Una vita da editore. Intervista a Raffaele Crovi

Un editore deve sempre pensare a una cultura nuova e deve sempre seguire con attenzione la ricerca dei giovani creativi. L’editore che si occupa solo di scrittori di fama è un editore pigro. Un editore creativo deve essere molto attento alle nuove proposte e deve tenere sempre presente il rapporto con i lettori, perché non si può sviluppare una casa editrice se non si tiene conto del pubblico, insomma l’editore dovrebbe avere l’intelligenza di non essere mai seriale e ripetitivo, anche perché il libro è un prodotto fuori della serialità. Parola di Raffaele Crovi.
 
Raffaele Crovi, nato nel 1934, lavora nell’editoria dal 1954, prima con Einaudi, Mondadori e Rusconi, in seguito con Bompiani, Camunia, Giunti e Nino Aragno Editore. Un percorso che ha raccontato in un volume intitolato L’immaginazione editoriale. Autore di saggi, romanzi e poesie, nel 1993 ha vinto il premio Campiello con La valle dei cavalieri. L’ultimo suo romanzo s’intitola Appennino.
 
Raffaele Crovi, può raccontarci come è iniziata la sua lunga vicenda nell’editoria?
E un’avventura che non è iniziata per caso, visto che fin dall’adolescenza sentii che i libri avrebbero potuto diventare la mia vita. Sono cresciuto in un piccolissimo paese dell’Appennino Reggiano, dove nelle case non c’erano libri. Mio nonno però faceva il trebbiatore ambulante e ogni tanto portava a casa qualche pezzo di libro raccolto qua e là. Erano capitoli sparsi di libri che, messi assieme, formavano una piccola biblioteca popolare, dalle Mille e una notte a Quo vadis, dai Promessi sposi all’Orlando furioso, dal Guerrin Meschino ai Reali di Francia, ai Misteri di Parigi. Leggendo quelle pagine sparse, si radicò in me la convinzione che il libro avrebbe potuto diventare il tappeto volante con cui visitare il mondo, un mezzo per aggredire e conquistare la realtà che non conoscevo. Nacque così il mio desiderio di leggere sempre di più e di occuparmi di libri. Scrissi anche una lettera ad Arnoldo Mondadori, in cui gli dicevo che da grande avrei voluto lavorare nella sua casa editrice. Egli mi rispose incoraggiandomi a leggere molto, perché, diceva, chi vuole lavorare nell’editoria deve essere innanzitutto un grande lettore. Mi mandò anche in regalo tre novità della casa editrice: La serena disperazione di Umberto Saba, Acqua alla gola di Oreste Del Buono e Come era verde la mia vallata di Richard Llewelljn.
 
Quelle letture avviarono il suo rapporto professionale con i libri?
Sì, perché una mia recensione del romanzo di Del Buono venne pubblicata da un giornale. Iniziai quindi a chiedere libri da recensire e continuare in quel modo il mio apprendistato. Più tardi, nel 1954, alla fine del primo anno di università alla facoltà di giurisprudenza, fondai con degli amici una piccola rivista per la quale feci un’intervista a Elio Vittorini. L’incontro con l’autore di Conversazione in Sicilia fu molto imprevisto, perché in realtà fu lui a intervistare me, cosa che faceva sempre con i giovani che incontrava. In seguito però egli accettò di rispondere alle mie domande sul lavoro editoriale e il tema dell’impegno. In quell’occasione tra di noi si stabilì un dialogo. E qualche mese dopo mi chiese se volevo fare il suo assistente per il lavoro all’Einaudi.
 
Partecipò quindi all’avventura dei «Gettoni»?
Certo, e fu un’avventura entusiasmante. Anche perché lavorare con Vittorini significava incontrare i suoi amici che erano sempre uomini di cultura, scrittori, editori, architetti, pittori, musicisti. Partecipavo così a un dialogo a tutto campo con una cultura che si andava formando attraverso l’incontro di diversi linguaggi.
 
