Quando c’era lui …

Come insegna l’opera di Piero Chiara, la quotidianità del Ventennio fascista si è sempre ben prestata a fare da sfondo a romanzi di costume, magari con qualche pennellata di giallo e situati in provincia. In quest’ambito ricadono molte delle avvincenti storie di lago immaginate da Andrea Vitali, medico-narratore divenuto celebre nello scorso anno con La signorina Tecla Manzi, ma vi si colloca anche la mirabolante sarabanda di ricordi che movimenta La misteriosa fiamma della regina Loana, ultima fatica narrativa (e iconografica) di Umberto Eco.
 
Tra gli innumerevoli effetti dei Promessi sposi, c’è quello di avere avviato una catena di romanzi d’ambientazione lacuale e lombarda: storie ritagliate all’interno di piccole e vivaci comunità di riviera, rovistate a fondo nelle loro inquietudini. Piccolo mondo antico e Il piatto piange sono soltanto i grani più lucidi di un rosario ora aumentato dall’opera di Andrea Vitali, nato appunto su quel ramo del lago di Como, a Bellano, dove lavora come medico di base (posizione invidiabile, per chi voglia sentire il polso di un corpo sociale). A Il procuratore, esordio del 1990 patrocinato da Raffaele Crovi, Vitali ha fatto seguire altri sette romanzi, due dei quali -Una finestra vista lago e La signorina Tecla Manzi – pubblicati nell’ultimo anno da Garzanti, con eccellenti riscontri in libreria. Nel primo, si assiste a una girandola di intrighi locali, tra il dopoguerra e gli anni settanta. Desideri, gabole, vendette, segreti di Pulcinella, drammi e pettegolezzi si succedono in un’avvincente commedia messa in piedi da preti, notai, osti, carabinieri, operai, industrialotti e dal medico condotto, segretario della sezione del Pei, figura chiave sebbene il romanzo non abbia un vero protagonista, e scorra rapidissimo nei 148 minicapitoli che, insieme all’epilogo, lo compongono. In effetti Vitali è solito assemblare le sue storie affidandosi soprattutto ai dialogati tambureggianti, scansando tanto l’introspezione quanto le descrizioni di colore. Finisce così per consegnare al lettore lavori di limpida intensità, che fanno pensare a una delle specialità ittiche della cucina lariana, il missoltin, ovvero l’agone asciugato al sole, magro e saporito.
E questa l’impressione che si ricava anche da La signorina Tecla Manzi, che sin dal titolo evoca le gloriose sorelle Tettamanzi di La spartizione (Tecla peraltro è la «polpa, mia massima polpa» in La stanza del Vescovo). Piero Chiara risulta senza dubbio l’autore più immediatamente accostabile a Vitali; d’altra parte, se è vero che entrambi mirano a ravvivare le braci della vita paesana, il lecchese approda a esiti più bonari, estranei all’intreccio tra comico grottesco e funerea amarezza che permea il miglior Chiara. Allo scrittore di Luino, peraltro, riporta la predilezione per vicende calate nel Ventennio fascista, magari con qualche spennellata di giallo. E precisamente quanto accade nell’ultima prova di Vitali, che prilla attorno allo strano furto di un quadretto devoto, appeso sopra il letto dall’anziana signorina Manzi. Se ne occupano un brigadiere sardo e un appuntato siciliano, circondati dal solito bailamme di comprimari: contrabbandieri, gerarchi, capomastri, becchini, strozzini… Di fatto, da questi libri si entra e si esce provando una sensazione di familiarità. Si potrebbe anzi sostenere – come qualcuno fece a proposito di Chiara – che rimescola senza tregua il medesimo mazzo, ma certo Vitali non gioca solitari: scoponi scientifici piuttosto, come suggerisce l’uso spinto di un procedimento elementare, ma non per questo meno efficace, quale è il montaggio alternato tra i capitoli, che innesca un turbinio di carte tale da accendere nello spettatore la curiosità di capire come diavolo si risolverà l’ingegnosa e geometrica partita.
