Nel campo dell’intrattenimento e della narrativa di svago, l’osmosi tra storie viste e lette diviene sempre più marcata e lampante, come provano gli sceneggiati televisivi sul commissario Montalbano e viceversa i trionfi in libreria di Fabio Volo e di tutta la banda di Zelig. Proprio i monologhi di un comico di scuola milanese, Maurizio Milani, insieme alle inchieste poliziesche architettate da Andrea Camilleri e Massimo Carlotto, si possono annoverare tra le più godibili riuscite dell’ultima stagione, grazie anche a modalità stilistiche amichevoli, vicine alle esperienze conversazionali e aperte ai contributi dialettali.
Per accorgersene, non occorre davvero l’occhio di lince. Il peso dell’entertainment televisivo nell’area della narrativa di svago si è fatto ormai preponderante, sino a costituire vere e proprie riserve di caccia, in cui spadroneggiano fenomeni esplosi sul piccolo schermo. L’impressione riguarda in primo luogo i prodotti destinati al pubblico giovane, come insegnano i successi travolgenti in libreria di Fabio Volo, DJ, showman e attore bresciano; ancora più frenetico si è rivelato l’assalto all’allegro scaffale sfornato dalla brigata di Zelig per la Kowalski di Gino e Michele, premiata in blocco, senza riguardi alla diseguale qualità dei testi. Dispiace, perciò, che anche macchiette stucchevoli o certe boiate da caserma abbiano potuto oscurare il nuovo libro di Maurizio Milani (alias Carlo Barcellesi, da Codogno), puledro della medesima scuderia ma da tempo assente dalle ribalte catodiche, dove negli anni novanta si era fatto notare per il cinismo ruvido e surreale.
Sin dal titolo, La donna quando non capisce s’innamora, Milani si riallaccia al precedente volume, sul quale brillava in copertina l’esortazione a bere liquori e illudere la donna. D’altronde, quale femmina sana di mente potrebbe mai resistere a chi per lavoro tosa scimmie al circo Medrano, o «spacca i protoni per Carlo Rubbia»? La formula, in effetti, non è mutata: si tratta di un’altra collana di monologhi attribuiti a un maschio che «ragiona male», e rischia perciò di finire, ridotto a «barbone», in un fosso della Bassa Padana o in un cassonetto milanese. La scintilla scocca negli attacchi, che stordiscono instaurando situazioni assurde: «Oggi mi sono ordinato una perquisizione in casa mia»; «Ho il vizio di farmi chiamare in stazione all’interfono, non ho altri hobby»; «Ieri abbiamo mollato 350 canguri su un’isola in mezzo al fiume Lambro». Dopodiché se ne indagano con logica ferrea ed esilarante le conseguenze.
Per lo più, a sfrigolare sulla graticola sono oggetti, circostanze e miserie quotidiane, accostate ai paradossi della modernità sfrenata. Ne può nascere la lunga sequenza d’apertura sulla New Economy, dove si consiglia di investire in azioni del Canile municipale di Tirana. Ma soprattutto ne zampillano taglienti rappresentazioni del feticismo che sostiene la società dello spettacolo: un bislacco serraglio, per cui può capitare di trovare «nei cessi della stazione di Lambrate» David Bowie, Jack Nicholson, Michael Jordan e compagnia bella che si fingono morti per scherzo. E da notare, comunque, l’attenuazione dell’impassibile tremendismo che aveva reso celebre Milani, fatte salve alcune eccezioni («Ieri mi sono fatto sterilizzare da mio zio. Lui non aveva mai sterilizzato nessuno, però se gli chiedi un piacere te lo fa»). Al contrario, restano rare nel suo cabaret le concessioni al turpiloquio, che troppi colleghi adoperano a vanvera per alzare il voltaggio di sketch irrimediabilmente fiacchi. Sempre più massiccio è invece il ricorso a un parlato brut, innaffiato da abbondanti spruzzate regionali, che danno vigore ad altri incipit micidiali: «Sul banco di un’osteria in centro a Milano c’è mica quegli alberelli di boeri a strappo».