Dal punto di vista editoriale quale fu l’insegnamento di Vittorini?
Gli insegnamenti più importanti furono due. Innanzitutto, mi spinse ad avere una curiosità multipla, perché i linguaggi dell’immaginazione sono tanti e diversi. Se i miei autori preferiti erano Moravia, Pavese o Pratolini, egli mi invitava a leggere Palazzeschi, Comisso, Landolfì o Bilenchi. Non può fare lavoro editoriale, mi diceva, se della letteratura italiana non ha conosciuto anche questi scrittori. Vittorini mi aiutò poi ad avvicinarmi alla letteratura straniera, ma anche alla saggistica, poiché, secondo lui, non ci si poteva occupare di editoria, se non ci si appassionava alla fisica, alla matematica, alla mitologia, alla storia, ecc. Insomma, Vittorini tendeva a formarmi secondo lo stesso progetto culturale che aveva proposto ai lettori del «Politecnico», insegnandomi così ad allargare i miei interessi e ad accettare il fatto che la letteratura è sempre fatta di linguaggi diversi. E per questo che un editore non deve mai fare scelte settarie e unidimensionali.
 
L’altro insegnamento?
L’attenzione per il nuovo. Egli mi ha insegnato a non credere che la cultura sia solo quella di cui ci si è già appropriati o quella classificata nei repertori. La cultura non nasce solo dalla memoria personale. La cultura è anche quella che si fa, quella in atto e in divenire. Un editore deve sempre pensare a una cultura nuova e di conseguenza deve sempre seguire con attenzione la ricerca dei giovani creativi. L’editore che si occupa solo di scrittori di fama già consolidata è un editore pigro. Un editore creativo deve sempre essere molto attento alle proposte nuove, proprio come fecero i «Gettoni» che furono una collana di scrittori giovani. Questo atteggiamento di apertura mi è rimasto come passione e come vizio. Durante tutta la mia successiva vicenda editoriale, sono sempre stato molto attento alla giovane creatività e ai molti linguaggi attraverso cui essa si esprime.
 
Il modello vittoriniano è diventato il suo?
Sì, il mio canone di ricerca viene dal suo. Grande attenzione a 360° per la letteratura italiana come per quella straniera, interesse per i generi più diversi, dalla poesia al thrilling, puntando molto sui giovani e sugli scrittori non professionisti.
 
Come proseguì la sua esperienza editoriale?
Rimasi per sei anni all’Einaudi per fare i «Gettoni». Poi, accanto ai due direttori Calvino e Vittorini, divenni il redattore unico del «Menabò», dove lavoravamo con la stesso atteggiamento di apertura, occupandoci di dialetto e di letteratura meridionale, di letteratura industriale e di linguaggi della poesia, di sperimentazione e di relazioni tra scienza e creatività. Proponevamo anche allegati e testi narrativi per documentare quel processo di ricerca in atto. Intanto, nel 1959, Vittorini mi aveva inserito alla Mondadori, prima come lettore e poi come suo collaboratore all’ufficio consulenti.
 
Realizzò così il sogno giovanile di lavorare alla Mondadori…
Esatto. In breve, divenni il responsabile della segreteria letteraria e poi vicedirettore editoriale, alle spalle di Alberto Mondadori. Cercai allora di riorganizzare il vasto territorio delle collane mondadoriane, provando anche a progettarne di nuove. Ad esempio, su una proposta del presidente Arnoldo, progettai l’avvio degli «Oscar» (il cui nome fu però suggerito da Maria Laura Boselli), come pure cercai di rilanciare il settore di documentazione storica.
 
