Quanto vale il mercato mondiale del libro rispetto alla Nestlé, alla Ford, alla Guerra del Golfo? E quanto rispetto al mercato musicale? Consumi culturali e politica, tecnologia e mitologia commerciale, nuovi mercati nati vecchi e mercati in ascesa come Cina e India che non sono semplici terre di conquista, diversamente da quanto si era immaginato. Torna il libro elettronico, ma ha tutta l’aria di un inutile gadget. Il nuovo soggetto editoriale emergente potrebbe essere Google e i motori di ricerca suoi concorrenti: il metaeditore del futuro, il persuasore occulto perfetto, il nuovo snodo nella sintassi del pensiero e della cultura.
I bestseller non cambiano mai; leggiamo per lo più le stesse storie, gli stessi romanzi (M. Korda, 2001; C. Bloom, 2002) da almeno un secolo, e sempre grazie alla stessa tecnologia, quella che abbiamo tra le mani in questo momento. Non c’è che dire: da questa prospettiva l’industria editoriale è stabile come un transatlantico. Anche il cahier de doléances rivolto a politica e istituzioni è sempre lo stesso, a garanzia che se niente cambia, ma il settore galleggia come prima, non c’è da fasciarsi la testa.
Però il volume d’affari (al netto di tasse e margini distributivi) dell’editoria libraria mondiale è di 69 miliardi di euro (IPA, International Publishers Association, 2006). Secondo il Congressional Budget Office del governo degli Stati Uniti, per l’impegno militare americano in Medioriente sono stati già spesi 432 miliardi di dollari, 290 solo per il conflitto iracheno, che nel biennio 2006-2007 ne assorbirà altri 123. Questo è uno dei tanti possibili confronti tra la più grande industria votata alla diffusione del sapere, della conoscenza, e il costo di solo una, la più evidente, fra le «espressioni» prioritarie della politica occidentale.
Sgombrato il campo da ogni possibile deriva ideologica, vediamo il problema da un’altra angolazione per passare a un rapido confronto con il fatturato (sales) dei colossi industriali del mondo: il libro vale all’incirca quanto il fatturato della Nestlé, o della Sony; meno della metà di quello della Ford, un quarto di quello della catena Wal-Mart, la più grande azienda mondiale della grande distribuzione (supermercati), poco più della metà del valore azionario di Google. Beninteso, questo confronto, per quanto insolito, resta all’interno di un «perimetro geografico» con una propria coerenza, visto che il volume d’affari dell’editoria libraria è per lo più transatlantico-occidentale: oggi Cina, India, Africa e America latina pesano sui dati forniti dall’IPA per non più del 15 % circa.
Sempre per rimanere in area transatlantica, l’incontro tra politiche culturali e mondo della politica è sempre stato lo schermo sul quale si sono proiettate, e si continuano a proiettare, le frustrazioni di tutta la filiera editoriale. Il lamento sulla mancanza di sensibilità di ministri e istituzioni per la promozione di libro e lettura si è ormai espresso in tutte le possibili modulazioni, sia in Italia sia all’estero, e per una volta gli facciamo saltare il giro. Si legge poco? È vero. Ma niente dice che verranno tempi migliori.
Un anno prima dello scoppio della bolla tecnologica (autunno 2001) il tecno-millenaristico Bill Gates aveva previsto la fine del libro per il 2020, e già da quest’anno i forti lettori avrebbero dovuto avere un e-book sul comodino; due anni fa un serio e articolato saggio di Philip Mayer (The Vanishing Newspaper), ripreso recentemente dall’«Economist», diceva che la crisi dei giornali è più grave di quel che sembra e per il 2015 ne resteranno pochi; l’ultimo quotidiano potremo acquistarlo nella primavera del 2043: per una serie di complesse ragioni, prime fra le quali una forte flessione della lettura e – va da sé – un Internet che neanche ce lo immaginiamo.
