I dati sulla lettura di cui disponiamo consentono di analizzare il fenomeno secondo diverse ottiche. La lettura funzionale ad altre attività è una dimensione in passato poco indagata, ma invece essenziale sia sul piano editoriale sia per la cultura e l’economia del paese. L’università è il luogo dove meglio riflettere sulla lettura funzionale. E in questo contesto la smaterializzazione del supporto-libro emerge in tutta la sua evidenza: ma l’idea nuova di un accesso ai contenuti indipendentemente dal medium impone il ripensamento radicale dei modi di gestione dei contenuti editoriali.
Lo si ripete spesso: la lettura è un fenomeno complesso, variegato, dai contorni sempre più incerti. Le statistiche sulla lettura sono pertanto difficili da costruire e interpretare perché devono tener conto di questa complessità. Tradizionalmente, per misurare la lettura si utilizza invece una variabile molto semplice: si cerca di rilevare la lettura di almeno un libro nell’ultimo anno. Questa semplicità – che di per sé è un pregio, e non solo nelle indagini statistiche – nasconde tuttavia delle trappole: siamo sicuri di sapere cosa debba intendersi per libro, e per lettura e, persino, per «almeno uno»?
Generalmente si danno per implicite tali definizioni. E allora l’intervistato a discriminare, con risultati che possono essere dubbi. Da alcuni anni l’Istat – molto opportunamente – ha approfondito il tema senza abbandonare semplicità e chiarezza, ma utilizzando tecniche che ci consentono di conoscere più a fondo il fenomeno.
Nell’indagine del 1995, a chi aveva risposto negativamente alla domanda tradizionale sulla lettura di «almeno un libro» nell’ultimo anno, era stato successivamente chiesto se non avesse letto nemmeno un libro «leggero» (una guida, un romanzo rosa o giallo ecc.) che di primo acchito fosse sfuggito. In tal modo, pur conservando la confrontabilità della serie storica aveva scoperto una platea di lettori – definiti in quella occasione «morbidi», con un termine forse non troppo felice – pari a circa il 13% della popolazione italiana.
Nell’indagine del 2000 l’approfondimento è andato in un’ulteriore direzione: si è distinto tra le letture fatte nel tempo libero e quelle funzionali alla propria attività professionale o di studio (ma escludendo, in quest’ultimo caso, i libri di testo). Ne vien fuori un quadro più completo. I «lettori», come tradizionalmente intesi, sono in Italia sempre quelli: poco più del 40% della popolazione, più donne che uomini, più giovani che anziani, più al Nord che al Sud, più nei grandi centri che nei piccoli. Niente di nuovo, dunque: da un anno all’altro piccole variazioni in più o in meno caratterizzano queste indagini senza che sia più possibile individuare una tendenza precisa. Dico non più possibile, perché fino alla fine degli anni novanta il trend sembrava delineato: crescendo l’istruzione, il reddito, evolvendosi i consumi, gli italiani leggevano anche di più. E ormai un quinquennio che ciò non accade più e questo è già un pessimo segno. Magari non si toma indietro, ma si sta fermi. E su posizioni desolanti.
Se guardiamo alle diverse dimensioni della lettura il quadro si complica (Tabella 1). Sommando lettori morbidi e letture funzionali gli italiani che hanno a che fare con i libri arrivano al 60%. C’è da trarne motivo di consolazione? Vediamo.
La lettura funzionale alla professione o allo studio (esclusi i libri di testo) sembra toccare solo il 20% degli italiani. Sono pochi, quindi, quelli che utilizzano i libri nella propria attività professionale, e forse ciò deve suggerire di trasferire il dibattito dagli ambienti culturali a quelli economici: il dato appare infatti come un possibile paradigma della difficoltà della nostra economia sul terreno della competitività e dell’innovazione. Quale produttività ci si può attendere se meno di un quarto del totale degli occupati, circa un terzo di impiegati e quadri e – cifra davvero sconfortante – meno della metà di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti leggono libri per ragioni professionali (Tabella 2)?
Nella lettura per motivi professionali le differenze per sesso sono meno rilevanti che in quella per il tempo libero, mentre permangono quelle territoriali: tutte le regioni meridionali registrano valori inferiori a quelli medi nazionali mentre tutte le regioni del Centro-Nord (a eccezione della Liguria) hanno indici maggiori o uguali a quelli italiani. Diverso il discorso per le letture per motivi scolastici: qui tornano le differenze tra maschi e femmine, queste ultime si confermano lettrici molto più assidue, mentre non sembrano esservi rilevanti differenze a livello territoriale (per i dati di dettaglio si vedano le tabelle scaricabili all’indirizzo: www.istat.it).
