Le direttive europee sul copyright considerano la tutela della proprietà intellettuale condizione necessaria per il successo del mercato interno e per il sostegno agli investimenti sulla creazione e sull’innovazione. Ma se questo obiettivo viene perseguito mediante misure tali da indebolire economicamente istituti finalizzati alla mediazione e alla promozione culturale come le biblioteche? Il «caso» del diritto di prestito e quello del diritto di riproduzione.
Come il Consiglio dell’Unione Europea ha affermato nelle Linee guida per la legislazione e le politiche in materia di biblioteche in Europa pubblicate nel 2000, le biblioteche sono parte essenziale dell’infrastruttura culturale, informativa ed educativa della società, da cui dipendono le garanzie di libertà di espressione e accesso all’informazione ai cittadini senza discriminazioni, la crescita di società multiculturali e la valorizzazione delle culture locali. Sarebbe fuorviante postulare che la gratuità dei servizi bibliotecari di base (principio affermato peraltro nel Manifesto Unesco sulle biblioteche pubbliche) corrisponda a forme di «lucro cessante» rispetto ai diritti di sfruttamento economico degli autori e degli editori.
L’azione delle biblioteche è fondamentale per lo sviluppo democratico dei popoli ed è anche, direttamente e indirettamente, un’azione remunerativa per gli autori e gli editori. Esse infatti contribuiscono al successo e al prolungamento della vita commerciale delle opere pubblicate, tanto con iniziative espressamente mirate alla promozione del libro e della lettura, quanto con la loro attività ordinaria di reference, acquisizione, e organizzazione delle raccolte a scaffale e nei cataloghi in modo tale da facilitarne il reperimento.
Supportano l’istruzione e l’apprendimento permanente, ampliando così la base dei lettori e acquirenti potenziali. Non limitano gli acquisti alle pubblicazioni già note e di sicuro richiamo ma, fin dove arriva la loro autonomia organizzativa e di spesa, selezionano e curano di far conoscere la produzione editoriale di qualità, contribuendo a sostenere l’innalzamento qualitativo dell’offerta e gli autori meno conosciuti.
La natura di servizio pubblico, la gratuità di tale servizio, l’indipendenza e terzietà rispetto alle dinamiche della distribuzione commerciale, la qualificazione e l’etica professionale degli operatori ne fanno attori non sostituibili nei circuiti della mediazione e promozione culturale, in grado di coprire istanze altrimenti destinate a rimanere prive di risposta: quelle dei lettori («a ciascun lettore il suo libro»); quelle degli autori e degli editori («a ciascun libro il suo lettore»); quelle della crescita civile e dell’inclusione sociale. Queste istanze e la loro soddisfazione sono strettamente collegate le une con le altre.
Così, se è vero che il successo di un’opera è determinato in larga parte dal «passaparola» dei lettori, un libro visto o preso in prestito in biblioteca corrisponde non già a un mancato acquisto in libreria, ma anzi a una moltiplicazione delle sue chance di vendita. Se è vero, ancora, che i libri sono «descrizioni di descrizioni», perché le storie che raccontano e i fatti che descrivono attingono sempre a conoscenze registrate altrove, in altre fonti, in altri libri, questo gioco di rimandi può stimolare il desiderio di nuove letture, trasformare un «lettore per caso» in un «lettore forte», e arricchire gli autori di conoscenze utili a produrre nuove opere che arricchiscono il mercato.
Dove poi le biblioteche, il sistema scolastico, le università funzionano e riescono ad adempiere efficacemente la loro missione, il mercato editoriale prospera. Non è un caso che una regione come la Lombardia, ricca di belle e funzionanti biblioteche, dove il prestito di libri costituisce il 25 % del volume nazionale, sia anche la regione che ha la maggiore concentrazione di case editrici. E non è un caso che le statistiche di lettura in Lombardia siano tra le più alte in Italia, paese che del resto in questo campo ha una media tra le più basse in Europa. Se non si assume il superamento di questo divario interno e internazionale come priorità assoluta, qualunque forma di sostegno all’editoria italiana rischierà di avere il fiato corto, né si comprenderà la ragione profonda dell’opposizione delle biblioteche all’introduzione di nuovi ticket sui servizi di base.
AI termine di un convegno dell’Associazione italiana biblioteche che si è svolto il 18 e 19 maggio 2006 su Le biblioteche per la libertà di accesso all’informazione, esponenti delle associazioni bibliotecarie francese, italiana, spagnola e tedesca hanno dibattuto il tema «La gratuità del prestito come diritto e le conseguenze della Direttiva 92/100/CE», e ne sono emersi dati interessanti. Com’è noto, la direttiva (art. 1) riconosce all’autore il diritto esclusivo di autorizzare il prestito della propria opera e di ricavarne un compenso, introducendo però (art. 5) un regime di eccezioni e di esoneri quando il prestito è effettuato da istituzioni pubbliche. La direttiva è frutto di un’iniziativa dei paesi del Nord Europa, che tradizionalmente investono notevoli risorse sulle biblioteche e la pubblica lettura e da tempo prevedono forme di remunerazione agli autori e agli editori per i prestiti effettuati in biblioteca, non tanto a titolo «risarcitolo», quanto allo scopo di rafforzare l’editoria e le lingue nazionali. In molti altri paesi, sempre più numerosi dopo l’estensione dell’Unione alle nazioni dell’Est Europa, vige la gratuità e l’esonero da qualunque forma di remunerazione per il prestito effettuato dalle biblioteche pubbliche, e tuttora questo principio – difeso anche dall’Unesco nel Manifesto del 1994: «In linea di principio, l’uso della biblioteca dev’essere gratuito» – viene rivendicato in particolare dalla Spagna e dai bibliotecari italiani. Proprio la genericità della formulazione dell’articolo 5 della Direttiva 92/100/CE è frutto di una soluzione compromissoria adottata dal legislatore europeo che teneva conto, appunto, delle diverse specificità nazionali, in rapporto a normative esistenti e contesto sociale.
