Libro di culto in versione fotocopiata prima, bestseller di classifica poi, fino alla riproposta dell’editio princeps: quello di Moccia è un successo costruito dal basso, in cui il favore del pubblico condiziona e orienta la strategia editoriale. In piena postmodernità, il passaparola dei lettori più giovani sancisce la riscossa dell’unico genere paraletterario non ancora sdoganato, il rosa. Certo il sentimentalismo edificante, innestato sul romanzo di formazione tardoadolescenziale, è riscritto con il ritmo di un videoclip: eppure, dietro i patemi d’amore che trasportano lettrici e lettori «tre metri sopra il cielo», c’è ancora l’archetipo di Liala.
3MsC: ovvero Tre metri sopra il cielo. Il linguaggio scorciato degli sms, che dai cellulari degli adolescenti rimbalzano sui diari scolastici e i muri cittadini, bene illustra il favore strepitoso con cui il pubblico giovanile ha accolto il romanzo di Federico Moccia.
Uscito dapprima presso due piccoli editori romani, il Ventaglio e Capasso, il libro viene recuperato da Feltrinelli che lo sottopone a un abile editing: taglio di un centinaio di pagine, semplificazione sintattica, alleggerimento del montaggio narrativo. Macinando stampe su ristampe che lo insediano stabilmente nelle classifiche 2004, Tre metri sopra il cielo si avvia, o almeno ambisce, a diventare un libro cult per i lettori adolescenti. Tratto dall’opera, un film peraltro insipido aiuta a incrementare le vendite, suggerendo un’ulteriore operazione editoriale: la riproposta, all’inizio del 2005, sempre per i tipi della casa milanese, l’editio maior, «la versione del 1992!», come recita la bandella. Mossa, questa sì, davvero stupefacente: basta confrontare le sequenze iniziali e finali per cogliere al volo con quale ingenuità di scrittura Moccia abbia intrapreso la sua carriera di romanziere, e apprezzare la mano dell’editor che ne ha corretto l’imperizia compositiva.
Eppure proprio la riproposta della prima versione – controproducente per il profilo d’autore, ineccepibile nell’ottica feltrinelliana (tirature nuovamente alle stelle, ritorno in classifica) – ancor più sollecita l’indagine delle ragioni che hanno reso la storia di Step e Babi un vero bestseller. Contrariamente a quanto si continua a credere, è stata la scelta del pubblico a condizionare e orientare la strategia editoriale, non viceversa. Nessuna anticipazione su magazine nazionali, nessuna comparsata nei salotti televisivi, nessun lancio spettacolare del personaggio-autore: solo la forza del passaparola di chi, sin dall’inizio, ha accolto Tre metri sopra il cielo con entusiasmo crescente. Solo dopo questo straordinario consenso di massa, un marchio prestigioso interviene a mediare fra domanda e offerta e con sicuro piglio imprenditoriale e abilità di editing, “istituzionalizza” l’opera.
Ecco perché il caso Moccia è interessante. La vicenda che ha per protagonisti Step, violento ragazzo pariolino, e Babi, una diciottenne bella e perfettina, altro non è che una romantica, adolescenziale storia d’amore, dalle tinte marcatamente “rosa”: i lettori più giovani hanno sancito la riscossa dell’unico genere paraletterario che la stagione del postmoderno non aveva sdoganato; Feltrinelli ha preso la palla al balzo per replicare, in contropiede, alla strategia dell’einaudiano «Stile libero»: al «volto nero dell’Italia» – questo l’headline di Crimini, l’ultimo volume della collana – oppone gli struggimenti sentimentali della gioventù, ribelle solo in apparenza.
Tre metri sopra il cielo presenta tutti gli ingredienti del genere elettivamente destinato a rappresentare gli affanni trepidi, gli ardori appassionati e le traversie dell’innamoramento: il tutto senza alcun cedimento alle seduzioni disinibite del sesso. Non solo occorre aspettare la conclusione per assistere alla prova d’amore che, dopo innumerevoli dilazioni, la protagonista finalmente accorda a Step (p. 294); ma anche le altre scopate, poche e soprattutto alluse più che descritte, si svolgono in un’atmosfera sospesa e rarefatta, in sintonia con l’immagine celestiale del titolo.
