La vittoria dei maestri

È stato l’anno della saggistica d’autore. Più che un tema forte, la classifica dei successi di non-fiction ha visto prevalere le personalità forti. Sul podio dei vincitori ci sono Fallaci, Terzani e Pansa: tre autori capaci di catalizzare l’attenzione dei lettori con posizioni provocatorie e una scrittura diretta e assertiva. Che si tratti della veemente intransigenza di La forza della ragione, della vicenda umana punteggiata di squarci riflessivi di Un altro giro di giostra, o del recupero di un passato doloroso e controverso come quello descritto in Il sangue dei vinti, è il carisma dello scrittore a fare la differenza. Ed è la sua autorevolezza a essere premiata da un pubblico in cerca di certezze.
 
Scorri le classifiche di vendita dei libri degli ultimi anni e ti rendi conto che almeno una regola c’è. Ovvero che può ancora esistere, in rari casi, una narrativa di successo a prescindere dai narratori di successo, ma non si dà più saggistica di successo senza saggisti di successo. A chiarirlo basta un elenco: Giampaolo Pansa, Vittorino Andreoli, Giorgio Bocca, Giovanni Sartori, Tiziano Terzani, Oriana Fallaci, Massimo Fini, Luciano De Crescenzo, Magdi Allam, Giovanni Paolo n, Alberto Granado. Sono, in rigoroso ordine cronologico, i soli autori che, da gennaio a tutto giugno 2004, sono stati capaci di entrare, con un libro che non fosse di fiction, tra i dieci titoli più venduti della settimana (dati Demoskopea/Corriere della Sera). Nomi abituali tra le graduatorie dei bestseller, spesso firme delle maggiori testate giornalistiche nazionali, cui si aggiungono Giovanni Paolo II, personalità che non ha bisogno di commenti, e un solo outsider, Alberto Granado. Il quale, però, una sorpresa non è: Un gitano sedentario, resoconto sugli anni giovanili di Ernesto Che Guevara, si è infatti giovato del successo della sua trasposizione cinematografica, I diari della motocicletta. Insomma, non c’è dubbio che specie quest’anno sia stata la firma, prima ancora che l’argomento, a conquistare i lettori.
Questo non significa che i temi non abbiano un peso: l’ultimo anno ha premiato, tra le graduatorie della saggistica, soprattutto chi ha scelto di occuparsi della politica internazionale, con speciale attenzione alla questione islamica, lasciando alla sbarra molti di coloro che hanno seguito il filone della politica interna, e in particolare il dibattito attorno al Cavaliere, che invece aveva guidato le vendite nel 2003. E di ciò hanno fatto le spese anche firme consolidate da anni, come Marco Travaglio e Bruno Vespa, solo per citarne due. Ma a ricordare quanto resti l’autore a fare la differenza ci pensa il fatto che tra i tre dominatori assoluti della prima parte del 2004, cioè Fallaci, Terzani e Pansa, solo la prima è legata al tema di maggior successo dell’anno. Un dato che suggerisce almeno una considerazione, a costo di apparire banali: in anni confusi e difficili da interpretare come quelli che stiamo vivendo, il pubblico ha bisogno di essere orientato e tende perciò a prediligere i testi delle personalità più forti o, ai suoi occhi, più autorevoli. Casistica nella quale rientrano in modi diversi ma a pieno titolo il Papa e la ridda di psicologi, spesso accreditati dalla tv, che occupano a turno i primi posti delle classifiche di questi ultimi anni.
Su queste basi è molto più facile capire il successo di Oriana Fallaci: La forza della ragione è il libro più venduto in assoluto della prima metà dell’anno, capace di imporsi persino sulla narrativa, alla faccia del fenomeno Il Codice da Vinci di Dan Brown e di una star come Camilleri. Successo completato dal ritorno in classifica di La rabbia e l’orgoglio e da Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, venduto in 800.000 copie in edicola prima di approdare, ITI settembre, nelle librerie. Proprio quest’ultimo volume conferma come la scrittrice fiorentina si sia ormai costruita un’invidiabile autorevolezza come polemista. Non c’è da stupirsene: ad aiutarla in quest’opera contribuiscono una buona dose di egotismo e una posizione, nell’interpretare i fatti, quasi del tutto inedita nella pubblicistica internazionale. Quanto a La forza della ragione, mai titolo fu meno appropriato. Il libro, lungi dall’essere una lucida riflessione, riprende infatti temi e stilemi di La rabbia e l’orgoglio, del quale costituisce una vera e propria lunga appendice.
Il teorema della Fallaci è di una linearità esemplare: l’Islam è una religione prevaricante e violenta, chi la segue è tenuto a metterla in cima alla sua scala di valori, quindi tutti i musulmani sono violenti e la nostra civiltà è in pericolo. Anzi, in grandissimo pericolo, perché l’invasione islamica non si compie per via militare, ma attraverso gli immigrati, che silenziosamente stanno trasformando l’Europa in Eurabia. La ragionevole soluzione? Difendere la nostra identità, frenare l’immigrazione e, quando necessario, rispondere alla violenza con la violenza. Lo snodo cruciale, secondo la Fallaci, è che tra la nostra cultura e quella islamica non esiste possibilità di dialogo o di integrazione. In qualche modo, insomma, la Fallaci dice qualcosa di destra, e non si può negare che, tra editorialisti e politici, sia l’unica a farlo tanto esplicitamente. E con tanta efficacia: la sua forza sta infatti tutta nello scegliere una linea interpretativa chiara fin dall’inizio e nel supportarla con un impianto retorico assertivo, che non ammette dubbi o repliche. Ma dove la Fallaci si gioca tutto è nel chiamare in causa l’emotività più che la ragione, con tanta testardaggine da correre il rischio di respingere anche chi la pensa come lei pur di fare proseliti. Certo, quando la sua rabbia si spinge fino alla violenza, sta bene attenta a non esagerare facendo ricorso a un lessico bonario, fatto di pedate, cazzotti, botte: «Signor Vescovo, se quella domenica pomeriggio Gesù Cristo avesse avuto la disgrazia di trovarsi nella cattedrale di Caserta […] Le sarebbe saltato addosso e a pedate nel culo L’avrebbe scaraventata in piazza. Qui Le avrebbe tirato tanti di quei cazzotti che oggi non potrebbe mangiar neanche una pappa al pomodoro».