All’opposto, nel suo ultimo romanzo, La misteriosa fiamma della regina Loana, Umberto Eco ha preferito a una pragmatica reverenza alle ragioni della trama – mai così esile, in lui – la resa al fascino dello stipato, concedendosi accumulazioni lussureggianti, libidinose rassegne enciclopediche, sfrenate catene associative, per venire incontro alla volontà del suo eroe, Giambattista Bodoni detto Yambo, di ricuperare la memoria della propria vita. A questo scopo si aggira in fregola nei meandri della casa in collina avita: un luogo circoscritto e misterioso (come il convento o la nave nei precedenti romanzi), dove cercare qualcosa che sfugge, ma si potrà forse ricostruire a partire da un numero finito – altissimo, ma finito – di elementi. C’è poco da stupirsi, invero. Il semiologo non butta via niente, a costo di venir meno al principio su cui tanto ha insistito nell’ultimo decennio, per il quale l’abilità somma degli odierni professionisti della comunicazione starebbe nel decimare a dovere la massa di informazioni che ci aggredisce. Yambo, invece, non può trascurare nulla, perché tutto conta ai fini della costruzione del proprio io: non solo siamo ciò che imparammo, ma le coordinate che determinano la formazione di un’identità passano da Flash Gordon non meno che da Dante.
A partire da questo presupposto, tipicamente echiano, nasce La misteriosa fiamma,un romanzo d’intrattenimento, ma prima ancora sull’intrattenimento; la storia di un’anima, ma prima ancora l’humus della generazione che imparò a ragionare nel decennio 1935-1945, dovendosi confrontare con un apparato mediatico mai così articolato, invaso allo stesso tempo da prodotti americani e dalla propaganda nazionalistica. Yambo non fa che mettere in fila vari campioni della «schizofrenia» che ne deriva, resa tragica dal contatto coi tempi: cataste di cadaveri a Stalingrado, «e noi ascoltavamo ho un sassolino nella scarpa, ahi». Evidentemente, non è tra gli obiettivi dell’autore un’articolata analisi in materia, per la quale bisognerà piuttosto rivolgersi agli irresistibili Fiori italiani di Luigi Meneghello. Non teme confronti, invece, il minuzioso catalogo dei luoghi su cui più volentieri si posava lo sguardo di un ragazzino dell’epoca: i francobolli, le fotografie delle dive, i libri illustrati, le figurine del Feroce Saladino e soprattutto le riviste di fumetti importati d’oltreoceano, che rappresentarono un clamoroso fenomeno di costume (basti ricordare che «L’Avventuroso», prima del 1940, vantava tirature sopra le 300.000 copie, con punte oltre il mezzo milione). Sono centinaia le illustrazioni che si rincorrono tra le righe, tanto magnetiche da prevaricare sovente sul testo, ridotto a commento, se non a didascalia. Da esse prende quota un meccanismo di coinvolgimento che scommette su un duplice lettore modello: disposto ad abbandonarsi alle misteriose fiamme che a ogni visione incendiano il cuore di Yambo; oppure del tutto ignaro, e però lieto di inoltrarsi a mente sgombra in una giungla seducente, con molti cartelli segnaletici (Eco ci tiene a spiegare tutto per filo e per segno), ma attraversata da continue folate di nebbia. Un tema, quest’ultimo, che percorre il romanzo sotto le più diverse spoglie simboliche, per trovare il culmine nei ricordi di un episodio della Resistenza (cap. 16, Fischia il vento), narrato in modi fumettistici ma non perciò meno trascinanti, come è la figura del partigiano anarchico Gragnola, che con ammirabile virtuosismo dialettico prova come Dio sia non solo cattivo, ma pure fascista. Don Bosco, che nell’ultima immagine si fa avanti aureolato e cordiale, non dev’essere del tutto d’accordo.