L’informazione genetica non mancava

Tra le conseguenze del dibattito innescato dal quesito referendario sulla procreazione assistita e le tematiche correlate (clonazione degli embrioni, ricerca sulle cellule staminali, manipolazioni genetiche e terapia genica) c’è anche un cospicuo incremento della saggistica dedicata all’argomento. Nella produzione libraria di case editrici generaliste e piccoli marchi di settore il tema del referendum viene declinato in modalità che superano la dicotomia favorevoli/contrari: nelle parole di ricercatori, giornalisti, politici, narratori, personalità mediatiche e tecnici emergono le criticità della legge, le evidenze della ricerca scientifica, i fantasmi della fantascienza.
 
In saggistica scientifica, dalla primavera 2004 alla primavera 2005 c’è stato il boom dei saggi sulla procreazione assistita. Quelli che hanno perso il referendum per abrogare quattro articoli della legge 40 del 2004 – o l’hanno vinto e perso il quorum – dicono che è colpa della disinformazione. Ma l’informazione c’era. Vien da pensare che “non elettori” e “non lettori” siano gli stessi e disertino parimenti urne e librerie. Nelle seconde avrebbero trovato scaffalate di libri che spiegano nei minimi dettagli – fino al livello delle strutture intracellulari dei gameti maschili e femminili – come si facevano o non si dovevano fare i bambini in Italia prima della legge e, spesso, come si possono fare o meno all’estero dopo la legge.
La differenza di genere salta agli occhi. Le autrici, maggioranza schiacciante, difendono innanzitutto la vita della madre, si veda Chiara Valentini, La fecondazione proibita; Eleonora Cirant, Non si gioca con la vita; S. Bonsignori, I. Dominijanni, S. Giorgi, Si può. Procreazione assistita, norme, soggetti, poste in gioco; Laura Colombo, Il sogno di essere madre. Mentre autori come Antonio Socci e Carlo Casini, in In difesa della vita, ritengono che un concepito abbia più diritto di vivere della madre. Però somigliano alle autrici femministe e di sinistra, son convinti che tra poco i biologi sapranno produrre in provetta un bambino intero. Credono nella scienza onnipotente, e la temono.
L’interesse per come fare e non fare i bambini si ritrova in una saggistica meno legata alle vicende politiche. In Angelo Vescovi, La cura che viene da dentro. La grande promessa delle cellule staminali e le alternative alla clonazione, in Gianna Milano e Chiara Palmerini, La rivoluzione delle cellule staminali e, con stile più severo, in La ricerca sugli embrioni in Europa e nel mondo. Leggi e documenti, a cura di Maurizio Balestreri e Arianna Ferrari.
Per Vescovi, che fa ricerca sulle staminali adulte del cervello dal 1992, cioè da quando in Canada ha partecipato alla loro scoperta, creare embrioni in vitro per trarne cellule da studiare in laboratorio è una mostruosità, mentre è lecito trarle da embrioni congelati, ceduti dai donatori dei gameti che li hanno prodotti. Per Gianna Milano e Chiara Palmerini, che si definiscono ognuna come “giornalista scientifico” forse perché il maschile ne sottolinei l’imparzialità, si tratta di scelte morali e sociali che nel caso dei ricercatori sono dettate dall’oggetto del loro lavoro e dai finanziamenti cui anelano.
Fin qui tutti e tutte concordano: non è giusto clonare un embrione a scopo riproduttivo. “Clonare” è un modo di dire: tecnicamente, si tratta di “trasferimento dei geni nucleari” perché il nucleo e i suoi geni, presi da una cellula adulta, vengono messi in un ovulo enucleato. Clonare un figlio è male, nell’opinione prevalente alle Nazioni Unite come nel resto del mondo. Sostenere il contrario è mal visto, non lo fa nessuno. Eppure avrebbe un senso, rispetto alla fusione di ovulo e spermatozoo con il metodo tradizionale che, vettore dell’inseminazione a parte, rimane grosso modo uguale se praticato in casa, in ambulatorio o sotto il microscopio. Nella clonazione c’è una differenza tecnica e nel suo prodotto c’è una differenza genetica perché invece di avere una mescolanza di cromosomi paterni e materni, i cromosomi sono quelli di una singola cellula adulta. Il che non garantisce affatto una discendenza monocolore, come dimostrano le variazioni nelle strisce delle splendide lucertole della California Cnemidophorus inornatus, che si riproducono per partenogesi e quindi tramandano alla prole unicamente i cromosomi materni. Il C. inornatus, infatti, s’è estinto più di centomila anni fa lasciando la C. inornata a cavarsela da sola con la riproduzione della specie.
