini. L’inquadramento investigativo rispecchia il poliziesco classico: il detective è dotato di bella prestanza fisica, fascino virile, coraggio e moralità senza macchia, di un braccio destro con il quale condivide l’abitazione e la vita privata, di buone frequentazioni nella polizia, alle cui indagini spesso collabora. In quanto eroe giallistico, Dylan Dog è chiamato ad analizzare i fatti criminosi e ricostruire un ordine, o per lo meno attribuire responsabilità, chiarire moventi, illuminare le azioni umane secondo un criterio razionale di verità.
Ora, i casi criminosi che si prospettano a Dylan Dog non soltanto sono connotati da un’efferatezza raccapricciante, oltre qualunque verosimiglianza anatomopatologica, ma rientrano espressamente nel dominio dell’incubo: chiamano in causa zombie, vampiri, fantasmi, licantropi, demoni, revenants, Poltergeist, mostri, streghe, scienziati folli, animali magici, cose di altri mondi, insomma tutto ciò che elude le possibilità logico-deduttive del raziocinio, tutto ciò che si sottrae alle categorie etico-conoscitive faticosamente elaborate dall’homo sapiens sapiens. Indagare l’incubo significa in buona sostanza consacrarsi a un’impresa donchisciottesca: Dylan Dog è senz’altro animato da un intento meritorio di comprensione e conoscenza, ma l’esito di scacco della ragione appare scontato a priori. Scettico e religiosamente miscredente, non fa troppo conto neppure del paradigma indiziario, piuttosto si affida a un suo «quinto senso e mezzo»: con il che però ogni irrazionalismo intuitivo o sensitivo è già destituito di credibilità, proprio per la sua stessa formulazione serio-comica.
L’artificiosità della composizione, e quindi l’opportunità di adottare una chiave di lettura ludico-ironica, appaiono subito evidenti nella derivazione smaccata delle fisionomie dalla memoria cinematografica comune: i personaggi esibiscono anzitutto nelle loro fattezze l’autenticità dei simulacri, hanno perciò la facoltà di incarnare i dubbi gnoseologici di consistenza dell’io e insieme denunciare le pretese dell’inautentico attraverso la loro sincera falsità. Proprio Groucho lo attesta con la pertinacia del suo delirante motteggiare: in perfetta mimesi dello spirito «Marx Brothers». Il debito più consistente di Dylan Dog verso il cinema, in ogni caso, rimanda a quei registi che esasperano l’atrocità sanguinaria sino alla catarsi ridicolizzante: Romero, Carpenter, Craven, Hooper, Gordon, Jackson, ma anche Kaufman e Herz della Troma Entertainment.
Il sostrato di origine filmica non rappresenta che il livello più immediatamente percepibile dell’attitudine a riprodurre il flusso di storie e mitologemi che serpeggia tra i diversi bacini dell’immaginario collettivo: letteratura, musica, arti figurative e performative, radio, televisione e altri canali audiovisivi. Ben ferma tuttavia, a dispetto di ogni deriva semiotica, resta la visione moderatamente disincantata di Dylan Dog, che è poi la stessa di Sciavi: la pluralità dei mondi, l’incombenza dell’orrore, la sospensione allucinatoria dell’essere non intaccano, semmai amplificano, l’esigenza di rigorosi criteri morali, rispetto ai quali l’irrisione ludica costituisce un irrinunciabile momento di verifica e una garanzia di falsificabilità.