Un’annata di poesia “senza”? Senza editori veri, cartacei (non è del resto una novità, e tanto adesso c’è il web), senza grandi idee (le troppe e inutili antologie di poesia che ci lasciano un po’ perplessi) e anche senza versi. Ma quest’ultimo non è affatto un male, a ben vedere. Tre libri (di Marco Giovenale, Emilio Rentocchini e Eugenio De Signoribus) ribadiscono la vitalità della poesia in prosa, la sua capacità di suscitare scarti espressivi, ritmi paradossali, deformazioni (e sincopi) conoscitive.
Più o meno tutti ce ne siamo accorti: i dodici-quindici mesi a cavallo tra 2004 e 2005 hanno costituito l’anno delle antologie poetiche. Non è questa la sede per un bilancio, anche se si ha l’impressione che – eccezion fatta per l’intelligentissimo scavo critico di Enrico Testa, Dopo la lirica, pubblicato nel maggio 2005 da Einaudi, e per il lavoro molto ricco e informato promosso nello stesso anno da Andrea Cortellessa e altri, Parola plurale, per l’editore Luca Sossella – l’immagine della poesia italiana contemporanea non ne esca particolarmente rafforzata. Tanto meno ne vien fuori bene la poesia cosiddetta sperimentale o d’avanguardia: mai come oggi così trascurata dai discorsi critici che “fanno” canone. Volete una piccola verifica, un sintomo fra i tanti? Connettetevi al sito di Lello Voce (www.lellovoce.it) e leggete la sconcertante storia editoriale dell’antologia curata da lui stesso e Aldo Nove, Ma il cielo è sempre più blu. Diffusa fuori commercio in tiratura ridotta (e per metà fallata), annunciata come prossima a una stampa “vera” nella prima metà del 2003 presso un piccolo editore romano, avvistata presso un altro paio di case (in particolare «Einaudi Stile libero»), ora si è arenata pare definitivamente nelle secche del web. Oddio, per lo meno non dobbiamo pagarla, se la scarichiamo dalla URL citata; ma certo non è che il mondo editoriale italiano ci faccia una gran figura.
E il punto è magari proprio questo: sempre più spesso raccolte di poesia degnissime, plaquettes che una volta avrebbero trovato un piccolo, prestigioso editore cartaceo si rassegnano a una vita on line nell’attesa non troppo euforica di tempi migliori. Eppure in questo modo qualcosa si perde. A me piace per esempio pensare che i venticinque testi di Marco Giovenale, intitolati Endoglosse, “postati” nell’autunno 2004 nel sito di Biagio Cepollaro (www.cepollaro.it), consentano non solo a me ma anche a un possibile lettore comune un brevissimo percorso entro un modo d’essere della poesia contemporanea che troppo spesso viene dimenticato o sottovalutato. Dico della poesia in prosa; che peraltro taluni chiamano prosa lirica. Tanto per capirci, quasi nessun antologista, oggi, rischia di inserire nella propria selezione componimenti realizzati senza il segnale delle “righe mozze”: al punto che il principale promotore di questa forma, Giampiero Neri, figura in certe scelte autorevolissime solo con testi in versi liberi (voi che cosa direste – fatte le debite proporzioni – se, in un libro scolastico, di Petrarca trovaste solo sonetti e neanche una canzone?).