La gratuità del prestito è stata confermata nel 1994 in Italia con la legge di recepimento della direttiva e, nonostante sia in corso una procedura di infrazione avviata nel 2004 dalla Commissione Europea, bibliotecari e biblioteche, nonché molti dei loro enti di riferimento, difendono questa norma e sono mobilitati in una campagna internazionale per la gratuità del prestito in biblioteca. E significativo che la mobilitazione sia particolarmente forte nei paesi dove si legge poco e l’istituzione bibliotecaria necessiterebbe quindi di maggior sostegno.
I paesi dove invece vigono forme di remunerazione del prestito (in Francia, per esempio, la regolamentazione è stata introdotta solo nel 2003, per prevenire le conseguenze di un’eventuale condanna da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea) hanno ognuno un sistema diverso di calcolo e tariffazione, ma nella maggior parte dei casi la distribuzione dei compensi è affidata a società di copyright e tutti concordano sul fatto che le rilevazioni per ripartire i pagamenti sono molto complicate e comportano costi notevoli.
A riprova del fatto che politiche editoriali eccessivamente onerose e l’introduzione di ticket sui servizi bibliotecari di base possono alla lunga sortire effetti controproducenti rispetto agli obiettivi perseguiti, si può esaminare il caso delle biblioteche accademiche.
Un rapporto del 2006 dell’Unione Europea sulle pubblicazioni scientifiche ha evidenziato come, negli ultimi trent’anni e soprattutto fino al 1995, i prezzi di listino siano saliti tra il 200 e il 300% al di sopra dell’inflazione, e come tale impennata non sia giustificata da un parallelo aumento dei costi di produzione, che anzi sono calati grazie alle tecnologie digitali e telematiche. Inoltre, mentre i prezzi continuavano a salire, nell’ultimo decennio sono stati sensibilmente ridotti i finanziamenti pubblici per la ricerca e i budget delle biblioteche. In questo quadro si sono innestati, sulla base della legge 248/2000 e dell’accordo attuativo CRUI-SIAE per il triennio 2002-2004, i notevoli costi dei compensi forfettari dovuti ad autori ed editori per le fotocopie effettuate in biblioteca; tali compensi, stabiliti con criteri di progressività annuale, hanno raggiunto nel 2004 la quota di euro 2,07 per studente iscritto, compresi i fuoricorso. Da tutto ciò è derivata una netta contrazione degli acquisti di libri e riviste.
Oltre alle negative ripercussioni nel breve periodo sulle vendite, alla lunga l’impoverimento delle raccolte delle biblioteche accademiche contribuirà a condannare la ricerca e l’alta formazione, ma anche il mercato editoriale nazionale, al conformismo (perché si acquisteranno solo le opere «immancabili») e alla subalternità culturale nei confronti di altri paesi (quelli maggiormente competitivi nel settore dell’editoria scientifica).
La massiccia adesione delle biblioteche accademiche al movimento per l’Open Access (accesso aperto all’editoria scientifica) e la crescente proliferazione di iniziative editoriali accademiche not-for-profit, con l’obiettivo di riequilibrare il mercato e garantire l’accesso ai risultati delle ricerche finanziate dai cittadini, cominciano a delineare modelli alternativi e sostenibili di circolazione delle conoscenze, e lentamente gli stessi editori scientifici cominciano a rivedere le proprie politiche e a cooperare per la revisione dei modelli di pubblicazione e delle politiche commerciali.
La tutela della creazione intellettuale e dei prodotti dell’ingegno è condizione indispensabile per garantire libertà di espressione, circolazione delle idee, innovazione scientifica e culturale, crescita democratica e sviluppo competitivo della comunità. Per realizzare tali obiettivi è necessario rafforzare e rendere effettive le garanzie di accesso all’informazione e alla conoscenza riconosciute a tutti i cittadini e fatte proprie dai programmi europei per un’economia fondata sulla conoscenza. Allo sviluppo di questa sono preposte infrastrutture di servizio pubblico come le biblioteche, di cui l’industria culturale non può che avvantaggiarsi: soprattutto in una fase di contrazione degli investimenti sulla cultura e sulla ricerca – e in un contesto come quello italiano, che ha ancora un sensibile divario da colmare rispetto ad altre nazioni europee sul piano della qualità dei servizi al cittadino -, gravare sulle biblioteche o sulle loro amministrazioni di riferimento con nuove tariffe non sarebbe una scelta vincente.