Un’editoria efficace dovrebbe mettersi alla ricerca dei talenti e delle intelligenze, dovrebbe svolgere un ruolo pedagogico trasmettendo ai lettori strumenti critici di interpretazione della realtà. Un’editoria necessariamente minoritaria e marginale sa cercare opere originali, evitando di inseguire i gusti del pubblico di massa. Perché il libro come merce è ancora uno scandalo: parola di Goffredo Fofi.
Saggista, critico letterario e cinematografico, Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, è da quarant’anni un infaticabile e polemico organizzatore di cultura. Ha fondato e diretto riviste come «Quaderni Piacentini», «Linea d’ombra», «La terra vista dalla luna» e, oggi, «Lo straniero». Autore di numerosi saggi – tra cui L’avventurosa storia del cinema italiano, Pasqua di maggio, Prima il pane, Narrare il sud, Strade maestre e Le nozze con i fichi secchi – Fofi ha diretto collane e collaborato con diverse case editrici, da Feltrinelli a Garzanti, da Donzelli a e/o.
Goffredo Fofi, a cosa pensa quando entra in una libreria?
Penso innanzitutto che le librerie sono diventate dei luoghi poco frequentabili. Non mi ci sento più a mio agio, come per altro neppure nei cinema o nei teatri. Oggi la maggior parte delle librerie sembrano dei supermercati, dove, accanto ai libri, si vende di tutto. I librai saranno pure formati in scuole professionali molto serie, ma leggono sempre di meno. Dei libri, sanno quel tanto che basta per indirizzare il lettore non avvertito verso le banalità di successo che più corrispondono ai suoi gusti. Sono però bravissimi a maneggiare i computer, che ormai sembrano essere indispensabili per vendere i libri. Insomma, le librerie sono molto spesso dei “non luoghi”, per usare l’espressione di Marc Augé, la cui trasformazione è avvenuta parallelamente all’industrializzazione sempre più spinta dell’editoria e del mercato del libro. L’avvento della cultura di massa, da questo punto di vista, ha prodotto degli sconvolgimenti enormi.
La ricerca del successo commerciale immediato?
Gli editori e i librai vogliono vendere, e hanno ragione, ma la ricerca ossessiva del bestseller è un errore. Un grande editore del passato, Livio Garzanti, diceva che i bestseller erano imprevedibili. Facendo pressione sui critici, acquistando spazi pubblicitari, insistendo con i distributori e i librai, egli sosteneva di poter spingere le vendite di un libro al massimo fino a trentamila copie. Oltre era impossibile, perché da lì in poi, contava solo il passaparola dei lettori, che evidentemente è sempre imprevedibile. Insomma, allora come oggi, è il pubblico che fa il bestseller. E personalmente penso che il pubblico, non solo li fa i bestseller, ma in fondo anche se li scrive.
Cosa vuol dire?
Libri come La storia di Elsa Morante, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg o Il nome della rosa di Umberto Eco sono tutti libri collettivi. Sono romanzi nati al momento giusto, che hanno trovato subito una eco nel pubblico, proprio come se questo li avesse in precedenza commissionati. Erano romanzi nell’aria e uno scrittore bravo è riuscito a captarli, dando loro una forma adeguata. Ciò non è un valore né un disvalore, è solo un dato di fatto. Il bestseller però non è il problema principale della cultura di massa. Il problema sono i nuovi meccanismi di produzione del libro e il tipo di lettore che è venuto fuori. Da questo punto di vista, il progetto democratico della cultura di massa non ha funzionato, giacché ha prodotto un pubblico d’automi manipolati e istupiditi dai meccanismi del potere e del consumo. La cultura è ormai una branca dello spettacolo, l’arte non conta più. Quello che contano sono gli eventi. Siccome gli scrittori non hanno più nulla da dire, si sono trasformati in intrattenitori. Vanno in pubblico davanti alle folle dei festival. Intrattengono e divertono, con la convinzione di far passare chissà quali grandi messaggi. In realtà, sono solo l’esempio della cultura del divertimento e del non pensiero.
Non è un giudizio eccessivamente negativo?
No. L’individuo è stritolato dall’industria culturale, nei confronti della quale è solo un consumatore con bisogni, e persino frustrazioni, indotti. Il libro quindi è solo un elemento dell’enorme industria dello svago collettivo, vale a dire di uno svago fruito individualmente che però riguarda tutti. Svago che è anche un sintomo della crescente solitudine degli individui e del loro bisogno di non pensare. Paradossalmente, oggi il libro aiuta a non pensare, giacché viene considerato esclusivamente come svago e distrazione. Come per altro il cinema e, naturalmente, la televisione.