Va rimarcato, al proposito, come nella maggioranza dei testi appartenenti al settore in questione stiano dilagando modalità stilistiche vistosamente amichevoli, vicine alle esperienze conversazionali meno sorvegliate e più aperte ai contributi dialettali. Il punto è che l’eclissi dei registri sostenuti o almeno regolarmente impostati non riguarda solo l’ambito umoristico, dove appare poco più che scontata, ma rappresenta un processo ormai compiuto persino tra i gialli, thriller e noir nostrani. Al di là delle cadute nella sciatteria populista, tutto ciò ha probabilmente a che fare coi nuovi e più alti doveri che il reparto crimini si è accollato nello scorso decennio, in cui si è imposto come filone principe della narrativa tesa a dar conto dell’evolvere del tessuto collettivo italiano, a partire dalle specificità locali.
La Vigata e il vigatese di Andrea Camilleri sono soltanto il campione più noto di queste tendenze, che si presentano ancora più spinte nell’ultima avventura del commissario Montalbano, Il giro di boa. Come sempre l’inchiesta insiste su realtà geograficosociali tristemente attuali, volteggiando stavolta tra complessi di ville abusive, in attesa del solito condono vista mare, dove arrancano carrette stracariche di immigranti. E proprio durante uno sbarco che si innesca la vicenda principale, a partire dalla strana fuga di un ragazzino «nìvuro», presto trovato morto. Di qui Montalbano muove all’arrembaggio di un feroce racket specializzato in merce umana fresca, da rivendere per accattonaggio, pedofilia o espiantazione d’organi. Camilleri non si allontana troppo, insomma, dai crocevia tematici già al centro del Ladro di merendine e della Gita a Tindari, ma libera nel racconto un’amarezza cupa, che esplode nelle scene in cui uno sfibrante appostamento notturno, a mezz’acqua nei pressi di un porticciolo, lascia il commissario solo con le proprie ossessioni.
Viceversa, all’inizio del romanzo un tuffo in mare all’alba con la scoperta di un cadavere sconciato – aveva sottratto Montalbano alle dimissioni, cui si sentiva obbligato a fronte degli abusi compiuti dai colleghi poliziotti al G8 genovese del 2001. L’attualità entra dunque in forma diretta, in pagine corsivate nelle quali l’eroe fa i conti con la «lurdìa» penetrata nel Corpo. Quello del G8, va aggiunto, è un autentico spettro che si aggira in numerose storie giallonere recenti, a conferma della vocazione sopra delineata. Quando non costituisca il fulcro della narrazione – come in I segni sulla pelle, di Stefano Tassinari – il trauma sociale di quei giorni funziona da sfondo urticante: accade ad esempio in Gorilla blues di Sandrone Dazieri, e in II maestro di nodi di Massimo Carlotto, ultimo episodio della saga incentrata Sull’Alligatore, un detective maledetto di stampo classico, brusco e disincantato, allergico ai compromessi e animato da una rabbiosa passione per la giustizia vera.
Nell’occasione, a vivere in prima persona la mattanza ligure è Max «la Memoria», uno dei due soci dell’Alligatore. Il riuscito innesto dei fatti di Genova sul traliccio centrale del romanzo sfrutta la scioccante analogia tra i pestaggi carcerari, la violenza messa in atto dalle forze dell’ordine durante il G8 e le pratiche sessuali bondage, tutte situazioni in cui la separazione netta dei ruoli tra guardia e detenuto, carnefice e vittima, master e slave, fonda rapporti di natura asimmetrica e coercitiva. Dopo la scomparsa di una donna, il trio si era appunto trovato a frugare negli ambienti sadomaso, scoprendo un fiorente commercio sotterraneo di snuff movies, ovvero pornografia estrema, risolta con la morte. Una materia difficile e scivolosa, come si vede, che tuttavia Carlotto tratta con ammirabile misura, alternando il disprezzo alla pietà senza compiacimenti morbosi o tirate moralistiche. A conti fatti, lo stile non sempre incisivo, insieme ad alcune caratterizzazioni convenzionali, non guastano un libro coinvolgente, costruito con pazienza sulla base di attenti studi, interviste e ricognizioni in luoghi e mentalità di norma ben mimetizzati sotto una anonima vernicetta. A quanto pare, il noir non ha ancora esaurito le sue ambizioni; anzi guarda alle prerogative del giornalismo d’inchiesta, del resto azzoppato da tempo.