Mettiamo che un concepito umano abbia una madre e basta, perché la donna che lo ospita in un proprio ovulo è anche quella da cui vengono i geni nucleari. Sarà quasi sicuramente una concepita, “quasi” perché nuove rivelazioni sul cromosoma X di cui le femmine hanno una coppia (al posto di un X e un Y per i maschi) pubblicate dal settimanale «Nature» costringono a pensare il sesso biologico come tante possibilità distribuite lungo un continuo che va da Arnold Schwarzenegger a Julia Roberts, con migliaia di permutazioni e combinazioni potenziali tra i caratteri del primo e della seconda. Fra le C. inornatae per esempio, parte delle femmine montano le altre in uno strano e breve simulacro di accoppiamento e non depongono mai uova. Tra gli esseri umani come tra le lucertole californiane, la concepita non sarà una gemella della madre. Geneticamente si somiglieranno meno dei gemelli omozigoti che conosciamo, perché la figlia si svilupperà in un grembo e poi in un ambiente diverso da quello in cui s’è sviluppata la madre, la quale si troverà in un ambiente diverso da quello in cui si era trovata sua madre. Basti pensare all’influenza positiva che ha avuto l’alimentazione più ricca delle madri sull’altezza degli italiani, o a quella negativa, tuttora perdurante nei neonati, dei defolianti usati dagli americani in Vietnam.
All’infuori della fantascienza e dei microbi che si riproducono per divisione e troppo in fretta perché l’ambiente faccia in tempo a influire sui loro geni, i cloni identici sono rarissimi e lo sanno persino i cardinali. Non perché abbiano tentato di clonarsi, lungi da noi ecc., ma perché avranno visto un giardiniere mettere in terra un rametto preso da un’ortensia e scoperto che ne cresceva una pianta inconfondibile. Eppure più clone di così… Sanno anche che ogni nuovo individuo è geneticamente unico e da accogliere a braccia aperte in quanto vita sacra. Eppure non ne vogliono sapere. E nemmeno i laici nei libri elencati fin qui. Per tutti il figlio va concepito come Dio comanda.
Fa eccezione Arlene Judith Klotzko in Cloni di noi stessi? Avvocata e consulente in bioetica, non è scandalizzata dalla clonazione riproduttiva. Riporta miti e pregiudizi alle loro fonti nella fantascienza e smonta abilmente certi argomenti zoppi come quello della “china pericolosa”; ritiene che un bambino clonato nascerà comunque un giorno o l’altro, tanto vale prepararsi. Un bambino e poco più, scrive, perché la maggioranza dei cloni falliranno prima di nascere. La preoccupano invece le possibili derive della clonazione terapeutica. Qui le parole mentono. Per ora la clonazione è terapeutica all’incirca quanto la guerra è umanitaria. Dagli embrioni clonati, si tolgono cellule staminali per farle riprodurre in vitro, per provare a farle convivere o a fonderle con altre cellule, a inserirle in qualche tessuto, tutt’al più in qualche animale. Non per trapiantarle in un paziente, perché i primi tentativi hanno mostrato che inducono tumori. Questo succede di rado con le staminali adulte usate – senza saperne l’esistenza, così come il Borghese gentiluomo usava la prosa – in decenni di trapianti del midollo, per esempio. Arlene Klotzko pensa che l’ostacolo verrà superato e caldeggia la “clonazione terapeutica”. Teme però che ne sorga una vera e propria industria di cloni su ordinazione, prodotti in serie per chi se li può permettere e intende sfruttarli per vivere più a lungo in buono stato. Una volta raggiunta la dimensione giusta, verrebbe commesso il delitto, scrive: esseri umani a pieno titolo sarebbero smembrati per rifornire il cliente in pezzi di ricambio. Il libro rielabora interventi che hanno ispirato Never Let Me Go, il romanzo di Kazuo Ishiguro.
Arlene Klotzko fa parte dei laici e delle laiche così fiduciose nelle terapie promesse dalla ricerca su embrioni clonati che trascurano un particolare. Non si clonano embrioni senza ovuli, presi da donatrici giovani e sane. Queste ricevono un cocktail di farmaci perché ne producano tanti, tutti in una volta, e per contrarne l’utero in modo che non li perdano prima del prelievo (intervento, quest’ultimo, decisamente invasivo). In inglese si chiama harvesting, “mietitura”, parola che la dice lunghissima sul disinteresse per il campo coltivato. Ai lettori, suggeriamo un esperimento mentale. Chiudano gli occhi e immaginino di essere “mietuti” con una grande siringa inserita in un loro orifizio chiuso e contratto dai farmaci. La procedura che mira a ottenere conoscenza, non sollievo a una persona, pare loro eticamente accettabile?