Il pilastro dell’industria culturale gorgheggia. Sempre secondo l’iPA, l’editoria libraria mondiale supera la somma delle vendite di «musica registrata» (33 miliardi di dollari. Fonte: IFPI, 2006), video, dvd e videogiochi per uso privato. Insomma, siamo i più forti, ma non ce ne siamo accorti. Ma non siamo i più veloci. La regina delle industrie culturali è lenta e fa fatica ad accorgersi che comunicazione e cultura stanno girando vorticosamente intorno a lei: se il contesto cambia in modo radicale c’è da capire, informarsi, elaborare strategie, sperimentare. Niente di stravagante: solo quello che stanno facendo molti settori industriali negli ultimi dieci anni.
Le novità dell’annata non sono state eclatanti ma, si sa, non è che il libro abbia molto margine di manovra. In compenso ci sono stati vari avvenimenti che per modalità e contenuto meritano l’onore delle cronache. Il peso economico, il ruolo, la funzione di grandi gruppi editoriali, delle catene librarie così come di piccoli e medi editori è più o meno lo stesso: in Italia come all’estero, le quote di mercato non sono cambiate in maniera importante, e i trend di sempre hanno continuato il loro inevitabile percorso.
Eppure fioriscono e rifioriscono miti vecchi e nuovi, partono crociate passionali con molteplici destinazioni e scarse motivazioni, alcuni mercati restano enigmatici, quelli che dovevano diventare i «nuovi mercati» sono praticamente scomparsi dalla mappa. Al tempo stesso nei territori contigui a quello editoriale prendono vita fenomeni acerbi, ma che non hanno per nulla l’aria di una bolla di sapone (forse, potranno diventare – ma non solo – parte di una possibile bolla azionaria). L’editoria dov’è?
I nuovi mercati
Ha poca importanza stabilire quando ha preso forma il mito dei nuovi mercati: la cosa importante è che bisognava «crederci», che ognuno (ogni editoria) avrebbe avuto il proprio Eldorado librario (grande o piccolo) perché miliardi di persone all’esterno del patto culturale transatlantico avevano bisogno di Noi, del nostro sapere professionale, dei nostri thriller confezionati come i film che già piovevano dai satelliti, dei nostri sillabari e della manualistica scolastica, dei self-help e di Bridget Jones. Oltre il Muro apparivano come per incanto le nuove lande aperte al libro occidentale, territori che andavano ben oltre quelli metaforicamente visibili dell’Europa dell’Est. I nuovi mercati erano praticamente in ogni angolo del mondo: le giovani comunità ispanofone di seconda generazione residenti negli Stati Uniti (e, quindi, una parte dei messicani); la Russia, disastrata, sì, ma da sempre un popolo con il gene della lettura. Poi la Cina, il più grande paese del mondo che iniziava ad aprire agli occidentali le porte per i canali distributivi; e subito dopo l’india, un altro miliardo di persone pronto per un salto socioculturale. E l’America Latina? 180 milioni di brasiliani, quasi tutti giovanissimi, con una capillare rete di scuole che Lula avrebbe sorretto e coccolato. E l’Argentina, che prima della bancarotta era tornata un paese dalle immense possibilità. Anche se con un alto tasso di denutrizione.
Senza dubbio qualche affare è andato in porto; ma niente in confronto alle aspettative. I consumatori dei nuovi mercati non si sono comportati bene con l’editoria occidentale: avevano e hanno pochi soldi e preferiscono il telefonino, la macchina e la tv satellitare. Europa Orientale, Russia, America Latina: risultato zero; non solo pagano pochissimo – quando pagano – per i diritti (visto che i libri «devono» costare pochissimo), ma non hanno una struttura distributiva né librerie. Ispanofoni statunitensi: forse qualcosa si muove anche se molti, ormai, studiano e leggono in inglese; ma solo oggi c’è qualche buona prospettiva, perché lo spagnolo non è stato affatto «colonizzato». Cina: loro stampano per noi, e sempre meglio, ogni tipo di libri; Harry Potter e Grisham, nel caso, se li stampano in gran parte «da soli». India, anglofona, curva del Pil verticale, alfabetizzazione in accelerazione, universitari a gogò, nuove classi dirigenti, rampanti, ambiziose. Menti fini nella ricerca e nella logistica.