L’editoria come industria della distrazione?
Certo. Un tempo avevamo poco tempo e la cultura era più elitaria. Quindi leggevamo poco. Oggi, avendo più tempo libero, si legge di più, solo che si leggono libri inutili e omologati. La fine delle utopie degli anni ottanta ha reso tutti più cinici, anche gli editori, che infatti non hanno più niente a che vedere con l’editoria che si faceva tra gli anni cinquanta e gli anni settanta. Sono diventati tutti dei mercanti. Sono dei servi che pensano di essere dei padroni. Sono come McDonald’s. Producono polpette di cultura, al cui interno c’è indifferentemente Padre Pio o Che Guevara. Il prodotto di consumo è lo stesso, solo il marchio è diverso.
Eppure quando si entra in libreria, si trovano anche molti libri belli, interessanti, utili, non omologati…
Si trovano tanti prodotti, tante scatolette, dove, certo, alcune scatolette sono fatte meglio di altre. Il libro che non sia solo una scatoletta è molto raro, anche perché sono sempre più rari gli scrittori capaci di stare al di sopra dei meccanismi dell’industria culturale. Scrittori capaci di usarla, restandone al di fuori. Purtroppo, scrittori come Yehoshua, Vargas Llosa, Màrquez non sono più da tempo, o forse non lo sono mai stati, al disopra del livello della scatoletta. Per non parlare dei Baricco e dei Pennac, i quali, nonostante tutti gli alibi che si possono dare e che si danno, non sono altro che produttori di merci più o meno ben fatte. Questo di per sé non sarebbe negativo, se non ci fosse il contesto generale di sfacelo culturale in cui ci troviamo. Non a caso i pochi libri belli pubblicati dall’editoria, grande o piccola che sia, sono subito neutralizzati dal contesto che tutto stritola, appiattisce e annulla. Un contesto dove i libri sono solo merci.
Ma il fatto che il libro sia una merce è così scandaloso?
Sì, e lo stesso discorso vale per il quadro, per il film o per il brano musicale. Ciò che è scandaloso è che la comunicazione abbia completamente manipolato e soppiantato ogni discorso riguardante l’arte. Personalmente, non ne posso più della comunicazione. La comunicazione è manipolazione che fa il gioco del potere. E l’arma più importante che il potere si è dato dagli anni trenta in poi. Gli intellettuali più lucidi e intelligenti – da Adorno a Orwell – l’hanno capito subito. Oggi non si pone più il problema dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, giacché la riproduzione tecnica ha definitivamente sostituito l’opera d’arte. Lo scrittore, il regista, l’artista si pongono come unico problema, oltre a quello del loro benessere materiale, quello della comunicazione. Il che mi sembra abbastanza preoccupante. L’arte non ha alcun dovere di comunicare alcunché a nessuno, l’artista deve solo rispondere della sua onestà e della sua ispirazione. La comunicazione non è il suo scopo. L’arte ha solo il dovere di dire quelle cose che non si riescono a dire in tutti gli altri modi, altri modi che purtroppo hanno ormai prevalso.
Anche nel libro?
Certo. La quantità di capolavori scritti negli anni cinquanta e sessanta è incomparabile rispetto ai pochissimi capolavori scritti negli anni ottanta e novanta, due decenni in cui abbiamo assistito all’ingresso nel mercato globale di molte scritture alternative che sono state macinate nel tritacarne della comunicazione e adattate al gusto medio. Si pensi a tutti gli scrittori angloindiani che in passato hanno rappresentato una vera novità e che oggi ormai scrivono libri costruiti a partire non dalla loro ispirazione ma dai bisogni del mercato mondiale.
Questo discorso vale anche per i generi come il giallo e la fantascienza?
In parte sì. Ormai la letteratura di genere ha invaso la cultura cosiddetta alta, abbassandola di fatto e trasformandola in una cultura media per ceti medi, ai quali tutti noi apparteniamo. Tutti i lettori del mondo appartengono idealmente al ceto medio e sono tutti sottoposti allo stesso bombardamento di merci culturali e manipolati di conseguenza. I libri che escono dal genere sono rarissimi, tanto che abbiamo sempre l’impressione di leggere dei remake. Non a caso siamo nell’epoca del postmoderno che riutilizza e rimescola tutto, azzerando ogni originalità. All’inizio hanno resistito a questa tendenza le culture marginali del terzo mondo, che però poi sono state velocemente recuperate. Anche la letteratura di genere ha provato a resistere all’omologazione riuscendo ogni tanto a produrre libri originali, che molto spesso sono più interessanti dal punto di vista sociologico che artistico.
