Da Scerbanenco e Fruttero & Lucentini a Camilleri e Biondillo il giallo italiano di strada ne ha fatta. Negli anni sessanta e settanta ha superato lo schema logoro del delitto nella camera chiusa e conquistato lo spazio urbano. Poi si è esteso nelle province del paese, portando le inquietudini della modernizzazione in ambienti un tempo consuetudinari. Con le sue procedure intellettualistiche ed emozionanti ha scosso nel profondo la scena romanzesca. Ma soprattutto, allo scadere del secolo, ha dato luogo a una nebulosa di sottotipi in cui convivono forme plurime di narrazione, che ora ne mettono addirittura a rischio la riconoscibilità di genere.
Il giallo ha vinto, dunque. Per qualcuno ha stravinto. E indizi plurimi inducono a sospettare che la partita decisiva, da noi, si sia giocata nel corso del ventennio che va dalla fine degli anni cinquanta alla fine dei settanta: tra il chiudersi vivacemente polemico della stagione neorealista e il declino quasi fisiologico delle nuove avanguardie. Se si escludono gli aspetti editoriali, senz’altro rilevanti ma non al punto da esaurire il fenomeno, tre ordini di motivi sembrerebbero autorizzare una simile cronologia:
1) adesione al poliziesco classico, basato su un’inchiesta a carattere retrospettivo, da parte di scrittori già all’apice della fama o in via di consacrazione (Gadda, Sciascia, Soldati);
2) comparsa di una critica giallistica di tenore non settario, e persino accademica;
3) superamento dello schema del delitto nella camera chiusa (alberghi, treni, set cinematografici) e imporsi nel racconto a detection di tematiche connesse a una modernità urbana perlustrata en plein air.
Nel 1957, l’apparizione in volume del Pasticciaccio gaddiano non resta senza esito presso un ancora malnoto Leonardo Sciascia, che nei mesi subito seguenti dà avvio alla stesura del Giorno della civetta (poi edito nel 1961). A sua volta, il cospicuo successo di pubblico e di critica che accompagna l’opera del siciliano – duplicato cinque anni più tardi con A ciascuno il suo – non sembra estraneo agli umori di Mario Soldati nel porre mano ai Racconti del maresciallo, inizialmente concepiti per la stampa quotidiana quindi offerti da Mondadori nel 1967. Potranno accusare un qualche disagio i puristi del genere giallo, raccolti a difesa di una antica separatezza, e insieme con loro, per opposto e gerarchico sentire, potranno dolersi i custodi dell’ortodossia umanistica: sta di fatto che nei modi esclusivi dell’espressionismo plurilingue, o in ossequio a un realismo medio, di timbro lirico e neoverista, il romanzo a detection mostra per la prima volta la propria attitudine a guadagnare i livelli più formalizzati se non i più prestigiosi del sistema letterario nazionale.
Gli equilibri consueti e approvati dalle élite di gusto ne risultano invero scarsamente compromessi. Per quanto audace, la mossa dei nuovi giallisti appare circoscritta, persino tardiva considerando analoghi scenari d’oltreconfine. Non sarebbe stata possibile, tuttavia, senza il concorso di settori pionieristici e qualificati dell’intellettualità nostrana, intesi a sondare un sottobosco romanzesco ancora gravido di pregiudizi esterofobi eppure rigoglioso, promettente. Significative avvisaglie del nuovo clima che si annuncia vanno considerati gli studi di Antonio Santucci in Per una storia del romanzo giallo, «Il Mulino», 1, 1951) e dello stesso Sciascia (Letteratura del giallo, «Letteratura», 3, 1953: qui le pagine più limpide e precorritrici del siciliano). Ma i due decenni seguenti registrano tra gli altri i contributi di Ettore Capriolo (La copertina dei gialli, «Almanacco letterario Bompiani», 1963), di Luisa de Vecchi Rocca (Apoteosi e decadenza del romanzo poliziesco d’azione, «Nuova Antologia», agosto 1969), dell’italianista Guido Bezzola (Preistoria e storia del giallo all’italiana, in Pubblico 1977). Nel 1962, un raffinato filologo romanzo come Alberto Del Monte affida a Laterza una (non proprio) Breve storia del romanzo poliziesco’, finché nel 1979, per Garzanti, esce a firma di Loris Rambelli la prima Storia del giallo italiano, prima, e ancora oggi la più informata e attendibile.
