Si potrebbe dire che un testo teatrale, per avere successo in libreria, non dev’essere presentato come tale. Se nel caso del teatro di narrazione di Baliani, Paolini e Celestini al successo in scena e all’interesse della critica è seguita anche la fortuna editoriale, non si segnala un analogo risveglio d’interesse per la drammaturgia. Complice anche la trasformazione dei corsi universitari delle arti dello spettacolo, è la pratica scenica, più che la pagina scritta, a trovare nuovi e inediti sbocchi librari. Gli editori iniziano a muoversi in un terreno ibrido, rivolgendosi insieme al pubblico degli appassionati di teatro, agli studenti e ai professionisti o aspiranti tali, accostando alla manualistica di base aperture ad ambiti innnovativi.
Una ventina d’anni fa, iniziando una rapida panoramica sull’editoria teatrale italiana, Gianandrea Piccioli commentava sconsolato: «Parlare di editoria teatrale è come parlare del panda o della foca nana, specie notoriamente in via d’estinzione, da proteggere, da mostrare in tv ai bambini, da conservare in museo, come i pochi alberi racchiusi in serre di plastica di 2001, i sopravvissuti» (il Patalogo nove, 1986, p. 189).
In effetti per i libri di teatro, sia saggi sia testi (fatti salvi i pochi titoli acquistati per obbligo scolastico), lo scenario appariva poco incoraggiante: scarso spazio in libreria, sostanziale disinteresse degli editori maggiori, tramonto della produzione “varia e articolata” che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Unico segnale in controtendenza, sul fronte dei piccoli editori che vivevano allora una stagione di fragili entusiasmi, la nascita di alcune case editrici specializzate: Ubulibri, che proprio con il Patalogo (l’annuario di teatro ideato nel 1977 dall’editore di Ubulibri Franco Quadri con Giovanni Buttafava e Pierluigi Cerri, che nel 2005 approda al numero 28) ha segnato una delle poche autentiche invenzioni dell’editoria di spettacolo italiana; e poi Costa & Nolan e Casa Usher, che andavano ad aggiungersi alla roccaforte universitaria di Bulzoni.
Oggi, curiosamente e nonostante quello che sembrerebbe dettare lo spirito del tempo, la situazione appare paradossalmente più incoraggiante, o per lo meno più variegata. E vero che Costa & Nolan e Casa Usher non ci sono più; e che lo spazio che mass media, giornali e librerie dedicano al teatro e alla sua cultura sembra in costante e irreversibile diminuzione. E anche vero, come notava Piccioli, che l’università italiana non è mai riuscita nemmeno a immaginare volumi del peso scientifico della collana del CNRS francese, e che rispetto ai mastodonti tedeschi i programmi di sala confezionati dai teatri italiani (perché anche questo è un versante dell’editoria teatrale) restano in genere miserabili, e però…
…però qualche segnale in controtendenza lo si può trovare, a saper guardare senza pregiudizi. Tenendo d’altronde presente che i motivi di questo fermento – che interessa in maniera diversa grandi case editrici ed editori di nicchia – sono variegati e difficilmente riconducibili a un quadro unitario.
Ovviamente la vitalità dell’editoria teatrale deve riflettere in primo luogo l’emergere di nuove esperienze sulla scena. Perciò riflette in primo luogo l’affermarsi di una generazione di attori-autori attualmente intorno alla cinquantina. Formatisi come attori nelle convulsioni dei cupi anni settanta, cresciuti attraverso percorsi di autoformazione in apparenza eccentrici (anche se in realtà tipici di una generazione), hanno finito per essere molto più che semplici interpreti. Fatte le debite proporzioni, sono autori-attori nel senso in cui lo sono stati, nel recente passato, Eduardo e Fo, e anche Carmelo Bene.
Alla fine degli anni ottanta Marco Baliani e Marco Paolini – sulla scia delle intuizioni di Walter Benjamin su Leskov, e insieme rielaborando la lezione del Dario Fo di Mistero buffo, lavorando sulle forme del racconto e dell’oralità – hanno inventato, attraverso un affascinante percorso teorico e pratico, un vero e proprio genere, il “teatro di narrazione”, che ha ottenuto straordinario successo anche in televisione (con i record d’ascolto del Vajont televisivo, ma non solo), trovando poi fin troppi imitatori e seguaci.