Autori come Giovenale, oggi, viceversa mostrano come 1’“informalità” del non-verso si è trasvalutata in una struttura al quadrato, capace di suggerire in negativo una particolarissima pratica di ritmo, forse di metro. Qui si tratta (la parentela, più che con Neri, credo sia con un certo Santagostini, e soprattutto con esperienze coeve non italiane, segnatamente francesi) di lavorare sulle falle della testualità, sul sabotaggio dei “normali” rinvii anaforici e cataforici, sui ritorni indietro cioè e i balzi in avanti. Molti nessi sono sincopati a tal punto da produrre effetti di straordinaria astrazione, pur su un fondamento di oggettualità, di materialismo. C’è, davanti a noi, un racconto ridotto a pochi fotogrammi che tratteggiano un percorso sempre sul punto di compiersi ma sempre in effetti eluso. Come nell’ultimo Beckett, un non-soggetto non può che balbettare ipotesi relative a un non-mondo di cui, pure, percepiamo i residui di ruvidezza. Anzi, in Giovenale, di orrore: «Se poi si lasciano sfuggire una nascita // – si rimedierà. (Dando: dolore)». Anche perché il discorso precario, lacunoso, rattrappito dai traumi del reale, sonda qualche possibilità di riapertura grazie a correzioni e precisazioni in fine di paragrafo o testo («Così via», «né della sorgente ora», «Altre forme, anche» ecc.): un vero e proprio scandaglio gettato per individuare storie che da qualche altra parte, con ogni evidenza, si stanno svolgendo.
Sotto parecchi punti di vista, le prose in lingua inserite da Emilio Rentocchini nel suo Giorni di prova svolgono un ruolo opposto. Qui comunque, secondo una tecnica che lo stesso Giovenale ha praticato (si veda il volumetto Il segno meno), siamo di fronte a un autentico prosimetro. Trenta racconti in prosa italiana alternati a quarantaquattro ottave scritte nell’emiliano di Sassuolo, in conformità a una scansione metronomica: ogni prosa è seguita (o preceduta) da una o due ottave, e spesso la coppia di opposti così definita è saldata da un richiamo tematico (anche lessicale). Ne deriva un organismo discretamente – anche se proficuamente – ripetitivo: motivi come la corporeità, la natura, il complesso suggestivo silenzio-suono-rumore, la riflessione sullo scrivere, sono declinati volta per volta in due modi linguistici e ritmici affatto diversi, anzi divergenti. Mentre la prosa è soprattutto sguardo ordinato, osservazione minimalistica, paratattica, di vite colte in un momento di trapasso, il metro, l’ottava di endecasillabi regolari puntualmente rimata (non senza qualche concessione virtuosistica, come nel caso delle serie sdrucciole), fluidifica il mondo, costringendolo a un cortocircuito con la sfera interiore, con il pensiero. «La prua d’ogni so idea adré ch’la crèss / l’alèga l’ètra spènda e a la reinvèinta / liberamèint» («la prua d’ogni sua idea appena sboccia / allaga l’altra sponda e la reinventa / in libertà»): l’impulso della forma chiusa induce “allagamenti” semantici, muove la spola del significato per intrecciare gli opposti della materialità e dell’astrazione mentale, se non persino filosofica (nel racconto intitolato Toc il programma è trasposto nel conflitto tra la scrittura incisa su marmo e il libero accostarsi di pensieri affidati a foglietti di carta). Non so quanto sia giusto allegorizzare il libro fino a questo punto: ma è probabile che una poesia tanto radicata nella natura, nella collina, nel paesaggio («mamma, quante lune ci sono qui!»), stia cercando di suggerirci l’utopia d’una possibile, nuova complementarità di città e campagna. Come se il vecchio-nuovo del dialetto in versi regolari – con il suo astuto batti e ribatti – potesse riscattare una realtà piccoloborghese fatta di professori e impiegati sognanti, assorti proprietari di quote condominiali, donne divorziate con figli, single in crisi di perplessità. E – per parafrasare uno dei componimenti – il «vèc ragastàs», il ragazzo invecchiato che il poeta come tanti di noi è, in occasione del suo «sàbet d’un paiàs» («sabato di un pagliaccio»), anticiperà la festa del giorno dopo con il suono rock di una chitarra Fender che gli permetterà di «sberlucèr la scalvadura» – cioè di sbirciare le tette – alla Natura. Né è un programma privo di ambizioni, come si vede.