Il libro si apre su una gustosa scenetta che si svolge nel buio di una sala cinematografica: alle avances di un corteggiatore «gaggio», che si slaccia i pantaloni, Babi risponde spiaccicandogli addosso il cono di un gelato. Il tono di beffa divertita, mentre delinea il carattere risolutamente perbene della fanciulla, chiarisce il clima di serena quotidianità adolescenziale, in cui i sussulti erotici eccome se ci sono, ma si manifestano e si risolvono senza inquietudini né patemi.
A governare la progressione narrativa è un tipico ritornello sentimentale, cadenzato sul rock più romantico: lui, Step, è «bello e impossibile» e «quest’amore è una camera a gas»; lei, Babi, vi entra con eccitazione e titubanza; ne assapora le lusinghe fascinatrici, ma poi ne esce, pronta a diventare una donna ammodo, abbastanza insopportabile come la sua mamma Raffaella.
Siamo, insomma, al riuso abilmente aggiornato delle convenzioni del genere femminile per eccellenza. E, sia chiaro, non quello seriale, anni ottanta, delle collane «Harmony», «Bluemoon», «Pizzo Nero»; no, qui a essere recuperato è il modello tradizionale che ha reso celebri le nostre firme rosa. Al pubblico delle lettrici meno giovani, o alle loro figlie che hanno trovato in casa i volumi Sonzogno, il nome di Babi non può non ricordare la più nota eroina lialesca, la Beba di Signorsì (correva l’anno 1931). A conferma, basta leggere la conclusione del capitolo 45, quello in cui dopo mille esultanze e incertezze, la ragazza, mezzo ubriaca, passa una notte magica con Step: alla mattina «Sorride. Poi improvvisamente si ricorda di essere stata fra le sue braccia. E vero è cambiata. Molto […]. Finalmente tranquilla, si guarda allo specchio» (p. 256). E, pur sempre vergine, si vede bella e raggiante, perché ha la certezza d’essere amata.
Ma al di là delle più o meno intenzionali citazioni del prototipo indiscusso, Moccia riprende lo schema paradigmatico della narrazione rosa, calando i conflitti del cuore nel nostro frenetico presente. Rispetto ai romanzi che uscivano a puntate sui femminili degli anni cinquanta e sessanta, è ovvio che lo scenario narrativo di Tre metri sopra il cielo sia molto diverso: l’educazione familiare non è più legata a norme di conformismo ottuso e retrivo; anche nel liceo della Roma bene, il Falconieri, è passato il Sessantotto; le sfide fra bande sono a rischio della vita. Sul piano compositivo, a conoscere un cambiamento decisivo sono le strategie discorsive: la spigliatezza dei dialoghi si intreccia alle ellissi degli indiretti liberi e dei pensieri riportati e si accompagna alla velocità del montaggio scenico: Moccia lavora per cinema e televisione, e si vede. Alle pause descrittive, che indugiavano sui dettagli d’atmosfera, si è sostituita la tecnica, ormai dilagante, dello zapping pubblicitario che accumula caoticamente griffe di moda e marchi celeberrimi; sfondo martellante la colonna sonora di Mtv. Inossidabile, nondimeno, resta il nucleo genetico del racconto rosa: «una storia d’amore fine a se stessa», secondo l’appropriata definizione di Brunella Gasperini (intervista di Vittorio Spinazzola, Pubblico ’77).
Il successo strepitoso del libro deriva dall’innesto entro le coordinate del genere sentimentale di una tipologia narrativa oggi altrettanto forte e fortunata: il romanzo di formazione che sollecita nei lettori adolescenti intensi moti di identificazione empatica. Il fenomeno è così macroscopico che, sulla scia dei vari Brizzi Ammanniti e fors’anche Moccia, l’editore e/o concepisce una collana intitolata «Bill-Dung-Sroman», scritta da autori ventenni per un pubblico coetaneo. Tre metri sopra il cielo sfrutta, con furbizia mal celata, il meccanismo, adattandolo allo schema canonico dell’intreccio rosa: la Bildung vale solo per lei, nel rispetto della regola aurea del racconto d’amore che esalta il protagonismo femminile. A sorreggere la progressione narrativa sono gli assilli emotivi che accompagnano l’educazione sentimentale di Babi. E non c’è dubbio alcuno che sia sempre la diciottenne, libera e bella, per usare anche noi uno spot pubblicitario, il personaggio centrale e vincente del romanzo. Come le ripete Pallina, l’amica del cuore che le sbaglia tutte, «Sei una capa». Non è così per Step né per gli altri maschi che compongono la banda dei Parioli. Sì certo, loro si atteggiano a gioventù arrabbiata e maledetta; si infiltrano non invitati nelle feste dei ricchi borghesi e ne devastano le case; fracassano macchine e picchiano duro; ma tutti, prima o poi, soccombono alla loro disarmante fragilità peterpanesca. Pollo, il compagno inseparabile di Step, di cui si innamora Pallina alla ricerca miope e patetica di sicurezza («Pollo è andato lì, ha picchiato quello sbagliato, ma mi ha difesa, capisci. Mi ha protetta» p. 112), si schianta in moto, lasciando alla povera fanciulla come unico conforto il suo giubbotto di jeans.