Un’ulteriore riflessione può partire dal rapporto tra lettura funzionale e lettura nel tempo libero. Il 5 % della popolazione italiana (poco meno di 3 milioni di persone), pur avendo familiarità con il libro per ragioni professionali, non legge nel tempo libero (Tabella 3). E forse una platea, non piccola, che potrebbe essere conquistata alla lettura con adeguate strategie.
Proprio perché funzionale, la lettura per ragioni professionali e di studio è più soggetta alla competizione tra i media: il contenuto è più importante del mezzo, il fascino dell’oggetto libro si riduce, e piuttosto sono altri gli elementi – la facilità di accesso, la ricercabilità di un contenuto, l’aggiornamento – che creano valore per il lettore. Un terreno dove tutto ciò è particolarmente evidente è l’università, sia nella didattica sia nella ricerca. Entrambe sono soggette a profonde trasformazioni. La didattica va sempre più verso la frammentazione dei contenuti, specie dopo la riforma che ha spinto verso una crescente modularizzazione dei corsi. La tecnologia libro può rivelarsi inefficiente a rispondere a questa domanda e la risposta sono spesso le fotocopie. In una recente ricerca svolta tra gli studenti dell’Università di Rimini alla domanda «abitualmente acquisti libri di testo o usi fotocopie?» il 50% risponde di preferire le fotocopie, solo il 36% acquista prevalentemente libri e il rimanente 14% utilizza entrambi i mezzi. Da un’altra domanda, del resto, risulterebbe che il 54% dei libri sono fotocopiati, con punte del 66-68% in facoltà come Medicina e Statistica (la ricerca, condotta da Laura Vici, è ancora inedita).
Fotocopiare integralmente i libri è illegale. Ma ciò di cui qui si vuole parlare è l’aspetto culturale del fenomeno, anche di lungo periodo, giacché incide su una fase chiave della formazione dei futuri lavoratori-non-lettori di cui ci parla l’Istat. Man mano che si va verso la frammentazione della didattica – che d’altro canto risponde a esigenze che qui non si vogliono mettere in discussione – occorre evidentemente riflettere seriamente sui mezzi con cui gestire in termini di contenuti editoriali questa frammentazione.
Qualche indicazione ci viene analizzando le letture funzionali degli accademici per la ricerca. I dati cui mi riferisco questa volta non sono dati italiani. Un’indagine iniziata nel lontano 1977 presso il Centre for Information Studies dell’Università del Tennessee ha analizzato i comportamenti di lettura di oltre 18.000 accademici prevalentemente, ma non solo, americani e soprattutto, ma non solo, di discipline scientifiche. Tra i molti dati prodotti, e presentati a Firenze la scorsa estate durante il «Fiesole Retreat» (www.casalini.it), è significativo il confronto tra il numero medio di articoli letti da ogni studioso e gli abbonamenti sottoscritti personalmente (Grafico 1). Mentre il primo valore cresceva, dal 1977 al 2003, del 44%, il secondo diminuiva del 66%. In altri termini: si legge di più ma si acquista di meno, potendo usufruire di accessi ai contenuti attraverso le biblioteche o – sempre più, negli ultimi anni – direttamente sul proprio computer grazie ad abbonamenti istituzionali alle riviste che interessano.
L’insieme di questi fenomeni sembra condurre a una smaterializzazione della mediazione editoriale: al centro non c’è più il libro ma il contenuto, veicolato attraverso mezzi diversi. Ma soprattutto cambiano e si diversificano i soggetti che intervengono lungo la catena del valore editoriale. Il ruolo delle biblioteche diventa sempre più essenziale a fianco, nel mondo di Internet, di portali e aggregatori di contenuti che facilitano l’accesso, gestendo assieme gli aspetti economici (abbonamenti, pay per view, o altre forme) e le funzioni di ricerca. Ma un mercato sempre più «immateriale» è un mercato che si fonda sempre più sulla gestione dei diritti. Fare l’editore significa costruire qualcosa su cui poi si gestiscono dei diritti, per sfruttamenti diversi, dove il libro è – o può essere – solo il primo anello di una catena. Lo storico ritardo dell’Italia nel costruire una cultura del diritto d’autore, in questo scenario, può essere esiziale per la nostra editoria. Ci vantiamo di essere un popolo di creatori ma agiamo come un popolo di copisti, infastiditi se c’è da premiare quella stessa creatività.