Accessibilità a destinatari diversi, scarsi eccessi di sofisticazione formale, carica innovativa o sperimentale concentrata su un singolo aspetto della creazione narrativa, storie o figure bizzarre, atmosfere tra il serio, il grottesco e il tragico. ’Tutti elementi riconducibili a quattro volumi solo apparentemente molto diversi tra loro: Cosa voglio da te di Tiziano Scarpa, Sleepwalking. Tredici racconti visionari dell’esordiente Laura Pugno, Un mondo meraviglioso di Vitaliano Trevisan e Tutto il ferro della Tour Eiffel di Michele Mari.
Un anticiclone post-avanguardistico persiste sulla narrativa più sofisticata. Parecchi dei romanzi e racconti indirizzati ai lettori esperti appaiono infatti contraddistinti da un tasso di trasgressività abbastanza controllato, che li rende accessibili anche a destinatari diversi, meno interessati alle sofisticazioni formali e più propensi, se non a un coinvolgimento empatico inconciliabile con questo genere di testi, a una fruizione disinvolta e divertita. Ciò accade perché gli scrittori concentrano la carica innovativa o sperimentale soprattutto su uno degli aspetti del racconto (caratterizzazione del protagonista, ambientazione della storia, scelte tematiche): in tal modo il principio della leggibilità non viene mai messo in discussione, e le sorprese non producono effetti di vertigine o di spaesamento.
Cosa voglio da te di Tiziano Scarpa comprende dodici racconti di lunghezza diseguale, alcuni dei quali in forma dialogica. I racconti veri e propri, tutti narrati in prima persona, sono imperniati sulla prosopopea di figure singolari, inquietanti, bizzarre, mentre sullo sfondo (in qualità di comprimario o di interlocutore muto) fa a volte capolino un personaggio sulfureo di nome Scarpa. Nell’eloquio di ciascun protagonista si avverte, palese o latente, una forte carica di aggressività, ora sul punto di esplodere, ora già esplosa (ad esempio, nel caso dell’aiuto-cuoco appena uscito dal riformatorio, dove era stato chiuso sette anni per aver ucciso una minorata tenendola immersa in un barile di sale). Un piglio dissacratorio, truce o schernevole, presiede all’esposizione delle vicende, sempre animate dal rovente nesso tra carnalità e follia, che provvede a temperare una paradossale verve umoristica. Più scoperto e sbrigliato l’intento comico (o comico-grottesco) negli spassosi pezzi in forma di dialogo, mentre l’ultimo racconto, il più lungo della raccolta, accoglie materiali eterogenei, come brani narrativi, stralci da diari, verbali di un’improbabile associazione culturale. Per inciso, si può notare che l’assemblaggio di generi diversi di discorso assume carattere strutturale nel ponderoso (e in verità pletorico) esordio di Umberto Casadei, Il suicidio di Angela B. (dove il ricorso a caratteri tipografici differenziati accentua l’effetto-patchwork).
Scarpa non lo dice, ma il titolo Cosa voglio da te – riferito al tema del rapporto uomo-donna (o maschio-femmina), mai facile, spesso antagonistico, a volte decisamente prevaricatorio – potrebbe derivare da una canzonetta in voga una trentina d’anni fa. Esplicito invece il richiamo a What a wonderful world nell’ultima prova di Vitaliano Trevisan, Un mondo meraviglioso. Anche Trevisan punta sulla personalizzazione della voce narrante; ma anziché una serie di figure diverse egli propone un fitto monologo, che copre un’intera giornata d’un personaggio ombroso, arrovellato, sottilmente paranoico, visitato da immagini di squilibri mentali e di suicidi, suggestionato da epifanie del mostruoso (un volto deturpato visto in ospedale, un pescatore completamente glabro, un mutilato in carrozzella dallo strabiliante vigore fisico). A giustificare il nome del libro – praticamente privo di trama e tutto giocato su un flusso di percezioni, riflessioni, ricordi – è la sequenza finale, quando il protagonista, un giovane disoccupato vicentino, s’imbatte in un concerto per bande in Piazza dei Signori e s’accorge che gli sprovveduti suonatori di Povolaro non riescono a cancellare la bellezza della canzone di Louis Armstrong. «Sì, pensavo, il mondo è davvero meraviglioso, siamo noi che suoniamo male, abbiamo sempre suonato male e suoniamo sempre peggio, più passa il tempo, peggio suoniamo, e senza rendercene conto facciamo delle nostre vite degli spaventosi assoli fuori tempo, stonati, abborracciati, ognuno per conto suo».