Anche i libri di genere sembrano ormai molto formattati per il pubblico medio…
E vero, anche la letteratura di genere è in crisi e sono pochissimi gli autori capaci di lavorare al di fuori degli schemi. La fantascienza, per esempio, è quasi morta. Da Hiroshima agli anni settanta, essa ha prodotto grandi libri, in seguito però si è spenta. Sono rari gli autori che sono riusciti ad andare oltre. Vonnegut, Ballard, Dick e pochissimi altri. La crisi della fantascienza mostra la nostra incapacità di prevedere e di pensare il futuro, motivo per cui ci si è concentrati sul presente.
E il presente come lo raccontano gli scrittori?
Attraverso il romanzo consolatorio o attraverso il noir. Questa dicotomia è ancora più evidente nel cinema, dove, accanto ai film fatti solo d’effetti speciali che sfruttano quasi sempre il modello del noir, ci sono pellicole che, adottando il modello televisivo, hanno contribuito al trionfo del cinema consolatorio fatto dal ceto medio per se stesso. Dove il ceto medio, per dirla con Adorno, appare come il depositario dell’umano.
A proposito del successo del noir, c’è persino chi ha parlato d’imperialismo del poliziesco, tanto il genere è ormai utilizzato da scrittori di ogni tipo…
E vero, il noir è oggi il genere dominante. Qualsiasi scrittore pensa di dover scrivere un giallo. Così, anche Dacia Marami o Ginevra Bompiani fanno libri di genere. Ormai l’eroe del nostro tempo non è più lo sceriffo o l’esploratore spaziale, ma il serial killer. Naturalmente, nella narrativa noir si trova di tutto. Ci sono soprattutto i facitori di prodotti, compreso l’ottimo Camilleri, che scrivono opere consolatorie per rassicurare la classe media. Ma ci sono pure scrittori come Derek Raymond che disturbano le coscienze. Anche in Italia alcuni narratori provano a muoversi in questa direzione. Penso a Genna, Evangelisti e pochi altri che cercano disperatamente – e a volte vi riescono – di usare il genere per esprimere le loro pulsioni artistiche. Insomma, ci sono i furbi che applicano semplicemente una ricetta e quelli che invece in qualche modo si rifanno ancora a Dostoevskij, nel senso che si sforzano di capire il male del mondo, interrogandosi sul perché la nostra società stia andando a rotoli. Mentre la piccola borghesia si autoconsola, un autore come Evangelisti, magari in maniera distorta e un po’ caotica, certi problemi prova a porseli.
Significa che anche all’interno dell’omologazione della cultura di massa qualcosa si muove?
Ci sono alcuni scrittori non ancora completamente condizionati che si servono del genere per fare un ultimo tentativo – probabilmente disperato – di rivolgersi al ceto medio per scuoterlo invece di consolarlo. Il loro è un discorso minoritario. D’altra parte, sempre di più l’arte è minoranza, mentre la maggioranza è solo consumo, merce e dominio della banalità. Per questo è tanto difficile trovare la novità che stupisce e sconvolge, aiutandoci a capire meglio i problemi nascosti, le angosce, i dolori e le follie di un’epoca.
È questo che dobbiamo chiedere oggi alla letteratura?
E il compito che dobbiamo chiedere alla cultura, e quindi anche alla letteratura. Dobbiamo chiedere l’arte e l’educazione, che sole possono salvare il pubblico dal diluvio melenso della comunicazione trionfante. Una volta, il regista Jean-Marie Straub, durante un dibattito con Moretti, ha detto giustamente che il suo scopo non è fare film per gli spettatori, ma film per i cittadini, esprimendo così la speranza di un pubblico diverso. Un pubblico non di consumatori passivi, ma di persone attive, capaci di partecipare e interrogarsi sulla realtà e la storia in cui vivono. Il pubblico di cittadini avrebbe però bisogno di maestri, che purtroppo oggi scarseggiano. Trent’anni fa, la mia generazione aveva maestri come Moravia, Calvino, Pasolini, la Morante e l’Ortese. Erano maestri con cui potevamo dialogare e anche litigare, visto che una generazione deve sempre litigare con quella precedente. Oggi però le giovani generazioni si ritrovano a fare i conti con padri insulsi, con i quali non possono neppure litigare. Non si può litigare con persone che ti compiacciono nel tuo orrore.