Giova appena notare che non si tratta di riviste e di marchi editoriali qualsiasi: sono i luoghi in cui si elabora la cultura di punta del paese. Il giallo sta crescendo, in termini di considerazione critica e in termini di presa rappresentativa sulla vicenda italiana.
Nessuno sbalordirà, pertanto, se spetta a Milano e a Torino, cioè agli epicentri del moto neoindustriale, offrirsi come sfondo a una diversa concezione del delitto e delle procedure atte a perseguirlo. Quando nel 1966 Giorgio Scerbanenco inaugura il ciclo dedicato al personaggio di Duca Lamberti, e nel 1972 e poi nel 1979 il duo Fruttero & Lucentini ambienta sotto la Mole La donna della domenica e A che punto è la notte, la vita della moderna metropoli acquista finalmente dignità di racconto: con le sue reti toponomastiche e la casualità di incontri decisivi, l’inglobamento e trasfigurazione delle periferie in un continuum suburbano falsamente uniforme e in realtà pregno di tradizioni involgarite e particolarità inassimilabili. Diciamo bene: Milano, Torino, e magari la Bologna sotterranea e spazzata dalla contestazione politica di Loriano Macchiavelli (Fiori alla memoria, 1975, Ombre sotto i portici, 1976). Tra brutalità efferate, fuochi di rivolta giovanile e incipiente riflusso neomistico, il giallo a detection si fa scandaglio tra i più sensibili nell’accertamento delle grandi trasformazioni correnti. In sintonia, se si vuole, con autori di altro indirizzo e caratura come Bianciardi, Ottieri, Volponi; ma riducendo d’improvviso ad antefatto, a lavoro preparatorio, le inchieste aristocraticamente seducenti e cosmopolite di Alessandro Varaldo, Franco Enna, Augusto De Angelis, oggi riproposte nei tipi eleganti dell’editore Sellerio quasi a suggerire una storia testuale del genere.
In tutto ciò conta senza dubbio la lezione dell’hard boiled statunitense, filtrata da noi solo nel dopoguerra e non senza resistenze percepibili su entrambi i lati dello schieramento culturale. E soprattutto Scerbanenco, abile mediatore di detection classica e di esibizioni muscolari, a recarne una traccia precoce. Prove di forza, gang agguerrite, fenomenologie sadiche, insieme a sondaggi psicologici e magari psicoanalitici rappresentano gli ingredienti più vistosi del suo narrare (Venere privata, come gli altri testimoni del ciclo, esce d’altronde nei «Gialli» Garzanti, dove già dal 1953 era iniziata la saga di Spillane). Nondimeno è l’ingente e più lontano lascito del romanzo popolare d’appendice a favorire il trapasso dal delitto nella camera chiusa a più estese ricognizioni criminali, rendendo la città italiana del secondo Novecento uno scenario ineludibile. Nei modi artigianali di Scerbanenco, o in quelli ironico-eruditi e ormai consapevolmente postmoderni di Fruttero & Lucentini, il richiamo al feuilleton si avverte nelle vaste campionature sociologiche, nel ricorso ai tagli sospensivi di fine capitolo, nelle agnizioni, nelle analessi frequenti, nel supereroe della volontà vendicatrice (Duca) come nel supernarratore di A che punto è la notte, sorta di Onnipotente borgesiano convertito al deismo protoliberale di Voltaire.