L’India è non solo il più recente ma anche il caso più leggibile di come i nuovi mercati esistano, ma siano molto differenti da come sono stati immaginati. Negli ultimi anni, uno dopo l’altro, tutti i grandi gruppi editoriali sono andati a rendere omaggio a Shiva e Vishnu. Sulle tracce del pioniere Macmillan, il primo a espandere l’avamposto nel subcontinente, e quindi di PearsonPenguin, Bertelsmann e Simon & Schuster (che ha aperto una filiale all’inizio dell’anno), anche HarperCollins e Hachette vogliono mettere le mani su un mercato emergente che – a differenza di quello cinese – dovrebbe mantenere quello che promette e in cui ci si può muovere senza lacciuoli commerciali e bavagli ideologici.
HarperCollins, il ramo librario di News Corporation, ha quindi deciso di dare carburante all’esistente filiale indiana con i primi libri in hindi (The Chronicles of Narnia) e in altre lingue locali, e soprattutto attraverso un accordo con il colosso editoriale Thè India Today Group (già partner di HarperCollins India), che distribuisce nelle edicole di stazioni ferroviarie e di bus, negli aeroporti e in 2.000 tra negozi e librerie.
Hachette deve praticamente iniziare da zero e ha già incaricato Peter Roche – CEO di Hachette UK – di portare avanti il progetto. Già a mezza strada di un fitto programma di incontri, Roche ha dichiarato: «Siamo gli unici a non esserci, e l’india è il mercato di lingua inglese a crescita più rapida nel mondo». Certo, ma tutto è relativo.
Infatti non è solo all’inglese che l’editoria internazionale deve guardare. L’età media degli indiani è di poco più di 25 anni (il 36% ha meno di 15 anni), ma l’80% della popolazione vive in zone rurali, con meno di due dollari al giorno. Il tasso di alfabetizzazione, il 62%, è in crescita costante, ma riguarda soprattutto le campagne profonde e le 18 lingue ufficialmente riconosciute. Prime fra tutte l’hindi, parlato come prima lingua da 180 milioni di persone e come lingua franca da 500 milioni di persone, seguito da bengali, télogou, marathi e tamil, ognuna delle quali è parlata da circa 60-70 milioni di persone. L’inglese è una lingua franca per modo di dire, perché è parlato da quasi il 15 % della popolazione, ma meno del 5% – 50 milioni di persone – lo padroneggia al punto da poter essere un potenziale lettore. Statisticamente, quelli reali saranno molto meno. Non si hanno stime su quanti indiani leggano effettivamente in inglese o in altre lingue, ma il mercato vale circa 1,4 miliardi di euro (2004), metà dei quali di scolastica, e il 40% dei titoli è in inglese. Bisogna tener conto che, in India come in tutti i «nuovi mercati», i libri sono molto cari rispetto al reddito medio: nel Subcontinente il prezzo medio dei libri in inglese è da 7 a 10 euro per una novità e da 3 a 5 euro per un tascabile. I libri in hindi o in altre lingue locali costano mediamente il 30% in meno. Se è vero che i consumi di lettura sono in aumento, così come è in crescita tutta la popolazione (1,5 miliardi per il 2050), il lettorato potenziale (non reale) in inglese è al massimo di qualche decina di milioni di persone, ovvero pari a quello di una media nazione europea; un mercato non certo enorme sul quale si stanno scatenando gli appetiti dei mogul dell’editoria mondiale. Infine è da mettere in conto la pirateria, che lavora con la stessa intensità e lo stesso ritmo di quella cinese.
La Cina, intanto, è diventata il secondo mercato mondiale di Internet, con oltre 123 milioni di utenti («Wall Street Journal», agosto 2006). L’equivalente di Amazon si chiama Dangdang.com, è stato fondato nel 1999 e ora è decollato, anche se solo il 15% degli acquisti è effettuato con carta di credito. Ma Dangdang.com continua a crescere, ha rifiutato le lusinghe economiche di Amazon, Yahoo, Google ecc., e vende per oltre 55 milioni di dollari: tanto quanto Joyo, il suo diretto concorrente acquisito un paio d’anni fa da Amazon. Bertelsmann, che aprì negli anni novanta il primo book club in Cina, ha dovuto riconvertire tutte le attività di Bol.com proprio per far fronte ad altri book club autoctoni che stanno crescendo rapidamente. Non è che i cinesi non leggano, quindi, è che hanno già sviluppato una propria filiera editoriale. Un nuovo mercato, senza dubbio. Il loro.