Se non ci sono maestri per le giovani generazioni è anche colpa dell’editoria?
L’editoria è schiava e artefice del male. Si adatta e accompagna il movimento, perché il suo unico scopo è vendere. Einaudi, Feltrinelli e gli altri editori che una volta erano all’avanguardia fanno ormai pochissimi libri interessanti. La quasi totalità della loro produzione è fatta di merci mediocri che inseguono le mode e i gusti del pubblico. Pubblicano quasi sempre libri che aiutano a non pensare, libri a base di consolazione e furbizia. E invece la cultura dovrebbe aiutarci a capire, a intervenire, a essere più intelligenti. Da questo punto di vista, la saggistica italiana sta anche peggio della letteratura. Eppure non mancano i giovani studiosi curiosi e dotati di talento, i quali però, dopo aver fatto alcuni lavori interessanti, quasi sempre si spengono, muoiono. Perché sono fagocitati dall’humus culturale corrotto e privo di stimoli in cui vivono. E soprattutto non trovano adulti – magari editori – con cui dialogare, adulti che li aiutino a crescere.
Cosa deve fare un bravo editore?
Avere coraggio e andare controcorrente. Deve commissionare i libri alle persone giuste, andandosele a cercare. E quello che ho sempre fatto io con le riviste che ho diretto, al cui interno ho sempre cercato di dare spazio ai giovani autori. Un bravo editore deve fare scelte forti, non può essere onnivoro, amare tutto e il contrario di tutto. Si può essere curiosi di tutto, ma non si può amare tutto. Un bravo editore deve mettere in circolazione idee nuove e originali, invece i nostri editori vendono quasi sempre l’ovvio. E anche per questo che in Italia non esiste una saggistica decente. Pubblichiamo Naomi Klein e tutti i suoi replicanti, ma non abbiamo un solo libro serio e ben fatto sul rapporto tra finanza e scienza, che è una delle grandi questioni del nostro tempo, una di quelle che rischiano di cambiare i nostri destini.
Nessuna speranza?
La mia speranza è nella piccola editoria. Un’editoria necessariamente minoritaria e marginale che sappia cercare opere originali, magari sbagliando, ma sempre evitando d’inseguire i gusti del pubblico di massa. Purtroppo l’editoria, grande o piccola che sia, di solito non sopporta chi è minoritario. Anche l’editoria che si dice di sinistra se ne tiene alla larga, perché la cultura di sinistra ha sempre avuto orrore delle minoranze. E invece oggi, in questo contesto dominato dai disastri della cultura di massa, la minoranza ha un valore in sé. Il problema delle minoranze è che devono agguerrirsi contro le maggioranze, anche a costo di ritirarsi nelle catacombe e tornare ai samizdat.
E come le sembra la situazione della piccola editoria?
C’è molta vitalità tra i piccoli editori, anche se spesso sono deboli e aleatori. L’Italia è un paese ricco, circolano molti soldi, grazie anche ai finanziamenti pubblici e alle associazioni. Tutto ciò consente la creazione ogni anno di numerose nuove case editrici, molte delle quali però nascono e muoiono. Alcune durano di più, altre diventano veri e propri editori come e/o o Iperborea. L’importante è che non degenerino, diventando una parodia delle grandi case editrici. I piccoli editori devono essere consci dei loro limiti e far bene il loro mestiere, stanando autori nuovi, che poi – inevitabilmente – gli assegni più cospicui dei grandi editori porteranno loro via. Insomma, l’alternativa alla grande editoria di consumo esiste, ma è un’impresa difficile, anche perché i piccoli editori non trovano sufficientemente spazio nella distribuzione e nelle librerie. Tante iniziative utili e coraggiose sono così penalizzate. Penso per esempio a nottetempo, che non a caso è stata creata dalle figlie di due grandi editori, Einaudi e Bompiani, ma anche a Giano, a Meridiano Zero, al Maestrale, a l’ancora del Mediterraneo, a Avagliano, a Besa e a tanti altri.
Molte di queste case editrici sono centro-meridionali. Secondo lei è un caso?