Dopo, le donatrici provano dolore per alcuni giorni, hanno disturbi dovuti alla dose massiccia di ormoni per mesi e un terzo soffre di danni più gravi, dalle emorragie ricorrenti alla sterilità.
Nessuno ha verificato se il cocktail produceva effetti indesiderati sulle ventenni sane perché, diversamente dalla pillola per esempio, all’origine era destinato ad aiutare le trentenni ad avere figli. Finché doveva risolvere un problema terapeutico (sempre che si consideri il desiderio insoddisfatto di maternità un problema terapeutico) non c’era motivo di saggiarlo con esperimenti clinici su delle volontarie, così come non c’è motivo di saggiare l’appendicectomia su persone con un’appendice perfetta. Adesso la situazione è cambiata: per creare un singolo embrione perfino Woo Suk Hwang, detto “il mago di Seul” per la bravura tecnica, spreca decine di ovuli. I ricercatori americani e inglesi decisi a imitarlo si moltiplicano: un singolo istituto, appena fondato in California, ha calcolato il proprio fabbisogno in «decine di migliaia di ovuli all’anno» da qui al 2010. Equivalenti a migliaia di donatrici poco più che ventenni, ogni anno.
Perché si prestino, non si sa – o meglio, si è saputo l’anno scorso che il mago di Seul aveva arruolato ricercatrici del proprio gruppo, cosa che successivamente gli è stata vietata dal comitato etico – ma Judith Norsegian, laica, femminista e di sinistra è preoccupata. È la coordinatrice del gruppo delle Boston Women e caporedattrice del loro manuale di medicina Noi e il nostro corpo, venduto a milioni di copie nel mondo. Nel febbraio 2005, in un articolo sul quotidiano laico e progressista «Boston Globe», si è indignata perché i rischi corsi dalle donatrici non erano mai tenuti in conto. A giugno, il settimanale «Science» ha finalmente pubblicato un articolo di un biologo e di una filosofa che esigevano controlli più rigorosi. In Italia, ne ha scritto soltanto Angelo Vescovi. (Perciò ho accettato volentieri di fare la cura redazionale del suo libro anche se sulla legge 40, e su altro ancora, abbiamo posizioni diverse. Questa nota dichiara un mio conflitto di interessi e corregge l’errore di alcune recensioni in cui risultavo sua co-autrice.)
Per avere figli somiglianti a quelli desiderati, la clonazione è un metodo complicato dal risultato incerto. Meglio provarci con manipolazioni genetiche: così saranno belli, alti, longevi, sani, geniali e non faranno causa ai genitori per averli messo al mondo brutti, bassi, malaticci e tonti, scrive Gregory Stock, un biofisico dell’università della California, in Riprogettare gli esseri umani. E il più provocatorio e spassoso dei libri di questa rassegna tutt’altro che esaustiva: invita a imboccare la “china pericolosa” e a godersi la discesa. Per un parere opposto, rimandiamo a un bel saggio di Margherita Fronte e Pietro Greco, giustamente premiato, Figli del genoma.
Pazienza se non è possibile modificare un gene senza innescare cascate di modifiche in altri geni, se interventi di questo genere, costosi e riservati a pochi, darebbero vita a una classe “oggettivamente superiore” – scrive Stock lasciate la scienza lavorare senza vincoli e diventeremo i padroni della nostra evoluzione, vedrete, avremo un futuro radioso. Lo annunciano da millenni i padri delle chiese e dei partiti come se dipendesse da loro invece che da noi: e qui Stock ci diverte meno. Da padre della scienza, evita di guardare quello che succede oggi, non vede che le manipolazioni genetiche sono ferme ai tentativi di terapia genica. Ci sono stati progressi reali, intendiamoci. Nei casi in cui si può distinguere precocemente un embrione “difettoso”, viene buttato, abortito o nasce per una vita breve o grama, come la campagna referendaria ha ben chiarito. Finora la manipolazione preventiva ha avuto successo una ventina di volte su oltre ventimila. Negli esseri umani, la terapia genica è ferma dov’era nel 1990 quando è stata tentata per la prima volta; resta anch’essa un metodo complicato dal risultato incerto. Prima di disperare, si tenga conto del fatto che ottiene buoni risultati sui topi e non si escluda che li ottenga un giorno su di noi. Che con i topi abbiamo un 98% di geni in comune.