Prendete un attore del teatro di narrazione; un gruppo musicale di ricerca; una manciata di testi d’autore, da Gianni Rodari a Dino Campana, passando per Mario Rigoni Stern, Biagio Marin e Erri De Luca; un evento-concerto dedicato a una causa ecologica; un titolo provocatorio quanto basta. Il risultato di questo connubio virtuoso è il cd intitolato Sputi, collage di brani cantati e recitati da Marco Paolini con la complicità dei Mercanti di liquore. Un interessante esempio di teatro-canzone militante. Con un rischio: che la supremazia della parola impegnata che media idee giuste e valori universali abbassi il pathos a didascalismo.
Mesi fa, accendendo la radio verso le sei del mattino, mi sono imbattuto in uno di quei ritornelli che – appena li sfiori – ti mettono radici nella testa. Faceva: «Soldatino canta canta / cavalli otto, uomini quaranta…». Una canzoncina da bambini, in apparenza; ma con più sale che zucchero. Voce, chitarra, poco altro; una lunga parte recitata, molto suggestiva. Roba «di qualità», senz’altro. Un nuovo cantautore, probabilmente; eppure c’era qualcosa nel testo, nell’arrangiamento, che faceva pensare a decenni lontani.
Che cosa fa, in questi casi, l’ascoltatore? Aspetta la fine del pezzo, le informazioni del conduttore. Invece, niente: subito pubblicità, poi un giornale radio. Pazienza; i contatti tra me e quella canzoncina – lo sentivo – non erano perduti per sempre. Ci sono prodotti che ti danno la sensazione di essere destinati, presto o tardi, a raggiungerti, perché proprio a te sono rivolti; in questo, probabilmente, consiste gran parte del loro fascino. Se quel motivetto mi si era segnalato fra tanti, era perché rientravo nel suo target. Bastava aspettare. Settimane dopo, infatti, un altro prodotto che mi prende a bersaglio – il supplemento settimanale di un quotidiano – dedicava un servizio (con foto) all’uscita di un cd molto particolare, Sputi, nato dalla collaborazione tra Marco Paolini (l’attore-affabulatore famoso per il suo Vajont)e un trio folk, I mercanti di liquore. Testi di vari poeti e scrittori, primo fra tutti Gianni Rodari. Ma sì: Rodari. Ecco perché la canzoncina mi suonava tanto familiare. Pochi giorni dopo, su un altro settimanale, di nuovo la stessa notizia. Poi, alla radio, uno spot pubblicitario. Potevo ancora ignorare il messaggio? Dovevo procurarmi Sputi.
Non è stata una ricerca difficile. Il cd era là, sugli scaffali del megastore vicino a casa. Mi aspettava. Sborsare quattrini per una novità discografica – lo confesso – mi induce sempre una leggera inquietudine. Certo, la musica è cultura, e va sostenuta; finanziare quella italiana, poi, è quasi un dovere patriottico, ma al dovere compiuto dovrebbe pur seguire un minimo di piacere; invece, capita sempre più spesso che opere decantate come eccitanti novità mi lascino in bocca un gusto di merendina rafferma. E Sputi!
«Sputi» dichiara Marco Paolini nel libretto che accompagna il cd «non è un album ricercato. Abbiamo preferito fissare quel che l’istinto suggeriva. Alcune soluzioni sono rimaste ruvide, l’aria che tira nelle parole ha suggerito la musica». In effetti, a caratterizzare il disco è innanzitutto la supremazia della parola, cantata e recitata. Le musiche («improvvisate più che pensate», come Paolini sottolinea) danno appunto l’impressione di essere poco più di un supporto ai testi. Con rara umiltà e discrezione, Lorenzo Monguzzi (voce e chitarra), Piero Mucilli (fisarmonica e tastiere) e Simone Spreafico (chitarre e basso acustico) hanno messo la loro arte al servizio della pagina scritta. Grazie al loro ritegno (e all’assenza della batteria nell’organico), protagonisti di Sputi sono i testi letterari e poetici prescelti da Paolini: le filastrocche di Rodari, le poesie di Dino Campana, Ernesto Calzavara, Giacomo Noventa, Biagio Marin, Erri De Luca, la prosa di Mario Rigoni Stern. La scelta, come si vede, è a dir poco eterogenea, e il legame tra i vari episodi va detto – non sempre è chiaro. Chi si aspettasse di trovare in Sputi quello che si chiamava una volta un «concept album» resterà forse spiazzato. Partiti da uno spettacolo-concerto dedicato «all’acqua come risorsa e non come merce» (di cui restano qui pochi frammenti) Paolini e i tre Mercanti hanno costruito il disco come un collage di materiali diversi. Ad accomunare i pezzi è – mi sembra – l’intento di mettere a punto una formula di teatro-canzone «militante» già sperimentata dall’attore in altre occasioni, un genere che vanta nella tradizione italiana gloriosi precedenti, dal Nuovo Canzoniere a Giorgio Gaber. Gli esiti più felici, nel disco, sono quelli in cui canto, musica e voce recitante fanno gioco di squadra: Re Federico (su un testo di Rodari), Il sergente nella neve (testi di Rodari e Rigoni Stern), Il mare adriatico (testo di Rodari). Meno riusciti i pezzi più recitati, soprattutto quelli dedicati all’acqua, dove la musica e il canto finiscono per reggere il moccolo ai sermoni («creativi» quanto si vuole) di Paolini. E qui, forse, sta il punto. Ciò che segnala Sputi come un lavoro interessante è la ricerca di un rapporto tra musica e parole, tra poesia e canzone, che sfugga – anche sul piano dei suoni, degli arrangiamenti – ai cliché del pop più corrivo; il suo limite – mi pare – è quello di un didascalismo volonteroso e un po’ ingombrante, che si riverbera qui persino su autori come Campana o Biagio Marin. Si ripropongono, insomma, i problemi che da sempre incombono sulla canzone «impegnata». Per quanto onesto e accurato, il disco di Paolini dà un lieve senso di disagio a chi dalla canzone si aspetta una scossa, grande o piccola, una sorpresa, un verso che lo spiazzi, un turbamento. Non che in Sputi manchino momenti emozionanti; il fatto è che l’emozione è quasi sempre subordinata all’«idea giusta» che le fa da garante: il rifiuto della guerra, l’amore per la libertà, il rispetto per la natura, e via dicendo. Tutte cose sacrosante, figuriamoci; talmente sacrosante da non aver bisogno, per esserlo, di musica e versi. Musica e versi, infatti, si limitano a ribadirle, a illustrarle, a caricarle di pathos.
A un ascoltatore della mia generazione, questa miscela di valori e pathos, quest’opera di suggestione e persuasione, non bastano più: pretenderebbe una vertigine, un rischio, una vera messa in gioco del senso. Pretenderebbe la poesia. Ma forse, dopotutto, non è a me che un disco come Sputi si rivolge.