Il lavoro in Mondadori le permise di confrontarsi con la gestione economica del lavoro editoriale?
In effetti, se Vittorini mi aveva trasmesso la curiosità intellettuale e culturale, insegnandomi che non si può pensare di sviluppare una casa editrice se non si è ricettivi nei confronti dell’immaginario, della creatività e dell’inventiva linguistica degli autori, da Mondadori imparai che non ci si può occupare di editoria, se non ci si preoccupa anche dell’organizzazione e della gestione economica del progetto. Il vecchio Arnoldo mi convocava ogni mattina per avere il resoconto quotidiano dei dati di vendita, sulla base dei quali impostava le strategie di sviluppo, mostrando come sempre un fiuto formidabile. Egli mi ha insegnato a tenere sempre presente il rapporto con i lettori, perché non si può sviluppare una casa editrice se non si tiene conto del pubblico. Il vero marketing è la capacità di verificare e capire i gusti e le tendenze dei lettori, magari anche stimolando la loro curiosità. Naturalmente, questa è una lezione che per me vale ancora oggi, insieme a ciò che imparai in seguito da Rusconi.
 
Vale a dire?
Quando, dopo un’esperienza di undici anni in Rai, approdai alla Rusconi, mi resi conto che esiste una parte del lavoro editoriale che nasce dal dialogo con l’attualità. Da questo punto di vista, l’editoria è anche una forma di giornalismo e il libro una forma di documentazione di quanto accade nella società. Per arricchire un catalogo, occorrono libri che raccontino i processi di trasformazione della società.
 
Gli anni alla Rai cosa le hanno insegnato?
La direzione dei programmi culturali mi permise di scoprire la ricchezza dei linguaggi audiovisivi. Fu una lezione importante, anche se resto convinto che il libro non sarà mai obsoleto o sconfitto. Come scrittore, l’esperienza televisiva mi ha insegnato la narrazione per immagini e il montaggio. Fu però un passaggio utilissimo anche per il lavoro editoriale, perché ad esempio fui poi uno dei primi a introdurre nell’editoria forme e generi di derivazione televisiva. Da Rusconi, infatti, creai una collana di libri di aforismi, barzellette e battute comiche.
 
Cosa pensa di chi si lamenta dello strapotere dei comici televisivi nell’editoria italiana?
Sono lamenti ridicoli. I libri nascono spesso da esperienze espressive preesistenti. Perché mai i comici, che sono nati in televisione, alla radio o in teatro, non dovrebbero scrivere libri? L’importante è che i loro testi siano divertenti, intelligenti, coinvolgenti, non banali o non stupidamente pedagogici. Come hanno fatto Gino e Michele quando, provenendo dalla cultura satirico-giornalistica di «Cuore», hanno pubblicato Anche le formiche nel loro piccolo s incazzano in cui riscoprivano una forma di creatività a cavallo tra immaginazione, ironia e comicità. Per non parlare di Flaiano, uno dei grandi scrittori italiani, che queste forme di comicità le ha sperimentate tutte.
 
La moda del comico favorisce però l’inflazione di testi sempre meno originali…
Ma è sempre stato così. L’editoria è pur sempre una forma d’imprenditoria. E nell’imprenditoria ogni volta che s’inventa un prodotto…
 
…prodotto è una parola molto invisa ai letterati italiani…
…a me no. Ogni volta che s’inventa un prodotto, questo viene poi imitato e riproposto da tutti. Le regole dell’imprenditoria sono le stesse in ogni settore. Solo che l’editore dovrebbe avere l’intelligenza di non essere mai seriale e ripetitivo, anche perché il libro è un prodotto al di fuori della serialità. Lo si può divulgare in tante copie, ma non lo si può rendere seriale. Da questo punto di vista, il marketing nell’editoria è sempre fallito.
 
Perché?
Perché la serialità in editoria non ha nessun senso. Si può sfruttare una moda per sei mesi, ma poi i gusti dei lettori cambiano. Il marketing funziona quando si può prevedere l’espansione di un mercato sulla base della ripetitività e della serialità. Nell’editoria ciò non funziona, perché il libro è sempre legato a una forma di creatività innovativa. Anche nei libri della Littizzetto c’è creatività. Anzi, ce n’è molta di più che in tanti romanzi che si presentano come racconti di esperienze esistenziali.
 