Finanza, politica e bibliodiversità
L’attività di merger & acquisition è stata abbastanza intensa nel 2006 e, soprattutto, ha visto due operazioni eclatanti: nel Regno Unito l’acquisizione della catena libraria Ottakar’s da parte della rivale Waterstone’s, e l’acquisizione dell’americano Time Warner Book Group da parte del colosso francese Hachette Livre. La prima operazione ha messo nero su bianco alcuni importanti principi metodologici per esaminare i criteri di valutazione della concorrenza e, come diretta conseguenza, il principio di «bibliodiversità» – la varietà della proposta culturale – con il quale sono soliti sciacquarsi la bocca i pasdaran dell’editoria-di-una-volta. La seconda operazione rappresenta, per certi versi, l’altro lato della medaglia: ovvero come l’antitrust possa essere un concetto volatile e plasmabile da chi ha potere e denaro.
Il 3 luglio scorso Ottakar’s, la terza catena libraria del Regno Unito, è stata acquisita dal gruppo HMV – proprietario di Waterstone’s, seconda catena del paese. L’operazione, trascinatasi per quasi un anno, ha alimentato un dibattito tenuto vivo da tutti i principali quotidiani nazionali. La questione non riguardava semplicemente una posizione dominante sul mercato. Lettori eccellenti e autorità della cultura sostenevano che l’assortimento delle due catene era differente per qualità e che la fusione avrebbe appiattito l’offerta sul modello di Waterstone’s, che aveva razionalizzato la gestione, centralizzato gli acquisti, eliminato titoli ed editori a bassa rotazione e ridotto lo stock: una politica gestionale adottata da quasi tutte le catene librarie. In un ben argomentato documento che ha richiesto sei mesi di valutazioni e indagini, l’Office of Fair Trading (OFT) ha cercato di individuare con quali criteri si possa valutare la varietà dell’assortimento – la cosiddetta bibliodiversità -, la reale concorrenza e competitività tra librerie, anche tenendo conto dei comportamenti di acquisto del cliente medio, del ruolo dello sconto, del servizio, eccetera. Niente, dalla varietà di titoli/autori/ editori in offerta, alla vicinanza tra librerie delle due catene (Waterstone’s era più «scontista» di Ottakar’s), poteva in effetti essere una minaccia per la «bibliodiversità». Dati alla mano. E la quota di mercato delle due catene unite non avrebbe superato i limiti consentiti. Anche sulla base di questo documento la Competition Commission (l’autorità antitrust) ha dato il beneplacito a un takeover ostile di 91,7 milioni di euro. La questione ora è: la nuova supercatena, che vede sotto la stessa holding le 195 librerie Waterstone’s e le 140 ex Ottakar’s, riuscirà a competere con i retailer on line – Amazon primo fra tutti – e con l’aggressiva politica scontista della grande distribuzione? Se lo chiedono in molti. Waterstone’s aveva una quota di mercato del 16% nel 2001, scivolata inesorabilmente verso il 14% registrato nel 2005; inoltre, nei primi quattro mesi del 2006 le vendite hanno subito una flessione del 5%. Ottakar’s, 8% delle quote di mercato, non se la passa meglio: il valore sul mercato azionario è crollato in pochi mesi, tanto che l’acquisizione si è conclusa a 33,6 milioni di sterline in meno della prima offerta avanzata da HMV nel settembre 2005. A marzo, Ottakar’s aveva annunciato perdite di 4,6 milioni di sterline che, comparati ai 6,9 milioni di sterline di profitti registrati giusto un anno prima, rendono evidente un forte stato di sofferenza. Ottakar’s doveva mantenere il proprio nome ma il rebranding è iniziato lo scorso ottobre e il marchio acquisito scomparirà del tutto.