Ormai sia Paolini sia Baliani si sono imposti come autori anche sul versante editoriale. Il primo come autore e produttore di una serie di abbinate libro+video (o adesso dvd) che ormai è diventata un’opera di dimensioni massicce (tra cui Vajont, 1999; bestiario italiano, 2000; I-TIGI canto per Ustica, 2001; Questo radicchio non si toca, 2003; Teatro civico, 2004; Gli Album, 2005). Il secondo – dopo il libro+video Francesco a testa in giù (con Felice Cappa, 2002) e il copione di Corpo di stato. Il delitto Moro (2003) – ha pubblicato un robusto romanzo d’infanzia, pasolinianamente ambientato nella borgata romana in cui è cresciuto l’autore, Nel regno di Acilia (2004), che da un certo punto di vista rappresenta una risposta sottoproletaria e ruvida all’autobiografia proletaria e nostalgica spettacolarizzata da Paolini nel ciclo degli Album. Sulla loro scia, sempre nel filone del teatro di narrazione ma con indubbia autonomia creativa, si sono affermati autori-attori più giovani: tra tutti Ascanio Celestini, il cui Storie di uno scemo di guerra (2005), ovvero la liberazione di Roma vista con gli occhi di un bambino, è una ulteriore dimostrazione della autonoma dignità della scrittura dei narratori; e Davide Enia (i suoi testi Italia Brasile 3 a 2, maggio A3 e Scanna sono raccolti in Teatro, 2005).
Un percorso analogo – da autore e interprete di spettacoli di successo ad autore riconosciuto dalla critica e in libreria – l’ha compiuto negli stessi anni Moni Ovadia, nato come musicista ma affermatosi in teatro: vanta ormai al suo attivo una fitta bibliografia, che partendo dalla comicità yiddish {Perché no? L’ebreo corrosivo, 1996; L’ebreo che ride. L’umorismo ebraico in otto lezioni e duecento storielle, 1998; Ballata di fine millennio, 1999) passa per l’autobiografia (Speriamo che tenga, 1999) per spaziare in una saggistica che misura l’attualità con l’antica saggezza ebraica hVai a te stesso, 2002; Contro l’idolatria, 2005). Alla stessa generazione appartiene Sandro Lombardi, che negli spettacoli di Federico Tiezzi è stato sempre molto più che un semplice interprete. Un altro aspetto della sua personalità creativa ricca e complessa lo rivela il memoir Gli anni felici (2004), che trascende il tono aneddotico che troppo spesso caratterizza le autobiografie d’attore: salutato da Dante Isella come «la carta d’identità di un intellettuale, di apertura europea, capace delle esperienze più disparate, l’una legata all’altra in una coerente unità culturale, dove la passione dominante per il teatro fa tutt’uno con la raffinata competenza nel campo della musica e soprattutto con gli studi d’arte», è stato immediatamente premiato con il Bagutta Opera Prima.
In molti di questi casi, al successo in teatro e all’interesse della critica è seguita anche la fortuna in libreria: basti pensare che Il racconto del Vajont di Paolini e Gabriele Vacis (1997), che in origine era un copione teatrale affinato in decine di repliche in spazi extraistituzionali e spesso marginali, ha venduto ormai quasi 100.000 copie (mentre di solito un testo di teatro di autore italiano vende in media poche centinaia di copie).
Per certi aspetti, ovviamente, esiti di questo genere mostrano qualche affinità con i bestseller dei comici televisivi (i Rossi, gli Aldo Giovanni e Giacomo, gli Albanese, che però all’origine si erano tutti formati, anche loro, attraverso un lungo tirocinio teatrale). Tuttavia in questi “narratori” il complesso rapporto tra una “oralità recuperata” e la scrittura conduce a esiti letterariamente sorprendenti, con soluzioni linguistiche e stilistiche che sarebbe interessante approfondire (e magari ricollegare al percorso di un Giuliano Scabia).
Al successo della “drammaturgia orale” di Baliani, Paolini & Co. non corrisponde tuttavia un analogo risveglio d’interesse per la “drammaturgia scritta”, malgrado qualche segnale interessante (tra i più giovani si possono segnalare Fausto Paravidino e Letizia Russo), fermo restando l’impegno faticoso di grandi e piccole case editrici sul fronte degli autori teatrali contemporanei, da Ubulibri e Gremese alla prestigiosa collana teatrale di Einaudi (che però poi pubblica Celestini in una collana di narrativa). Si potrebbe quasi dire che un testo teatrale, per avere successo in libreria, non dev’essere presentato come tale.