No, perché nel Sud l’accesso alla cultura è più recente e quindi siamo ancora nella prima fase della democrazia letteraria. Nel Sud ci sono più energie e più curiosità. Oggi, l’egemonia culturale del Nord è molto ridimensionata. A Roma, per esempio, c’è una vitalità editoriale senza precedenti, grazie a case editrici come e/o, Fazi, Fandango, minimum fax, Fanucci, Newton Compton e molte altre. Roma è diventata un centro nevralgico dell’editoria. Insomma, il panorama editoriale è oggi meno monolitico e più frazionato, forse anche perché da qualche anno assistiamo alla rinascita violenta del localismo. L’Italia è tornata a essere il paese dei campanili, dei comuni che si fanno la guerra. Un paese dove il potere locale diventa enorme, mentre il centro serve solo per le basse mediazioni. In questo contesto, le regioni vanno ognuna per conto proprio anche sul piano culturale, lanciando nuove iniziative sull’onda di una specie d’orgoglio locale. Tutto ciò produce molta editoria pessima, ma anche qualche esperienza stimolante.
Lei ha spesso collaborato con la piccola editoria…
Quando faccio un libro con una piccola casa editrice, lo faccio solo nell’ottica della riproduzione di minoranze. Da pochi a pochi. Ognuno si salva da sé. Chi è insoddisfatto dello stato delle cose, se è un minimo curioso, va a cercarsi le poche cose buone che circolano. A costoro cerco di far conoscere qualcosa di diverso, aprendo qualche spazio, instillando qualche dubbio. Ma è un lavoro che si può fare solo da pochi a pochi. Se entrassi alla Mondadori, sarei nel meccanismo dominante e sarei neutralizzato anch’io. E anche per questo che sono sempre stato lontano dai grandi gruppi editoriali.
I grandi editori sono però riusciti ad avvicinare al libro un pubblico che magari prima non leggeva. Hanno allargato l’area della lettura. Non crede che sia un dato importante?
Ho sempre pensato che un analfabeta intelligente valga molto di più di molti lettori cretini. E vero che oggi si legge di più, ma ciò non implica necessariamente un miglioramento. Molti, infatti, leggono solo per non pensare. Magari leggono dei capolavori, ma sempre per non pensare. Prendono in mano i grandi classici, ma poi li leggono come un qualsiasi prodotto di consumo, neutralizzandone ogni valenza critica. Così, poi, per ragionare sul mondo di oggi, non hanno strumenti. Nessuno glieli dà.
Da qui la necessità della pedagogia?
Certo. La pedagogia purtroppo è la grande sconfitta del mondo contemporaneo. Il ceto pedagogico non esiste più, si è sciolto. La scuola è solo una parodia della scuola. Fare pedagogia è sempre più difficile, anche perché il futuro non esiste più. Siamo tutti senza futuro. Eppure è più che mai necessario trasmettere un sistema di valori e di conoscenze. Come pure è necessario liberare la testa della gente da tutte le stupidaggini accumulate nel tempo. Il programma, in fondo, è ancora quello dell’Ulisse dantesco: «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Partendo da qui, si dovrebbe potere costruire un’industria culturale decente, in cui quelli del ben fare, sempre per usare le parole di Dante, possano trovare un ambito di contatto e di scambio con quelli del ben pensare. Solo così la situazione potrà iniziare a cambiare. Purtroppo quelli del ben pensare in Italia mancano drammaticamente. E mancano soprattutto gli eretici. In Italia, sono tutti profeti, ma non c’è un solo eretico. Nel nostro paese non abbiamo bisogno di lezioni di scrittura o di gestione della libreria. Abbiamo bisogno di lezioni di eresia.
Uno dei compiti dell’editoria non dovrebbe essere proprio quello di mettere in relazione il ben pensare con il ben fare?
Esattamente, anche perché il ben pensare è l’ambito in cui l’editoria dovrebbe avere più forza. Un’editoria efficace dovrebbe mettersi alla ricerca dei talenti e delle intelligenze, in Italia come all’estero. Dovrebbe svolgere un ruolo pedagogico. In passato è stato così, forse perché gli editori avevano un progetto. Oggi un progetto non ce l’ha più nessuno. Di conseguenza, tutto è molto più difficile. Ma non bisogna rinunciare. Io continuo a battermi. Io che sono il più analfabeta di tutti gli intellettuali, che ho fatto solo il maestro elementare, che non ho mai studiato e non so le lingue. Continuo a battermi per la trasmissione di valori e conoscenze, per favorire la nascita di nuovi eretici. Purtroppo, sono solo e non sono molte le case editrici disposte ad aiutarmi.