Avanguardismo, metaforismo, narratività

In una sorta di progressione da linguaggi più apertamente trasgressivi a linguaggi più inclini alla discorsività, un libro come Contatto di Tommaso Ottonieri rimanda a un’idea classica di avanguardia come trasgressione permanente e rimescolamento di tutti i livelli del testo. Invece Ritorno a Sovana di Pasquale Di Palmo ripropone una sperimentazione linguistica che privilegia l’accensione metaforica, se pur corretta da inserti prosastici. Anche Ermanno Krumm è a suo modo uno sperimentatore, e in Animali e uomini costruisce una personale poesia cosmologica, in equilibrio fra pathos e ironia.
 
Tra gli autori vicini a un’idea classica di avanguardia (mi si passi l’ossimoro) spicca, e non da ora, Tommaso Ottonieri. Il suo ultimo libro, Contatto, copre un largo arco temporale: si va infatti dal 1979 (un anno prima di Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, che ha dato a Ottonieri meritata fama) al 2002.
Ma senza dubbio Contatto non ha nulla della «raccolta» di testi eterogenei, perché, tutt’al contrario, si configura come un libro fortemente coeso: magari, con apparente paradosso, anche in virtù della sua programmatica magmaticità. Ottonieri infatti sceglie di muoversi nella zona infida in cui soggetto, realtà e linguaggio si intrecciano e sovrappongono: egli pare rifiutare programmaticamente la separazione fra le cose e le parole, mettendo in scena un soggetto che non soltanto fa uso del linguaggio, ma è internamente tramato di linguaggio, costituito dalle parole che ne orientano gesti e comportamenti. D’altro canto, questo può avvenire anche perché le parole vengono trattate come una materia solida, fisica: così che l’ossessione del linguaggio fa tutt’uno con l’ossessione del corpo, e più in generale della fisicità. Assistiamo così a una singolare forma di mimesi, che consiste proprio nella messa in scena del discorso in quanto gesto e comportamento, e nella tensione acutissima, quasi spasmodica, a iscrivere nella pagina la figura del soggetto mentre compie la propria esperienza: quasi come se la frattura decadentistica, o meglio modernistica, fra scrivere e vivere non fosse mai esistita. Su questa strada l’accamparsi nella pagina dell’io, poco importa se frammentato e disperso, paradossalmente non smette di alludere all’io lirico, nel quale può per l’appunto ritrasformarsi, con esiti di suggestiva e non del tutto inopinata vocalità. Significativamente Contatto alterna testi in versi e prose liriche: ma, di nuovo, prosa e verso sono soltanto le due facce, inseparabili, di uno stesso codice. Più in generale, la legge stilistica di Ottonieri è quella della mescolanza programmatica, a tutti i livelli. In un fittissimo traliccio di figure retoriche di ripetizione, in tutta la gamma che va dalla rima all’allitterazione al calembour, assistiamo così al costante cozzare di forme di conclamata ascendenza nobile con lacerti di cultura mediatica e persino di kitsch esibito: troviamo infatti rime, versi di ortodossa sillabazione e persino strutture strofiche regolari, ma anche, magari contemporaneamente, citazioni dalla televisione, dal cinema, dal pop-rock, tecnicismi duramente anti-letterari, termini colloquiali e anche volgari. Basti pensare alla memorabile sezione Insonnia: esilio domestico, dove Ottonieri fa cortocircuitare clamorosamente, in una dominante intonazione finto-aulica, una sorta di epos negativo non solo del televisore e del frigorifero, ma persino della tazza del gabinetto, con tanto di approssimazioni lirico-narrative alle eterne e non proprio alate vicende che accadono nelle diramazioni fognarie.