Per il resto, la Fallaci si affida all’arma della ridicolizzazione per stigmatizzare le idee degli avversari. Perciò si sprecano i nomignoli («l’imam di Torino cioè il Pio Sgozzavitelli»), gli sbeffeggiamenti («Signor Presidente della Commissione Europea, so che in Italia La chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella»), i paragoni squalificanti e i colpi bassi. E va a caccia di proseliti vellicando diffusi istinti estremisti, invitando il lettore a non cadere nella falsa trappola del razzismo agitata contro quelli che la pensano come lei e incoraggiandolo a sostenere le proprie idee facendogli scudo con la propria figura. Ci si aggiunga la sua abilità a tenere desta l’attenzione del lettore e il successo è garantito.
Diverso il caso di Tiziano Terzani, anche se per spiegarlo si deve ricorrere di nuovo, in gran parte, al principio dell’autorevolezza. Un’autorevolezza che Terzani si è costruito su due pilastri: assurgendo a campione progressista con la pubblicazione di Lettere contro la guerra, esplicita risposta a La rabbia e l’orgoglio, e con trentanni di vita e corrispondenze giornalistiche dall’Oriente. Perché Un altro giro di giostra è nei fatti una disamina delle differenze tra Occidente e Oriente, pur presentandosi come un libro sulla malattia e da essa prendendo le mosse. Terzani istituisce infatti fin da subito una originale e fruttuosa associazione tra medicina e cultura del mondo che l’ha sviluppata e da questa procede per illustrare idee e comportamenti degli Stati Uniti da una parte e delle filosofie orientali dall’altra. Il risultato è un testo meno lineare e per certi versi più contraddittorio di quello della Fallaci.
Terzani sceglie infatti un impianto retorico argomentativo e lascia una apparente libertà di giudizio al lettore. Invece una tesi di fondo ce l’ha e la propugna: solo che non la enuncia all’inizio e la nasconde nelle pieghe di un percorso di formazione, il suo, che, a complicare le cose, non propone come esemplare. Certo, in questo atteggiamento, gioca un ruolo importante il personaggio che Terzani ha riproposto in quasi tutti i suoi libri: l’occidentale che non riesce ad abbandonare del tutto i suoi schemi mentali pur vivendo, e avendo scelto di vivere, in Oriente. Ma tant’è, la contraddizione di fondo si sente e rischia di far saltare la fiducia del lettore. Che però viene riconquistata quando dal piano generale si scende al particolare, e cioè ai singoli episodi narrati, dove l’intento di Terzani pare più sinceramente quello di far comprendere piuttosto che quello di convincere. E infatti, pur procedendo a colpi di aneddoti e cercando di attirare il lettore attraverso la parte più strettamente narrativa del suo discorso, lo scrittore di Orsigna non manca mai di far seguire a ogni storia, e al suo potere semplificante, un brano di riflessione.
Ma questo alternare narrazione e riflessione è insieme la forza e la debolezza di Terzani: non mancano infatti alcune lungaggini e persino alcuni passaggi a vuoto. Il pericolo, insomma, è perdere l’attenzione del lettore, ma a disinnescarlo ci pensa la struttura del libro, che può essere compulsato come un regesto di dottrine e idee che si susseguono un capitolo dopo l’altro, tenute insieme dal personaggio Terzani. In pratica, il lettore può tranquillamente saltare qualche pagina senza per questo perdere il filo del libro né l’interesse per il suo proseguimento.
Chiude il quadro Il sangue dei vinti, di Giampaolo Pansa, apparso a fine 2003 e capace, in un sol colpo, di vincere tra la saggistica in quello stesso anno e di imporsi tra i libri più venduti anche nel 2004. Tra i tre libri analizzati è senz’altro il più difficile da inquadrare, anche perché qui il tema, le stragi di cui sono stati vittime gerarchi e fiancheggiatori del fascismo dopo il 25 aprile 1945, sembra prevalere sulla firma. O forse sarebbe meglio dire che è la combinazione dei due a risultare esplosiva. Certo, nonostante Pansa dia al testo un impianto narrativo, impostandolo come una conversazione tra lui stesso e un’immaginaria bibliotecaria, è arduo individuare nelle sue strategie retoriche il segreto del suo successo. Perché, in ultima analisi, Il sangue dei vinti finisce per essere un lungo elenco di esecuzioni, che l’esile trovata del giornalista non basta a movimentare a sufficienza. Anzi, l’idea di riesumare un passato così doloroso e controverso tramite una chiacchierata, seppure tra due persone che l’artificio finzionale vuole ben documentate, rischia di compromettere del tutto la credibilità dell’autore e di scoraggiare il proseguimento della lettura. Insomma, in cima alle motivazioni d’acquisto e di lettura del libro sembrano restare l’interesse assoluto per il tema e l’acceso dibattito che ha scatenato. E tanto basta per lanciarsi almeno in un facile pronostico, e cioè che il 2005, sessantesimo della Liberazione, vedrà tra i primi posti delle classifiche di vendita diversi libri incentrati sulla Resistenza e i suoi dintorni. Magari anche alla faccia delle firme.