Il quadro complessivo della virilità è sconfortante: gli adulti peccano di infantilismo impotente e ansie regressive (dai padri ai fratelli maggiori, nessuno si salva); i ragazzi o sono brutalmente scemi o sono fighetti tremebondi. A guidare la schiera è Step, quello «10 e lode» per fascino conquistatore e prestanza atletica: ma sotto la scorza del teppistello prepotente, davanti a cui si inchinano prof, autoritarie e delinquenti di mestiere, si nasconde il fanciullo disperatamente innamorato della sua bellissima mamma, elegante e modaiola, che si trastulla con un dirimpettaio, giovanottone di trent’anni. Dalla scoperta devastante di questo “tradimento” derivano i moti di rivalsa aggressiva da cui Step non si libera mai, neanche quando l’affetto sincero di Babi cerca, come in ogni rosa che si rispetti, di redimerlo. Lungi dal crescere, il ragazzo resta un violento inguaribilmente triste, il cui unico desiderio non è ritornare «tre metri sopra il cielo», la condizione di felicità promessa dal titolo, ma recuperare il tempo dell’infanzia quando sulla spiaggia la genitrice lo accudiva premurosa e abbracciandolo «lo avvolgeva con un grosso asciugamano» (p. 319).
Insomma, nulla di nuovo sotto il sole del rosa: il protagonismo femminile si affida alle risorse impavide dell’intraprendenza sentimentale, le uniche in grado di infrangere i vincoli del conformismo familiare, contrastare le ipocrisie adulte e soprattutto vincere il confronto polemico con “lui”. Nessun happy end; ma neanche Signorsì finiva bene; la conclusione, tuttavia, non è meno consolatoria: i patemi d’amore in tanto sono gratificanti in quanto trasportano lettrici e lettori «tre metri sopra il cielo», cancellando tutto ciò che c’è sotto e confermando l’ordine costituito, massime quello dell’intimità d’affetti.
Il successo del romanzo è stato così travolgente che la Feltrinelli ci ha subito riprovato con SLa le stelle quante sono di Giulia Carcasi, pubblicato nella stessa collana «Super UE»: simile il titolo, nell’allusione alla sfera celeste; pressoché identici personaggi, ambienti, vagheggii e innamoramenti fra compagni di scuola. Ma le repliche, si sa, difficilmente riescono a bissare l’esito fortunato dell’archetipo: se poi ne sono una fotocopia sbiadita, il flop è certo. Né basta l’escamotage della doppia narrazione: da una parte a raccontare è lei, Alice; se si gira il volume – cioè si entra nell’«altra metà del libro» (sic! ) – a prendere la parola è lui, Carlo: il giochino, troppo scoperto e banale, ammorba subito di noia.
Se “rosa” ha da essere, meglio, allora, il buon artigianato di chi intrattiene un colloquio aperto e limpido con il pubblico fedele delle lettrici. Anche La bambina perduta, ultima opera di Maria Venturi, è in classifica: a colpire in questo testo è l’ardore di denuncia con cui l’autrice di Incantesimo racconta la vicenda di una donna, stuprata a undici anni dal compagno della madre. Molto meno rassicurante di Tre metri sopra il cielo, e soprattutto alieno dalla melensaggine del romanticume poeticistico, a cui anche Melissa P. si abbandona nella sua seconda prova, L’odore del tuo respiro, quasi a riscattare l’oscenità dei 100 colpi di spazzola, il romanzo della Venturi conferma la centralità energica del sentimento amoroso nelle vicende di cui una figura di donna è protagonista unica ed elettiva.
Siamo all’elemento forse più equivocamente interessante che caratterizza il mercato delle lettere in questa stagione incerta, in cui la narrativa di genere a struttura forte continua a prosperare, per nulla scalfita dal declino del postmoderno.