Questa preminenza della pratica scenica sulla pagina scritta riflette per certi aspetti il mutato atteggiamento, negli ultimi decenni, della cultura teatrale italiana (e non solo) nei confronti dello spettacolo, e che sta finalmente cercando sbocchi editoriali. Molto sinteticamente si è passati, in questi decenni, da un approccio allo spettacolo come appendice del testo, e dunque da una visione del teatro come sottoprodotto della letteratura, a una visione più ricca e insieme equilibrata dell’evento spettacolare. Il nuovo sguardo è il frutto dell’affermazione, a partire dagli anni sessanta e riprendendo la lezione delle avanguardie storiche, di un teatro in cui la dimensione testuale e verbale non aveva più un ruolo predominante: Grotowski e il Living Theatre, e poi il teatro immagine statunitense e italiano, hanno privilegiato il teatro come corpo, tempo, spazio e suono rispetto al teatro come parola.
Oggi il nuovo teatro (per usare un’etichetta di comodo) rappresenta una punta alta della creatività del nostro paese. Sono numerose le giovani compagnie che trovano all’estero sostegno produttivo e ospitalità dalle istituzioni e dai festival più prestigiosi: Societas Raffaello Sanzio, Pippo Delbono, Teatrino Clandestino, Ravenna Teatro, Fanny & Alexander…
In parallelo, a partire dagli anni sessanta l’emergere della semiotica ha spinto gli studiosi a leggere l’intero spettacolo come testo (vedi Marco De Marinis, Semiotica del teatro, 1982, nuova edizione 2003): al di là dei limiti di questo metodo e delle oscillazioni delle mode, il risultato è stato un cambiamento di prospettiva che pare irreversibile. Il frutto più convincente di questa ritrovata centralità dello spettacolo – seppure non in chiave esplicitamente semiotica – sono gli studi di Denis Bablet e i già citati volumi della serie «Les Voies de la création théàtrale», la collana del CNRS francese. Sul versante italiano si può segnalare la serie di Laterza «Teatro e spettacolo», a cura di Franca Angelini, firmati tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta da una sorta di “nazionale dei professori”: come si legge nella quarta di copertina dei nove volumi, «la prima storia generale del teatro inteso non tanto come scrittura drammatica quanto come rappresentazione e spettacolo», peraltro in una chiave riduttivamente manualistica. A questo cambiamento non è estranea la trasformazione degli studi di teatro (e in genere di spettacolo) nelle università. In tutta la penisola si sono moltiplicati DAMS e master: come in altri ambiti, si assiste a un disseminarsi di nuove discipline e corsi sempre più specifici, a volte sotto insegne bizzosamente inventive, per inseguire una realtà sempre più complessa e frammentata (quando non per costruire cattedre ad hoc per i propri protetti). Questa evoluzione riflette anche una maggiore attenzione all’inserimento nel mondo del lavoro (e dunque in questo caso al “teatro che si fa”, con il moltiplicarsi di corsi e master per chi intende inserirsi nell’organizzazione e nella comunicazione) e alla multimedialità. Senza dimenticare l’entrata in vigore del sistema dei crediti e del 3+2 e affini (su questo vedi tra l’altro il volume a cura di Gianluigi Beccaria, Tre più due uguale zero, 2004, e Salvatore Settis, Quale eccellenza? Intervista sulla Normale di Pisa, 2004), con la conseguente richiesta di volumi agili e a basso costo. La politica di case editrici come Bruno Mondadori e soprattutto Carocci va in questa direzione, con una produzione vasta e variegata, che a una manualistica di base accoppia aperture a terreni meno esplorati e innovativi (per esempio Maia Borelli e Nicola Savarese Te@tri nella rete. Arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media, 2004; ma sugli intrecci tra arti e nuovi media vedi anche la collana «Mediamorfosi» di Nistri-Lischi).