C’è chi sostiene che i grandi editori tentano spesso operazioni di marketing, cercando di creare libri di successo capaci di rispondere a una domanda precisa del pubblico. Cosa ne pensa?
Ogni volta che un editore si illude di creare un libro o un genere a tavolino, di solito fallisce. Nell’editoria, il successo è sempre stato un evento imprevedibile che non può essere assolutamente progettato. La storia dei bestseller lo conferma. E raro infatti che l’autore di un bestseller ripeta il suo successo. Fabbricare un successo a tavolino è quasi impossibile. Gli americani ci provano nel romanzo popolare e nella letteratura di genere, ma la loro è una società molto diversa dalla nostra e tutta basata sulla serialità. Da noi non funziona, perché i nostri modelli di comportamento non sono seriali. Noi vogliamo essere inventivi, trasgressivi, pieni di fantasia, ecc., tanto è vero che una cultura di destra – vale a dire una cultura sostanzialmente fatta di serialità e di ripetizione delle regole preesistenti – da noi non riesce ad affermarsi. La cultura berlusconiana, infatti, si è imposta in televisione, ma non nell’editoria.
 
La ricerca dell’originalità è quindi il cuore dell’editoria?
Certo, perché le aziende editoriali hanno successo economico solo se sono innovative. L’equilibrio economico nasce dalla creatività e dalla progettualità, non dalla ripetizione e dalla serialità. Non a caso, la Mondadori, che in questi anni ha ecceduto nel dare spazio a libri di derivazione televisiva, accanto a qualche successo, ha anche raccolto parecchie delusioni. Ha potuto però recuperare grazie al successo imprevisto di qualche libro di tipo innovativo, anche se pur sempre nel genere popolare, come ad esempio i romanzi storici di Manfredi.
 
Le sembra importante studiare le ragioni di un successo editoriale?
Certamente. Come ho detto, non credo al marketing, ma cerco sempre di capire come è nato un bestseller. Purtroppo, in Italia ci si interroga troppo poco sull’argomento. E anche l’università si è sempre dimostrata restia a studiare con serietà la letteratura popolare e i libri di successo. A questo proposito, una volta dissi che l’unico vero strumento di marketing per l’editoria è l’analisi delle scelte dei trecento lettori della giuria popolare del Campiello. I loro verdetti sono indicativi di un gusto diffuso del pubblico, che poi secondo me segue sempre alcune costanti.
 
Quali?
I romanzi vincitori del Campiello sono sempre romanzi con un buon livello di scrittura, dato che il libro banale o solo artigianale non convince. Inoltre propongono quasi sempre tematiche familiari, un quadro storico ben delineato, nonché una struttura romanzesca forte, ben congegnata e dinamica.
 
Nel 1984, dopo aver diretto per tre anni il gruppo Fabbri-Sonzogno-Etas-Bompiani, lei però ha abbandonato le grandi realtà editoriali per lanciarsi nell’avventura di Camunia, una piccola casa editrice tutta sua…
Una piccola casa editrice, ma non di nicchia, che sarebbe stato più semplice. Ho voluto invece fare una piccola casa editrice di varia in competizione con i grandi editori, con una produzione che spaziava dalla letteratura alla saggistica d’attualità, dalla storia alla poesia. L’esperienza è stata positiva ed è durata una dozzina d’anni, fino al 1996, quando l’ho venduta a Giunti.
 