Giallo-rosa: nel nostro paese nascono insieme, quasi gemelli. Nel 1929 esce il quartetto di libri polizieschi che inaugurano la celeberrima collana di Mondadori; nel 1931 Signorsì di Liala, stesso marchio editoriale. Poi, si sa, i percorsi proseguono di pari passo, talvolta intersecandosi (Scerbanenco), molto più spesso allontanandosi, fino alla divaricazione netta: sulla narrazione sentimentale continua a pesare l’interdetto censorio che nega al patetico e alle lacrime la liceità estetica finalmente concessa, sul finire del secolo, alla raffigurazione dell’orrore criminale.
Nelle sue caleidoscopiche sfumature, il thriller non solo viene accolto entro l’istituzione letteraria, ma, nell’ultimo ventennio, ne diventa la tipologia dominante. Al di là dell’esagerazione di chi sostiene che l’attualità può essere raccontata solo con le tinte cupe del delitto, meglio se incline alle tonalità crudelmente efferate, non c’è dubbio che il giallo abbia egemonizzato la produzione narrativa italiana. Poco importa il riconoscimento nobilitante di genealogie d’autore, in realtà poco credibili, ciò che colpisce è il consenso che il pubblico, d’intesa con critici ed editori, tributa al genere la cui trama libera e sceneggia le pulsioni aggressive e le fobie mortuarie che sconvolgono l’assetto sociale. Banda della Magliana, serial killer bolognesi, mafia siciliana, gangs della grande Milano, camorristi napoletani: ovunque sia ambientata, la narrazione svela il verminaio di omicidi e corruzione che permea la nostra convivenza, su cui un eroe borghese, indomito e solitario, getta luce chiarificatrice, pur senza mettervi riparo: un cavaliere dell’ordine, magari costituito, che non si fida di nessuno, men che mai delle donne. Anche in quest’ottica ben si capisce che sia stato il commissario Montalbano, campione sciamannato di moderna virilità, a istituzionalizzare il paradigma del giallo. L’ultimo Camilleri, La luna di carta, in testa alla classifica dell’estate 2005, conferma.
Il ritorno del rosa, che Tre metri sopra il cielo esemplifica con evidenza solare, è forse anche la risposta a tutto ciò: il trionfo dei sentimenti che una femminilità non subalterna declina in chiave univocamente amorosa e rigorosamente circoscritta allo spazio dell’intimità più riposta. A fronteggiare la deflagrazione delle pulsioni rovinose di thanatos è chiamata l’evocazione struggente dell’istinto vitale emotivamente dispiegato.
Nel gioco dei colori, l’opera di Moccia segna, allora, anche la rivincita elementare che il pathos ultraromantico oppone al rosso hard delle narrazioni a cui le giovani scrittrici hanno affidato la rappresentazione dell’eros femminile. In questa produzione letterariamente rilevante, ricca di testi suggestivi per struttura e cadenze espressive, la sfera dei moti affettivi è nondimeno così intrisa di tensioni disforiche e masochiste da lasciare interdetti: nei libri di Santacroce, Vinci, Ambrosecchio e compagne, le sequenze che vedono in scena le protagoniste combinano, in una miscela contraddittoria e sconcertante, violenza pulp, ossessioni di maternità e gelide paranoie morbose. Non stupisce, anche se turba, che il pubblico dei ragazzi e delle ragazze di inizio millennio preferisca affidarsi al sentimentalismo edificante del vecchio rosa, specie se rimodellato con l’agilità compositiva dei videoclip e degli spot televisivi.
Aperto resta un problema di non poco conto: come raffigurare l’intreccio di sessualità e desiderio amoroso delle donne di oggi, evitando le convenzionali sdolcinatezze da Baci Perugina di cui è intessuta l’opera di Moccia, e di quanti l’hanno seguito sulla strada del neoromanticismo, senza precipitare nei vortici di una prosa elitaria che nulla concede all’empatia e al piacere di lettura? Non è, naturalmente, solo una questione di sfumature coloristiche, di equilibrio nel sistema dei personaggi, di amalgama fra pubblico e privato; né tanto meno in gioco c’è solo la spigliatezza del dialogo e la calibratura del montaggio. A essere chiamate in causa sono la cultura postfemminista e insieme la scrittura letteraria che continua a interrogarsi sulle «parole per dirlo».