E non è tutto. A questo generale rimescolamento di carte contribuisce anche una minor differenziazione (o divisione del lavoro) nell’ambito della cultura del teatro. La generale perdita di autorevolezza della critica (vedi Massimo Marino, Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, 2004), la sempre maggiore consapevolezza degli stessi artisti sui meccanismi del proprio agire artistico (di cui Paolini e Baliani sono due ottimi esempi), l’apertura di una ampia parte dell’accademia nei confronti del “teatro che si fa”, hanno spinto a cercare strade e intrecci che fino a qualche anno erano impensati.
Così, mentre editori come Utet, il Mulino o Le Lettere, oltre alla già citata Bulzoni, proseguono nel filone della tradizionale editoria universitaria, alcune case editrici e collane iniziano a muoversi in un terreno ibrido, rivolgendosi insieme al pubblico degli appassionati di teatro, a quello degli studenti universitari e a quello dei professionisti (e soprattutto degli aspiranti tali), ciascuno con caratteristiche peculiari. Titivillus riprende per certi aspetti l’eredità della Casa Usher, lavorando sui grandi maestri della scena novecentesca. Editoria & Spettacolo predilige il territorio della drammaturgia italiana contemporanea. Dino Audino Editore è attento in particolare alle tematiche attoriali, con una serie di testi teorico-pratici di Michail Cechov (ripreso dal catalogo di Casa Usher), del maestro del mimo Etienne Decroux, del creatore dell’Actors Studio Lee Strasberg, fino al recente Training! di Claudia Brunetto e Nicola Savarese. Franco Angeli si rivolge invece all’ampia area di operatori (e apprendisti) con monografie che vanno dall’organizzazione (Organizzare teatro, 2001, giunto alla quinta edizione, e Il teatro possibile, 2005, di Mimma Gallina; Organizzare musica, 2003) all’ufficio stampa (Comunicare spettacolo di Roberto Canziani, 2005).
Ma è sempre più difficile tracciare una linea di discriminazione netta tra i diversi filoni e i diversi pubblici, perché molti editori, episodicamente o sistematicamente, sembrano voler puntare sia al pubblico degli appassionati di teatro e dei fan di un determinato artista, sia a un pubblico universitario. Alcuni lo fanno con maggiore sistematicità. Per la calabrese Rubbettino Valentina Valentini cura una collana che ha pubblicato monografie su Squat Theatre, Peter Sellars, Teatro della Valdoca e Franco Scaldati. Un piccolissimo editore come il Principe Costante utilizza invece le nuove tecnologie della stampa digitale per monografie di artisti emergenti (Piuma di piombo di Lucia Manghi su Danio Manfredini, 2003, e L’invenzione della memoria, a cura di Andrea Procheddu, su Ascanio Celestini, 2005). L’Editrice Zona pubblica una collana diretta da Franco Vazzoler e Paolo Gentiluomo, «Pedane mobili. Quaderni per la ricerca teatrale», dedicata soprattutto a gruppi e artisti italiani: i primi della lista sono Teatro del Lemming, Andrea Adriatico, Alfonso Santagata e Enzo Cosimi, ma ci sono anche Le Baccanti riscritte da Wole Soyinka. La collana «Narrare la scena» diretta da Anna Barsotti per le pisane Edizioni ETS si dedica invece ai singoli spettacoli (ma a volte ancora con una forte ipoteca letteraria), cominciando da allestimenti storici come La locandiera di Visconti o La tempesta di Strehler, e più di recente l’Amleto di Carmelo Bene. Ancora, la Bompiani, dopo aver rilanciato qualche anno fa la qualità della scrittura proprio di Carmelo Bene con un robusto volume di Opere, ora ha raccolto anche i testi di Mario Martone in Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro (a cura di Ada D’Adamo, 2004). Anche se forse il più affascinante (e perturbante) libro di teatro di questi ultimi anni resta opera del gruppo teatrale italiano più innovativo e internazionalmente affermato: è l’autobiografia teatrale della Societas Raffaello Sanzio, firmata da Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Claudia Castellucci, Epopea della polvere (2001).
Nell’insieme è uno scenario in trasformazione, spesso povero di mezzi ma ricco di idee, che riflette la vitalità della scena e le trasformazioni dell’accademia, e che coinvolge case editrici grandi e piccole. A questo fermento, perché anche in Italia si affermi una cultura del teatro viva ed efficace, dovrebbe sperabilmente corrispondere il consolidamento di una rete di librerie dello spettacolo.