A ricordarci il vincolo profondo che intercorre tra racconto d’appendice e romanzo criminale d’inchiesta è stato di recente il grecista Glenn W. Most (Urban blues e gialli metropolitani, «Belfagor», 5, 2005). Utile in particolare la sua idea di «sublime metropolitano», da intendersi come superamento del sublime naturale di matrice settecentesca, e dell’inconoscibile piano divino che gli è connesso, in forza di una ratio tutta umana capace di rimediare all’ansia e allo spaesamento del neocittadino occidentale, appena emancipatosi dai retaggi di un localismo agreste. Il feuilleton e il suo succedaneo poliziesco, meglio codificato, più idoneo alle esigenze di un pubblico interclassista, smentirebbero in questo senso l’annoso pregiudizio consolatorio. In causa non sono più modelli romanzeschi vocati al recupero quietistico di un ordine infranto, quale esso sia, drammaturgico o legale; ma generi intimamente predisposti alla rappresentazione di un disordine stabile, endemico, con cui il lettore contemporaneo deve familiarizzare tramite uno sforzo continuo di indole intellettuale. Insomma gialli e appendici romanzesche non come semplici svaghi oppiacei, piuttosto occasioni di lavoro; e di un lavoro freudianamente onirico eppure diurno, fantasiosamente vigile, necessario a fronteggiare le asprezze di una quotidianità che frastorna.
Appare chiara la linea Baudelaire-Benjamin di cui Most è debitore, come chiaro è l’accorgimento a cui ricorre per dare forma al concetto di sublime metropolitano. Il nesso tra choc perturbante e rielaborazione emotiva, così tipico di Les Fleurs du mal, assume a questi patti una sfumatura etica e razionale ancora inosservata. Nel frequentatore di boulevards e gallerie sovraffollate descrittoci dal poeta, alberga una disponibilità alla sorpresa e magari al raccapriccio macabro grande almeno quanto il desiderio di trarne esperienze riflesse. Tuttavia, se intendiamo bene, è grazie all’ausilio di un sociologo come Marshall Berman che lo studioso americano ci introduce a una seconda, più insidiosa dialettica. Giacché non si tratta solo di ribadire il novurn antropologico indotto dall’urbanesimo otto e novecentesco, collegandolo a tipologie narrative capaci di illuminarne con immediatezza icastica l’instabilità strutturale. E ben vero che sin dalle origini il giallo riconosce nella dimensione cittadina il suo luogo deputato: la Parigi di Poe e di E.T.A. Hoffmann, la Londra di Conan Doyle. Ed è altrettanto vero che non occorre abitare una megalopoli tentacolare per avvertire «le gelide correnti della modernizzazione». Nondimeno le compagini metropolitane, con i margini sempre maggiori di territorio che riescono a egemonizzare, si offrono a un pendolarismo incessante tra rimpianto e accettazione di status. In quanto entità votate a un rapido trascendimento di architetture, assetti demografici e costumi, esse suscitano insieme moti di entusiasmo ed echi di passatismo nostalgico. Vano, e riduttivo, giudicarne l’insorgere contraddittorio al rango di mera inclinazione individuale. Il sentimento luttuoso per ciò che non è più o che sta mutando – ci dice ancora Most – potrebbe essere dopo tutto una caratteristica inscritta nella modernità non meno della sua naturale spinta verso il cambiamento: in questione sono due impulsi tenaci e inseparabili, di cui volta a volta occorre valutare la prevalenza.
Che sia da reperire qui l’ambiguità statutaria del genere giallo, e che si tratti di un’ambiguità destinata a crescere, può del resto confermarlo l’esame di alcune opere recenti a firma del duo Colaprico-Valpreda, di Gianni Biondillo e di Andrea Camilleri. Nel primo caso, con Quattro gocce di acqua piovana, La nevicata dell’85, La primavera dei maimorti (tutti apparsi tra 2001 e 2002), abbiamo una Milano ridotta a simulacro di civiltà trascorse. Lo snaturamento dei quartieri, la perdita di coesione se non l’espulsione fisica delle classi popolari dal perimetro urbano, giustifica da parte del narratore una reprimenda ambrosianamente puntuta, e tuttavia lamentosa. Le vie, i locali pubblici di cui un tempo il maresciallo Pietro Binda era re, vengono ripercorsi non per nulla sul filo della memoria, in un altrove distanziato, montano: alla ricerca di una ritualità affabulativa, di timbro amicale, reducistico, che la dice lunga sulla quota di ripiegamento esistenzialeggiante a cui si consegna il trittico poliziesco.