Diversa la strategia adottata da un’esordiente da seguire, Laura Pugno. Dopo aver concluso la lettura di Sleepwalking. Tredici racconti visionari, si stenta a ricordare personaggi precisi: quello che rimane nella memoria è piuttosto una serie di atmosfere, di figurazioni assorte e silenziose, quasi di surreali pantomime. Il tratto distintivo di questo stile consiste nell’ambiguo status delle realtà che la voce narrante (rigorosamente esterna) viene evocando. Vicende quotidiane e banali che lievitano impercettibilmente in una dimensione visionaria; sensazioni che oscillano fra realtà e sogno, al risveglio da un trauma o da un’amnesia; sequenze di fatti che paiono svolgersi su un crinale impervio, a un passo da precipizi e catastrofi, o disegnarsi su un velo che potrebbe essere lacerato in qualsiasi momento, come l’ipnosi di un sonnambulo. Nel brano più complesso e suggestivo della raccolta, Oasi, si delineano gradualmente i connotati di un mondo stravolto, ridotto a un deserto di strade, dove i rapporti fra i sopravvissuti a quella che si direbbe una catastrofe planetaria obbediscono a consuetudini singolari – riti di passaggio, forme ritualizzate di prostituzione, servitù – improntate a una sacralità insieme rigida e trasognata. Il protagonista è un guaritore che sa percepire immediatamente al tatto, come per un’istantanea illuminazione, gli eventi accaduti nel passato a persone e cose; e, secondo l’usanza, s’è procurato un «doppio» (nella fattispecie, un’adolescente), cioè una persona impermeabile alla sua seconda vista che lo preservi da un eccesso di contatti, come una sorta di diaframma: portandogli il cibo alla bocca, stendendosi sul giaciglio sotto di lui, eccetera. Rispetto ai libri di Scarpa e Trevisan, la prova della Pugno presenta connotati sperimentali più evidenti: impossibile abbandonarsi a una lettura corsiva, «romanzesca».
A un pubblico di élite è chiaramente indirizzato anche l’ultimo volume di Michele Mari, Tutto il ferro della Tour Eiffel (splendido titolo: e ancor meglio in francese), benché la scrittura, diversamente da quanto accade in altri libri dell’autore, si attenga a una spigliata trasparenza comunicativa. Lo spunto iniziale è la descrizione dell’ambiente dei passages parigini, dove nel 1936 vaga un Walter Benjamin intento a coltivare la propria passione collezionistica; ma poi il racconto esplode in un caleidoscopio di personaggi, pittori, scrittori, filologi, cineasti, tutta la cultura europea del Novecento: e ancora aviatori, fabbricanti di automobili, campioni di scacchi, nonché personaggi fittizi, come gli eroi di film famosi o l’omino Michelin. Impossibile riassumere la trama, che si sgretola quasi subito in una voracissima aneddotica arcicolta, in un ingegnoso diluvio di anticipazioni, presagi, coincidenze, paradossi. Sul piano narrativo tutto ruota intorno allo schema della congiura qui ordita da una misteriosa consorteria di nani, che sembrano fra l’altro presidiare tutti i suicidi degli intellettuali e artisti contemporanei (ma non mancano anche vampiri, automi, golem). Sul piano tematico dominano i motivi della perdita dell’aura (poi fortunosamente rinvenuta, nel beffardo explicit, nella forma di un tubetto pieno d’una specie di iridescente vaselina) e dell’identificazione tra memoria letteraria e oggetti. Benjamin, teorico della riproducibilità tecnica dell’arte, appare infatti ossessionato dal desiderio di impadronirsi delle «cose» di cui sono fatti i capolavori: gli asfodeli di Baudelaire, la madeleine di Proust, i tre soldi dell’Opera di Brecht, il marchio di Cane Nero dell’Isola del tesoro, lo scarafaggio di nome Gregor… perfino i tre puntini di Celine, offerti all’avido cacciatore di cimeli dentro uno scatolino, nella bambagia.
«Oggi il nostro compito è ricordare e ritrovare, e lo sarà ancora di più domani per i nostri nipoti: perché ci sono momenti in cui essere con il futuro significa essere con il passato contro il presente; e perché contro l’infernale accelerazione della modernità le rovine e i relitti si ergono, si devono ergere, come barricate rivoluzionarie». Ecco il nocciolo serio, tragico, dell’indiavolato divertissement di Mari (che ci riporta fra l’altro ad alcune fra le pagine più belle di Tu, sanguinosa infanzia}’, dietro il feticismo del collezionista s’agita la contraddizione tra il vagheggiamento struggente d’una distanza e uno spasmodico quanto inane desiderio di possesso. Trasposto sul piano delle istituzioni collettive, questo rovello suggerisce che la grande cultura, la grande arte del Novecento ci hanno legato un patrimonio ingente, sì, ma precario. E il sospetto di aura che avvolge ogni ipotetico bullone della Tour Eiffel può far tutt’uno (credo) con la consapevolezza che qualunque torre, benché di ferro, dentro o fuori di noi, possa crollare.