Ora il Regno Unito ha una supercatena «di qualità», che lavora con un gestionale molto sofisticato, è presente – grazie all’acquisizione di Ottakar’s – in molte città mediopiccole di provincia e dovrebbe avere un più forte potere contrattuale con gli editori. Eppure la spirale degli sconti non sembra avere fine nel mercato inglese. Praticamente tutte le top ten settimanali sono occupate da tascabili e mass market in offerta, mediamente al 50% (si parla di libri nuovi). La gdo dichiara profitti in crescita; le librerie – anche le supercatene – assicurano di essere molto preoccupate e di aspettarsi un Natale 2006 drammatico per le vendite. Gli editori dicono che va tutto bene, anche se è proprio su di loro che ricade l’onere dei sovrasconti offerti alla gdo, l’acquisto di vetrine e classifiche all’interno delle librerie (pagate salatissime) e parte dei sovrasconti offerti per le promozioni in libreria. Di novità in hardcover se ne vendono poche, ma le promozioni fanno vendere più libri. Molti più libri, prevalentemente paperback. C’è qualcosa che non torna. Si vendono così tanti tascabili superscontati da far tornare i conti? Sono queste le naturali evoluzioni di un mercato a prezzo libero o si è creato un vortice competitivo anomalo? Per adesso il mercato non scricchiola, e i grandi editori, quelli che possono gestire al meglio le promozioni, tengono bene. Che sia questa l’alternativa ai mercati regolamentati dal prezzo fisso?
Passiamo negli Stati Uniti, un altro mercato a prezzo libero, quasi privo di tutti questi turbamenti, ma infinitamente più grande.
Lo scorso febbraio, Time Warner Book Group, il quinto gruppo librario statunitense, è stato acquisito da Lagardère per 537,5 milioni di dollari, facendo diventare Hachette Livre il terzo editore mondiale di varia per fatturato, spalla a spalla con Random House, Penguin e gli altri giganti del settore. Hachette è leader incontrastato in Francia, ben piazzato sui mercati ispanofoni (Anaya), e ancor più nel Regno Unito.
Arnaud Lagardère – subentrato al timone del gruppo dopo la morte del padre Jean-Luc nel 2003 – non ha mai fatto mistero di essere sedotto dal gigantismo, dall’idea di un gruppo editoriale che abbracciasse il mondo intero. Arnaud iniziò nel 2003 con il tentativo di prendere pieno possesso di Vivendi, ma l’autorità antitrust europea gli permise di comprarne solo una bella fetta; più recentemente, nel 2004, non ebbe esitazioni ad acquisire il gruppo editoriale Hodder Headline, ceduto da WH Smith (leader del retail inglese, prima catena libraria per fatturato) per ripianare i conti. Sbarcando nel Nuovo continente diventa numero uno anche nel Regno Unito perché Warner Book e Little, Brown – le due sigle più importanti – hanno i piedi su tutte e due le sponde dell’oceano e in Australia, un portafoglio di autori bestseller come Michael Connelly e James Patterson, numerosi autori «letterari» e linee editoriali che spaziano dai ragazzi alla manualistica, dal rosa agli illustrati. Alcuni analisti vedono nei piani del giovane Arnaud la possibile acquisizione di Simon & Schuster, ramo librario del gruppo americano Viacom, da anni in cerca di un acquirente e ultimo editore americano a non essere in mani europee. Lagardère, che è già leader mondiale dell’editoria periodica (HachetteFilipacchi), vuol diventare uno dei re mondiali dei media, ma non è ancora chiaro perché, quando i mogul dell’editoria cercano in tutti i modi di differenziare gli investimenti, Lagardère si concentri proprio sull’editoria libraria.
L’espansione nel mercato statunitense, del resto, segue le tracce di Bertelsmann, Pearson, Holtzbrinck, ai quali l’editoria americana ha già venduto quasi tutti i gioielli di famiglia. Hachette Livre realizza il 60% del proprio fatturato (2,1 miliardi di euro circa) all’estero, ma resta anche in patria un gigante senza concorrenti: Editis, il primo diretto inseguitore, fattura un terzo, e non ha attività all’estero; gli altri gruppi francesi fatturano sette volte meno. E dire che l’antitrust europea si era applicata per bene quando Lagardère voleva tutta Vivendi. Ne ha preso solo un pezzo, rifacendosi altrove. Che senso ha avuto tutta la bagarre antitrust quando si ha comunque una posizione dominante sul mercato? Bertelsmann, il primo editore del mondo, ha non più del 15% delle quote di mercato tedesche, cioè del suo paese di origine, e mai una posizione dominante in tutti i numerosi paesi in cui è leader.