Passando dalla grande impresa editoriale alla piccola realtà quasi artigianale, ha dovuto affrontare nuovi problemi?
Ho dovuto affrontare soprattutto il problema della distribuzione, che è un nodo essenziale di tutta l’impresa editoriale, visto che si producono libri per dialogare con i lettori. Se non si arriva ai lettori, la pubblicazione è inutile. Io sono stato fortunato perché la mia esperienza precedente mi ha molto aiutato. All’inizio, infatti, ho avuto come distributore Mondadori, mentre in seguito sono passato alla distribuzione Rizzoli, a cui peraltro avevo venduto il 40% di Camunia.
 
Perché decise di vendere? Era in difficoltà? Era stanco?
Queste operazioni avvengono solo quando si ha successo. Nel 1987 pubblicai I fuochi del Basento di Nigro, che vinse il Campiello. Il successo attirò l’attenzione dei grandi editori, tre dei quali Mondadori, Giunti e Rizzoli – mi proposero di acquistare una quota di minoranza della casa editrice. Scelsi Rizzoli perché avevo confidenza e dialogo con il suo management. Nel 1993, come autore, vinsi il Campiello con La valle dei cavalieri. A quel punto Rizzoli mi propose di diventare direttore generale e di rilevare un’altra quota di Camunia. Meditai a lungo la proposta, perché mi avrebbe permesso di risolvere l’altro spinoso problema con cui deve sempre confrontarsi un piccolo editore, quello della gestione economico-finanziaria.
 
Può spiegarsi meglio?
Per una piccola casa editrice, è sempre un problema trovare i soldi per finanziare l’attività. Io all’inizio mi rivolsi alle banche, scoprendo problemi e inquietudini che fino ad allora non avevo conosciuto. Un conto, infatti, è la gestione economica generale di una casa editrice di altri, diverso e più diretto il problema degli investimenti e dei ricavi in quanto proprietario unico. Era un problema che vivevo sulla mia pelle, qualche volta anche con preoccupazione, sebbene nel complesso le cose mi siano andate abbastanza bene. A spingermi alla vendita di Camunia c’era però anche la questione della successione. All’inizio infatti pensavo che i miei due figli si sarebbero prima o poi occupati della casa editrice. Quando però mi resi conto che non sarebbero subentrati a me nella gestione di Camunia, la proposta di Rizzoli, che mi permetteva di continuare a occuparmi di libri senza avere l’ansia della responsabilità economica diretta, iniziò a tentarmi. Alla fine però vendetti a Giunti, che si era rifatto vivo con una proposta più interessante. Così, riscattai il 40% di Rizzoli in cambio dell’anticipo dei diritti dei miei tre romanzi successivi, rivendendo poi il 70% a Giunti, dove, con la funzione di coordinatore generale del gruppo, sono rimasto fino al 1999, quando sono andato in pensione.
 
E una volta in pensione si è lanciato in una nuova avventura, quella di Nino Aragno Editore…
Esatto. In fondo, mi è sempre piaciuto cambiare pianeta passando da una realtà editoriale all’altra. Così quando Nino Aragno, che è un imprenditore piemontese del settore sanitario, mi ha proposto di finanziare una nuova casa editrice, posi una sola condizione: mettere al centro della linea editoriale la qualità e la creatività. In quegli anni tutti parlavano di marketing e della necessità di studiare le linee di mercato per poter garantire l’equilibrio economico dell’editoria. Io invece ero convinto che il marketing non servisse a nulla, così proposi un altro modello di casa editrice. Ci trovammo d’accordo, anche perché egli è un appassionato acquirente e lettore di libri. È nato così il catalogo di Nino Aragno Editore, che è una felice combinazione di alta erudizione e cultura dell’immaginazione.
 