Già da una decina d’anni gli addetti ai lavori e (spero) coloro che amano la poesia conoscono i testi del veneziano Pasquale Di Palmo, che propone una poesia accesamente metaforica: si potrebbe parlare in questo caso di via analogica allo sperimentalismo. Il suo ultimo volume, Ritorno a Savana, è caratterizzato al tempo stesso da un’intonazione francamente lirica e da una ben riconoscibile dimensione narrativa. In prima approssimazione, è la storia di una depressione e insieme la storia di una rinascita: più esattamente, proprio le circostanze di un profondo malessere psichico richiamano una riflessione sulle proprie radici e una rievocazione della propria storia personale e familiare, quasi ai confini del Bildungsroman. Ma non è solo il «ritorno», interiore e reale, a consentire il recupero, se non della serenità, di un fragile equilibrio possibile: la vicenda dell’io poetico trova una svolta anche in relazione alla nascita di un figlio, che fa scattare ricordi, emozioni antiche e però nuove, orientate verso un nuovo senso di responsabilità, o quanto meno di identità. In questo senso, Ritorno a Sovana è la storia di una nascita e di una rinascita. Pur se tramato di momenti discorsivi, il linguaggio di Di Palmo è quasi sempre ben lontano da un’intonazione piana: la sua densità metaforica tende a costruire una sorta di sublime trattenuto. Anche questo libro, significativamente, è un prosimelo, che alterna testi in versi a prose liriche: dove le prose non sono affatto sede esclusiva della dimensione narrativa, quanto piuttosto di una liricità più distesa sul piano sintattico, eppure non meno irta sul piano retorico (viene da pensare a René Char: del resto, Di Palmo è felice traduttore di autori francesi, da Corbière a Artaud a Radiguet). Per quanto riguarda le scelte metriche, Ritorno a Sovana parrebbe a prima vista rifarsi a misure relativamente regolari, incardinate sull’onnipresente quartina: ma la simmetria è esclusivamente per l’occhio, perché in realtà la versificazione è francamente polimetrica, per quanto non del tutto aliena da misure tradizionali. Nello stile di Di Palmo colpisce anche la duplicità delle metafore ossessive, che sovrappongono sistematicamente immagini «alte», di tipo simbolistico («stringendo in pugno / il cuore morso di una melagrana», «La luce ha cunei di ghiaccio / e non rimargina […] la ferita») a immagini basse e persino disgustose, che correggono energicamente la pulsione al sublime con tutto un corteggio di animaletti ripugnanti, di scorpioni, formiche, mosche e mosconi, scarabei e coleotteri, lombrichi e lumache. All’intersezione fra ogni possibile simmetrizzazione e indistinto brulichio, troviamo poi una delle più resistenti ossessioni di Di Palmo, quella per gli arabeschi fabbricati dalla natura, vene e venature, scheletri e nervi, rami e ragnatele: geometrie frattali che tendono non a caso a sovrapporsi all’immagine della scrittura, con la sua linea infinitamente contorta e pure anche regolata, e ad aprire così una couche semantica tenacemente seppure solo allusivamente meta-letteraria.
Fa un certo effetto ritrovare in continuazione, nella poesia degli ultimi anni, immagini di animali: e certo tutto questo ha anche a che fare con una rinnovata esigenza di confronto con «la natura». L’ultimo, intenso volume di Ermanno Krumm propone fin dal titolo la coppia oppositiva, per l’appunto, Animali e uomini’, e le sue tre sezioni sembrano quasi alludere a una specie di triade post-hegeliana: Zoo (sintesi di natura e costruzione umana), Vulcano (l’assolutamente naturale), Città (lo spazio integralmente umanizzato). Ma, naturalmente, le cose sono parecchio più complicate. Credo che nel tema dell’animalità Krumm metta in gioco insieme lo scontro con l’altro-da-noi e la necessità di riscoprire dimensioni della vita che la civiltà urbano-industriale ci ha strappato, ma che pure restano inevitabilmente parte fondamentale di noi. Inoltre, gli animali non smettono di proporci, in una società drasticamente desacralizzata, la possibilità dell’incontro con il numinoso. Non manca l’ipotesi di una possibile fusione con il cosmo: ma questa fusione non ha niente di panico, perché, pur alludendo a una nostra ineludibile unità con il cosmo, viene senz’altro rimandata post mortemi con effetto piuttosto di understatement ironico che di intensificazione tragica. Il pathos dell’animale implica certo anche una tensione cosmologica, che s’intreccia, con esiti di intensa, trattenuta emozione al sentimento del tempo, alla percezione insieme del trascorrere del tempo storico («Ci mette così poco a perdersi: / così senza centro né cerchio / s’allontana il mio secolo») e del tempo incommensurabile dell’universo (come in Di qua e di là dell’Eden: «Era come un’immensa discarica / una specie di vastità vuota / […] un’enorme pianta grassa»). L’intuizione della totalità del cosmo, e di una partecipazione paradossale dell’uomo e della parola al regno dell’inumano e dell’indicibile, suscita per contrasto l’intensa percezione del mondo senza di noi, e dunque il pensiero della morte; eppure, proprio la certezza della nostra inevitabile sparizione fa nascere non l’elegia, ma piuttosto la riscoperta dell’insostenibile felicità del vivere, e della lacerante infinita felicità della vita tutta, anche di quella che non sarà più nostra. Il che però non cancella affatto il quotidiano stillicidio di sofferenze che caratterizza le nostre giornate In città, che la poesia si sforza, se non di redimere, almeno di restituire alla consapevolezza della ricchezza e della profondità del mondo.