Non meno disposto all’evocazione sentimentale è l’ispettore Ferraro, il «duro» quartoggiarese ideato da Biondillo (Con la morte nel cuore, 2005, è a tutt’oggi la sua prova migliore). A dispetto di una trama vivace, dalle ampie volute appendiciste, anche qui la pagina restituisce volentieri immagini di un’adolescenza acutamente socializzata, territoriale. Quanto più l’inchiesta si distende – quanto più emergono gli aspetti di thrilling – e tanto più nitido si fa il cruccio interiore del personaggio. I conti che ha da saldare non riguardano solo gli antagonisti criminali: coinvolgono l’origine, lo stato degli affetti, i destini sbandati di coetanei e amici di un tempo.
Non per questo il romanzo si risolve in un amarcord generazionale a ciglia asciutte. Proprio da Quarto Oggiaro, conurbamento ormai multietnico, sede di più antichi flussi e trasgressioni, l’autore trae anzi le risorse per penetrare nella metropoli di inizio millennio. Ed ecco il reticolo di piazze, chiese, studi professionali, club e capannoni dismessi in cui si progetta il malaffare; dove al calcolo cinico di una borghesia evasiva, distintamente incline al delitto, risponde il tribalismo eslege di un nuovo sottoproletariato d’importazione. Nessuno sembra condividere alcunché nella Milano di Biondillo, non istituti civili né prospettive ideali, ma secondo interessi ciecamente ambiziosi di ceto o di clan tutti trafficano con accanimento. La città che in un passato non lontano vantava il primato dell’inclusione multiculturale, e che Scerbanenco sondava alla stregua di un organismo anonimo e inquietante, eppure concepibile in modo unitario, sembra ora ridotta ad albergo di genti diverse. Solo una intensa, sfrenata vitalità resta a garantirne il dinamismo e se vogliamo il ruolo leaderistico sulla scena nazionale. Quella stessa vitalità, trasmessa da una pletora incomunicante di lingue, gerghi e di residui dialettali, che d’altronde la disgrega.
Più godibile, non solo dal lato espressivo, è il mondo che Camilleri taglia su misura per il commissario Salvo Montalbano, in una sequenza ormai innumere di titoli. Vigàta e dintorni, ossia la provincia immaginaria di un’isola concreta, restituiscono anzitutto i ritmi e le cronache delittuose di una modernità adempiuta. Nulla in romanzi come La forma dell’acqua o La gita a Tindari o Inodore della notte (1994, 2000, 2001) può più confondersi con la Sicilia dei primi due gialli sciasciani. La messa in sordina del tema mafioso, e non solo, ma il garbo con cui l’autore elude le arretratezze economiche e sociali che contristano il territorio agrigentino, rendono i crimini descrittici compatibili con qualunque Sud borghesizzato. Lo stesso Montalbano, il sanguigno, irresistibile Montalbano, reca in dote una mole di elementi psichici e di attitudini caratteriali tale da denunciarne a priori il conio universale: paternità frustrata, affettività a distanza, dipendenza domestica, moralismo furente e disincantato, sensibilità ecologica, sprezzo del consumismo piccoloborghese, ostilità ai riti della massificazione mediatica, e si potrebbe continuare.
Se c’è un giallista che ha inoculato il virus della modernità cittadinesca in terra sicula e sicana questo è Camilleri. Non fosse, naturalmente, per l’orgoglio identitario che emerge dal suo fantasioso gramelot linguistico, dall’apologia per uno slow food di impronta secolare, da una paesistica mediterranea abbozzata con vigore. Ovvero da una somma di motivi, stilistici e di contenuto, utili a tradurre l’arcaismo nei termini più seducenti della protesta neoromantica, antiglobalista. Le trame di Camilleri, quando non si slabbrano in urgenze declamatorie, testimoniano la più alta maestria. Nel tratteggio sapido di figure e figurette, come nella gestione sorniona di piste plurime convergenti egli si mostra sovrano: è tuttavia esotizzando il già noto che conquista la moltitudine dei lettori. La provincia siciliana viene bensì urbanizzata negli abitanti e nei costumi (in primis quello erotico), le gesta criminose che vi hanno luogo sono senz’altro da ricondurre a una casistica da manuale, ma non è ancora resa anonima nello spirito e nei colores, depositari sin qui della vera differenza.