Certo che, quanto ad ambizioni, l’ultimo libro di Eugenio De Signoribus, Ronda dei conversi, non scherza affatto. E per fortuna. Intanto – anche se certo è il rilievo apparentemente meno importante – la ricerca prosastica è qui realizzata in modo persino inedito. E lo stesso autore a parlare di due entità distinte, dette rispettivamente “nonversi” e “quasiprose” – già peraltro sperimentate in altre raccolte, ma ora probabilmente meglio messe a fuoco. Tuttavia, per capire l’operazione dobbiamo rifarci alla nozione di “relazionalità” già vista in Rentocchini. Mi spiego: le particolari prose che sembrano versi ma non lo sono mai (le “quasiprose”) e quelle che invece ogni tanto contengono versi (i “nonversi”) hanno acquisito il loro attuale e acuminato senso per rapporto all’esistenza di metri chiusi, o prossimi alla chiusura, che sempre più chiaramente si orientano verso il sublime dell’inno e del coro – in senso addirittura manzoniano. La prosa per lo più soggettiva e comunque incline all’abbandono affabulante (pur se minacciata dall’incombere di a capo perfidamente casuali) prelude alla voce non di rado impersonale, appunto corale, di una versificazione che dice valori anche religiosi. E una strategia che le forme affianca e oppone plasticamente, ritmandole. Come un po’ accade alla struttura del libro: che è delimitato da una doppia introduzione (“premessa”, e insieme profetica “promessa”) e da un congedo, in mezzo ai quali le sette sezioni isolano la quarta, formata da una sola quasiprosa in forma di dialogo, e rivelano un gioco di arsi e tesi costituito ora da momenti più concettualmente rilassati (le sezioni I, III, VI) ora da episodi in cui l’ambizione tematica s’impenna (II, V e VII).
A ogni modo, se dovessi dichiarare che cosa a mio avviso regge davvero l’intera operazione (a capire la quale certo aiuta la lettura del volumetto Memoria del chiuso mondo uscito per Quodlibet nel 2002, dove la protesta contro la cultura globale di guerra era emersa con forza sempre manzoniana – ma anche un po’ fortiniana – persino scomposta), additerei la splendida sezione seconda, Détti dei conversi. Qui, attraverso memorie che sembrano convocare persino un certo Palazzeschi – e ovviamente la poesia franco-belga di conventi e beghinaggi -, si assiste a una parodia in verità serissima dell’Aorto conclusus poetico, del suo «cerchio di capi introversi», e magari anche delle – scusate – stronzate che certi “decani” del mestiere ogni giorno ci infliggono. La domanda non a caso è formulata – unica, straniante occorrenza – in dialetto: «se rmanéme tutti ècche / a vardacce tèste a tèste / e la lengue ncé se sécche / pò la face facce feste?» («se restiamo tutti qui / a guardarci testa a testa / se la lingua non ci si secca / può la falce farci festa?»).
Insomma, un sano ritorno alla vergogna di essere poeti, alla consapevolezza dei propri privilegi e limiti («lingua di nostalgia / lingua di lunga scia / ancora un lusso è amarti»). Un tema, questo, che il secondo Novecento aveva progressivamente abbandonato, sostituendogli diverse soluzioni metaletterarie: ruotanti, se non sbaglio, intorno ai poli dell’“essere poeta nonostante” e della polemica esplicita contro gli altri – i cattivi scrittori, i critici incapaci, il pubblico che si aspetta troppo da noi…
E lo scopo, in Ronda dei conversi, è dare slancio e motivazione a temi sinceramente “civili”, concentrati in particolare nel conclusivo Accorale per le terre sante. In un percorso studiatamente modulato, vi si teorizza una possibile via di fuga (un «esodo»?) tracciata fra le rovine che un «armato dio» ha prodotto: contro il suo brutto potere – viene suggerito – la sola risposta è «offrirsi a una patria differente», dopo che siano state patite e in fondo accettate tutte le «demolizioni» di casa e identità.
Ma, appunto, De Signoribus ricorda a sé e ai propri conversi-confrères che a certe vette di significato e pathos ci avviciniamo solo se abbiamo capito quanto fragili siamo, e quanto inutile e magari anche fallimentare è la nostra impresa.