Può fare qualche esempio della vostra produzione?
Sul versante dell’erudizione, facciamo una collana in collaborazione con l’editore Belles Lettres di Parigi, in cui riproponiamo opere classiche di grande raffinatezza, sempre presentate in edizioni ineccepibili e con prefazioni di grandissima autorevolezza. Coeditiamo anche una collana con il Warburg Institute e stiamo per lanciare una nuova collana con il Collège de France. Sono tutte opere di altissimo livello che finora hanno ottenuto un ottimo successo. Sul versante della cultura dell’immaginazione, proponiamo sia testi inediti di grandi scrittori del Novecento (da Testori a Manganelli), sia opere contemporanee di narrativa e poesia. Abbiamo anche una collana di fiabe in cui sono presenti tutti i migliori autori italiani di letteratura per ragazzi, moltissimi dei quali sono nati scrivendo testi per le fiabe televisive che producevo ai tempi della Rai.
 
Sul piano della narrativa, che tipo di opere pubblicate?
Abbiamo un’unica collana che si intitola «L’albero genealogico», perché privilegiamo la narrativa che racconta la storia, quella familiare come quella sociale. Naturalmente, non si tratta di un approccio rigido, visto che pubblichiamo anche opere con una componente più spiccatamente fantastica.
 
Cerca ancora i giovani autori?
Sì, ma ne trovo pochi da pubblicare, perché, quando si arriva all’ipotesi del contratto, vogliono talmente tanti soldi di anticipo che alla fine non se ne fa nulla. Gli esordienti sono i più viziati, forse perché alcuni grandi editori hanno l’abitudine di proporre anticipi sproporzionati che poi fanno sballare i conti economici. Così, più che proporre veri e propri esordienti, preferiamo recuperare alcuni talenti trascurati dalla grande editoria, come Marcello Venturi o Renzo Rosso. Devo però riconoscere che personalmente non amo molto quella letteratura giovanilistica che trova la sua forma più esplicita e evidente nelle opere dei «cannibali». Io che sono stato l’editore di Sciavi, vale a dire di un autore esemplare dal punto di vista di una narrativa capace di adottare i linguaggi della multimedialità, mi annoio di fronte a questi romanzi che non sono altro che la trascrizione dei videoclip. Per quanto riguarda i «cannibali», dissi provocatoriamente che a me piace il sangue vero, mentre il loro è un escamotage retorico.
 
Il fatto che gli autori siano più attenti al denaro e ai contratti non è anche indice di un diverso rapporto – più laico, forse – con la letteratura?
Nel secondo dopoguerra scrivere era un secondo mestiere, quindi lo scrittore si difendeva economicamente facendo qualcos’altro. Oggi i giovani pensano di poter vivere con la letteratura. Questo secondo me ipoteca il loro slancio creativo, perché, quando si pensa che la letteratura sia un business, si finisce per essere coinvolti nel circuito equivoco ed illusorio del marketing, quello che insegue passivamente i gusti del pubblico, rinunciando alla libera creatività. Inoltre, chiedere grossi anticipi è sempre un’operazione ad alto rischio, perché l’editore che ha speso molto per un libro che poi magari non vende rinuncia facilmente all’autore esoso.
 
Secondo lei, lo scrittore dovrebbe essere svincolato da necessità economiche immediate?
Penso di sì, perché solo questo concede libero spazio alla creatività. Poi certo ci sono scrittori che hanno la fortuna di vivere dei loro libri, ma anche un giovane autore di successo come Ammaniti non penso si illuda di vivere solo della sua scrittura, sfornando un romanzo all’anno.
 
Molti giovani scrittori hanno adottato le diverse varianti del genere poliziesco. Come spiega il grande successo del giallo nella letteratura italiana degli ultimi quindici anni?
Ho sempre seguito con interesse autori come Pinketts, Lucarelli o Carlotto, tanto che sono stato considerato una specie di padrino della nostra «letteratura thrilling», intendendo con questa espressione tutte le sfumature del genere. Secondo me, questa è l’unica narrativa di costume che abbia avuto l’Italia negli ultimi vent’anni. A differenza dei letterati tradizionali, gli autori di gialli hanno saputo rendere conto con intelligenza della trasformazione sociale della penisola. Al successo di pubblico ha poi contribuito il rispetto delle trame. Una buona trama, infatti, è sempre una componente necessaria della buona letteratura. Anche l’Ulisse di Joyce o Gita al faro della Woolf poggiano su trame perfette. Così, dopo molti anni di trame deboli, i giovani giallisti hanno saputo recuperare con forza la centralità dell’intreccio. Detto ciò, mi sembra che il successo della narrativa thrilling sia in fase di rallentamento, tanto che non mi sembra azzardato immaginare un suo riflusso già a partire dall’anno prossimo.
 