E-book, una storia infinita
L’e-book è meglio di Terminator: non lo distrugge nessuno, neppure la vergogna del più ridicolo flop tecnologico degli ultimi anni. Se ne parla da quasi un decennio e praticamente di e-book nessuno ne ha usato uno. È un «device», un supergadget tecnologico, bello, elegante, che dovrebbe far gola a schiere di «digerati» (i «digital-letterati») eppure non batte chiodo. Ci investono grandi e piccoli, editori e softwarehouse, giganti dell’elettronica di consumo e outsider. Siamo praticamente alla terza generazione e: niente.
Sony ha messo in vendita lo scorso settembre il suo nuovo reader. Tecnologia nuova sviluppata insieme al MIT (si chiama EInk, i prototipi sono in giro da anni, uno è anche arrivato alla Scuola per librai di Venezia nel 2003). Lo schermo non è retroilluminato, come quello di un portatile: si deve leggere alla luce come un libro normale, alla luce naturale. Contiene una piccola biblioteca (75 titoli), consuma pochissimo; dovrebbe essere compatibile con tutti gli altri file che farebbe comodo scaricare da un computer normale, ma i test sul campo (wsj) dicono che in pratica non è così vero. Se vuoi un libro, lo devi comprare dal sito Sony, così come si fa con l’iPod e la musica da Apple. Costa 350 dollari e Sony dice che è andato subito esaurito, però non dice quanti ne ha venduti, e questo vuol dire una sola cosa: pochi. Sarà il regalo natalizio di ricchi intellettuali newyorkesi? Può darsi, ma in Montana ci arriverà mai? E in Italia?
L’editoria digitale è stata invece affrontata con toni superottimistici al recente meeting promosso dall’Association of American University Presses: bisogna «rendere disponibile quanto più materiale possibile nel minor tempo possibile». Gli interventi che spingono a considerare Google, Yahoo e Microsoft un’opportunità e non una minaccia sono un segnale chiaro di come le University Press americane abbiano sposato il futuro elettronico di libri e riviste. Siamo, insomma, al giro di boa; ora si pensa al «come» piuttosto che al «contro» e si cerca un modello strategico-tecnologico adeguato per gestire le licenze per i libri e testi in digitale. Nella vecchia Europa il colosso tedesco Springer Science si sta muovendo con un modello semplice, pensato per quella categoria di testi che può essere letta su uno schermo. Vedremo. La prima casa editrice tedesca (fatturato di 588 milioni di euro nel 2005, +8,1%) ha infatti deciso di vendere alle biblioteche universitarie e alle aziende la versione digitale delle annate dei suoi periodici scientifici, medici e professionali e delle novità librarie a un prezzo compreso tra i 94 e i 285 euro, dipende da quanto è «grande» l’acquirente. Il fatto veramente nuovo è che agli oltre 10.000 titoli digitali in vendita on line non è imposta alcuna restrizione: si possono condividere, inviare, mettere in un server a disposizione della biblioteca. Per sempre. Davvero si pensa ancora di poter leggere Il Codice da Vinci su uno schermo grosso come un tascabile? Perché o leggi un testo scientifico, e lo fai anche a computer, oppure su un e-book devi poter leggere un superbestseller e avere almeno una parte di quel pubblico. Il 10% basterebbe, qualche milione. Altrimenti non ha senso. In pista, pare, anche un consorzio Panasonic/Amazon; Yahoo; il Borsenverein (l’associazione di editori e librai tedesca, con un progetto sponsorizzato dall’Unione Europea al quale si sta accodando anche la Francia). E Microsoft, che ha stretto un accordo con Kirtas Technologies, la Ferrari degli scanner (quasi una pagina al secondo), quella che ha dato a Google un fondamentale atout tecnologico. A questo punto, la natura stessa del libro elettronico inizia a essere confusa e non si può che procedere per ipotesi. Eccone una.