Il romanzo a detection degli ultimi decenni, in sostanza, sembrerebbe estendersi con forza pervasiva su tutto il territorio nazionale, insediando il sublime metropolitano anche in lande un tempo periferiche e ora pronte a patirne gli esiti destabilizzanti. Inevitabile un certo cordoglio malinconico per il mondo di ieri, richiamato sulla pagina secondo strategie più o meno sottili; non al punto, comunque, da compromettere una uniformità di tipi e di moventi criminali che altro non documenta se non l’attenuarsi ormai irreversibile dei particolarismi ereditati. Contemporaneamente, nel suo percorso centripeto verso il cuore del sistema, il giallo viene inglobando, mescidando, contaminando porzioni crescenti di tradizione letteraria. Al riguardo una data significativa esiste, il 1980, anno in cui Umberto Eco dà alle stampe Il nome della rosa.
Di qui in poi saranno legione gli scrittori di gialli storici: Carlo Lucarelli, Andrea Vitali, Marcello Fois, Giorgio Todde, per non indicare che i più spiccati. Un quindicennio ancora, e sotto l’effetto di una nuova ondata di americanismo romanzesco si produce una polarizzazione ulteriore tra giallo a detection, storico o attuali – stico, e noir. Documento ne siano titoli come Almost blue (1997) sempre di Lucarelli, e Pericle il Nero di Giuseppe Ferrandino (1998). Una via seguita con estrosità onnivora da Giuseppe Genna e certamente da Massimo Carlotto, talento notevolissimo di giallista, sempre più inteso, tuttavia, a sollevare i propri eroi ex carcerati dall’onere dell’inchiesta retrospettiva, consegnandoli a truci peripezie di sapore gangsteristico e avventuroso. Ultimo, ma solo in senso temporale, viene il romanzo giudiziario, o legai thriller, introdotto sulla scena italiana da Gianrico Carofiglio tramite opere proceduralmente aggiornate come testimone inconsapevole (2002) e Ad occhi chiusi (2003).
Poco importa se molti degli autori appena ricordati partecipano dell’uno e dell’altro tipo, affidandosi in volumi successivi alla detection classica, a racconti hard boiled, giudiziari, ovvero a polizieschi in prospettiva storica. Rilevante, invece, è che nell’ambito di una stessa opera i piani si sovrappongono volentieri rendendone ardua l’identificazione (in questo senso, l’etichetta noir appare a oggi largamente abusata e propagandistica). A partire dagli anni ottanta del Novecento, il giallo italiano entra insomma in una convulsa fase di crescita, allenta i vincoli di genere e si trasforma in qualcosa di assai simile a una nebulosa in cui convivono forme plurime di narrazione. Fermo per ciascuna di esse il tema delittuoso, unico elemento coesivo dell’insieme, ciò che si osserva è il diverso peso che vengono assumendo quelle strutture logiche e analettiche necessarie a darne conto in modo intellettualmente caratteristico. Proprio il giallo storico sembra introdurre a riguardo una cospicua variante, dal momento che l’inchiesta a ritroso condotta dal personaggio detective cade entro una più estesa retrospezione storiografica a cura del narratore, e dunque offrendo a chi legge una doppia opportunità: l’analisi di un caso criminale che è anche cognizione impressionistica di un altro tempo, e il rilassamento pensoso consentito dalla distanza. Altrimenti motivato è il legai thriller, in larga misura disceso dal modulo giornalistico dei processi celebri. Qui all’intuizione logica o alla destrezza operativa del detective si sostituisce un sapere tribunalizio e oratorio nemmeno bisognoso di analessi compiuta: in testimone inconsapevole l’identità del vero infanticida resta ignota, basta l’esito giudiziario favorevole all’innocente. Altro ancora il caso del romanzo noir, dedito per gusto e per progetto al tratteggio di una sensibilità violenta; in cui a prevalere sono elementi come la perizia militare del protagonista, la prontezza allenata degli istinti, l’azzardo responsivo, lo spregio delle norme costituite; e in cui lo schema analettico originario cede alle seduzioni progressivamente esasperate della caccia.