Google metaeditore
Se la partita tra Google e gli editori dovesse chiudersi adesso, Google avrebbe vinto. Da una parte Google colleziona sempre nuovi processi per infrazione al copyright, ultimi quelli aperti dagli editori belgi e francesi lo scorso ottobre; dall’altra conquista nuovi, prestigiosi partner. Alla fine del 2006 hanno aderito al Google Books Library Project anche la University of Virginia e la Complutense di Madrid (la prima di lingua spagnola), oltre a University of Michigan, New York Public Library, Oxford University, Stanford University, University of Wisconsin-Madison. Come se non bastasse Google sta conducendo un progetto pilota con la Library of Congress, come dire la biblioteca delle biblioteche.
Il modello di business di Google è centrato su due pilastri: massima efficienza e funzionalità del motore di ricerca e vendita di pubblicità – tramite appositi servizi – su quanti più canali possibile. Google è il primo, gli altri rincorrono tutti quelli che contano. Ma Google ha dalla sua molto di più. Finanza: fatturato 2005, 6,1 miliardi di dollari, praticamente tutti dalla pubblicità; capitalizzazione in borsa 124 miliardi di dollari. Insomma, soldi per idee nuove non ne mancano. Pubblico: Google parla a 380 milioni di persone in 35 lingue. Raccoglie informazioni, le ridistribuisce gratuitamente, e offre agli inserzionisti un nuovo modo di pianificare la pubblicità, in maniera autonoma, sulla base di aste, e tutto on line. Senza infrastrutture costose. Il target pubblicitario sono i clienti, e i clienti sono praticamente delle community (ha appena comprato YouTube, per 1,65 miliardi di dollari, un sito che permette a chiunque di mettere on line i propri filmati: 100 milioni di accessi al giorno), e sulle community si può fare pubblicità mirata, efficace, non percepita come invasiva; e Google si sta espandendo anche nelle mail gratuite, nella telefonia e nella tv. Per questo Google sta cercando di creare un collettore in grado di distribuire pubblicità mirata su tutti i media (e di poterne misurare così i risultati). Non è detto che ci riesca, ma per adesso è un passo avanti a tutti gli altri. Il modello di business che sostiene la grande biblioteca virtuale di Google è in questi paraggi, perché parole, sequenze di parole, titoli o argomenti sono facilmente associabili a una pubblicità mirata, un messaggio che può catturare più facilmente l’attenzione. Ma il progetto librario di Google è solo uno dei canali per vendere pubblicità.
È probabile che le centinaia di milioni di giovani scolari indiani, cinesi (e non solo) in un futuro prossimo usino solo Internet. Estratti di libri, filmati, file musicali, lezioni registrate in mp3, il tutto mischiato con una chat, un passaggio sui blog preferiti e una mezz’ora a vedere gratis filmati della natura più diversa. Questo è quello che già si può fare oggi. Cosa ci potrebbe riservare il 2043, quando i giornali saranno andati definitivamente in pensione? Google e i suoi concorrenti stanno riscrivendo le regole del mercato, scrive John Battelle – cofondatore di «Wired» – in un importante saggio (Google e gli altri, Raffaello Cortina, 2006). È possibile – ci mette in guardia – che i motori di ricerca possano trasformare la nostra cultura. Se Internet diventa area di transito di gran parte delle nostre comunicazioni, allora la sintassi e i risultati proposti dal motore di ricerca diventeranno parte delle nostre scelte, il modo con cui poniamo relazioni tra fatti, oggetti, azioni, «il database dei desideri». Allo stesso tempo i motori di ricerca potrebbero diventare metaeditori, metabiblioteche e, perché no, anche metalettori. Chi ci dice che l’india non possa saltare a piè pari la tecnologia-libro e arrivare subito ai contenuti on line?
Ma questo lo sapremo solo nell’ultima edizione dell’ultimo giornale, in un giorno qualsiasi, nella primavera del 2043.