Difficile sottovalutare gli aspetti di pluralità complessa che emergono dal quadro. Nel volgere di un ventennio o poco più, smentendo le critiche di chi lo voleva prigioniero di un convenzionalismo rigido e seriale, il genere poliziesco ha mutato il proprio assetto fino ad apparire come un aggregato o supergenere dai confini incerti. Forme nuove e spurie di racconto ne hanno minato la compattezza tipologica e sembrano ora in attesa di una stabilizzazione espressiva se non di norme retoriche indipendenti. Già nel corso degli anni sessanta, invero, il giallo classico o d’azione aveva accusato la vicinanza insidiosa della spy story (la serie «Segretissimo» di Mondadori nasce nel 1962): si trattava però di una modellistica d’importazione, quasi del tutto anglosassone. Ora la situazione sembrerebbe altra, diversamente matura. Una nutrita leva di scrittori nostrani, giovani e meno giovani, si dedica alla semplice arte del delitto senza più pudori provinciali né rispetto per i codici romanzeschi trasmessi; con ciò confermando l’attrattiva potente esercitata dalla letteratura a tema criminale, ma al tempo stesso contribuendo a una sua crisi di riconoscibilità.
La cosa non era sfuggita affatto a un maestro degli studi giallistici come Giuseppe Petronio (Il romanzo poliziesco, 1985). Fu lui, per primo, a indicare un percorso di inserimento del racconto a detection nel circuito della letterarietà blasonata, al prezzo però di un progressivo venir meno delle qualità caratteristiche. Da un esordio sotto i crismi del positivismo scientista a nome di Poe e Conan Doyle, si passa a uno stadio nobilitante che coincide con il realismo sociale di Chandler e di Hammett, cui segue un punto di estrema tensione problematica con Gadda, Durrenmatt, Sciascia, fino allo smarrirsi parcellare del codice primario nel grande alveo delle sperimentazioni tardonovecentesche. Un’ipotesi di rara lucidità, beninteso, che qui abbozziamo in modo sintetico. D’altronde incline a un prospettivismo unilineare, di natura evolutiva e poi dissolvente, che sembra scontrarsi con l’impetuoso risorgere dei generi romanzeschi nell’ultimo terzo del secolo.
Come noto, il fenomeno è da ricondurre per larga parte alle dottrine e alle pratiche del postmodernismo statunitense; e da noi, grazie a Eco, a Calvino, agli stessi Fruttero & Lucentini ha conosciuto una formulazione metaletteraria, ironicamente scaltra, tale da imporsi con relativa facilità anche presso i ceti colti del paese. È il caso di aggiungere, tuttavia, che il declino già nel corso degli anni ottanta delle poetiche facenti capo a una doppia strategia espressiva, alta e bassa, democratica e iperformale (il famoso double coding), non lascia affatto il terreno nello stato precedente. Dal recupero ludico e arguto degli schemi di genere, in cui si distinsero i romanzieri postmoderni più avvertiti, si passa senza soluzione di continuità a una loro celebrazione diversamente spregiudicata. La vicenda del giallo storico può valere da insegnamento: caduti gli aspetti di allegorismo, di parodia, di citazionismo assiduo tanto cari al Nome della rosa, ecco che al suolo, più che mai disponibili, sono rimasti gli elementi base per un sottotipo misto ma non privo di elementi distintivi. Il giallo storico si è imposto insomma, ha acquisito un profilo nitido e coeso; non altrettanto si può dire a tutt’oggi del noir o del legai thriller, forme troppo recenti, entrate senza mediazioni notevoli nel novero delle patrie lettere. La situazione, in effetti, appare ancora in movimento e ricca di variabili imprecisate. Nulla però vieta di ipotizzare che dalla nebulosa alquanto indistinta di romanzi a tema criminale stiano per emergere altrettanti sottotipi, i quali, al di là di un reciproco e contingente ibridismo, sapranno rendersi autonomi sotto ogni rispetto. O se si vuole, in termini di profezia semieuforica: dalla nebulosa prenderà forma un sistema stellare più organico senz’altro e più fertile di classificazioni; ma di cui il giallo a detection, con la sua atmosfera intellettualistica e retrospettiva, non sarà ormai se non uno degli orbitali.