Perché?
Perché gli autori hanno imboccato la strada della ripetitività. Stanno diventando seriali, non sono più così originali come in passato. I giallisti hanno però seminato bene, visto che ormai moltissimi scrittori non possono più fare a meno di confrontarsi con quel modello, con la realtà sociale e con le trame. Oggi, i nostri scrittori sono più attenti al mondo che li circonda. Sono tornati a guardare e a raccontare la realtà sociale di cui sono testimoni, lasciando da parte la memoria, l’esistenzialismo, le turbe private che hanno sempre caratterizzato la nostra narrativa. Che non a caso è sempre stata poco tradotta. I nostri autori più amati all’estero erano proprio quelli che proponevano trame forti, raccontando mondi – di avventura o di realtà storico-sociale – che non erano conosciuti all’estero. Erano i Calvino, i Lampedusa, i Moravia, i Levi. L’attuale successo del romanzo neostorico, che io preferisco chiamare antropologico, nasce proprio da questo bisogno di realtà: 1 fuochi del Rasento di Raffaele Nigro, Le strade di polvere di Rosetta Loy, La lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini hanno avuto successo perché presentano trame di realtà sociale, storie di famiglia, ecc.
 
Nel nostro sistema editoriale le sembra che ci sia ancora spazio per la ricerca letteraria più originale?
Un conto è la ricerca, un conto è l’esito editoriale. Per farsi pubblicare, i giovani scrittori praticano quasi sempre il massimo dell’integrazione, cercando di aderire il più possibile ai gusti presunti del pubblico, spingendosi talvolta anche verso il romanzo di consumo. Naturalmente esistono anche coraggiose aree di ricerca sperimentale, per lo più legate alla rivista «l’immaginazione» pubblicata da Manni. Si pensi ad esempio a Tommaso Ottonieri, che è un imperterrito sperimentatore indifferente all’insuccesso commerciale. I veri ricercatori, gli sperimentatori di linguaggio, che di solito sono scrittori molto colti, sanno bene che la sperimentazione è libera e vitale solo se non punta a un evento editoriale immediato. Naturalmente, ciò può eventualmente capitare nel futuro, come prova la fortuna editoriale di Manganelli, oggi riscoperto e riproposto con un certo successo.
 
Ma l’editoria italiana le sembra in grado di recepire e valorizzare forme di ricerca e di originalità anche più blande di quelle di Tommaso Ottonieri?
Mi pare di no. E ciò in fondo è positivo, giacché penso che la difficoltà o l’impossibilità dell’avanguardia d’inserirsi nel mondo editoriale le faccia bene, se vuole continuare a essere tale. E fa bene anche all’editoria, che certo non vive con i testi dell’avanguardia. La sperimentazione ha una sua sede nelle riviste più che nelle collane editoriali. I tentativi di collane sperimentali fatti in passato, da Einaudi e Feltrinelli, sono state esperienze editoriali fallite.
 
Per le opere erudite pubblicate da A ragno invece esiste un mercato?
Certo, le prime tirature di 800-1 000 copie sono andate esaurite nel giro di un trimestre. Per fortuna, esiste ancora un pubblico di lettori colti che vogliono farsi una biblioteca. Naturalmente, per funzionare, questa editoria di qualità deve essere molto selettiva, ma non elitaria in modo estremistico. Noi infatti, anche per queste opere molto erudite, scegliamo sempre quelle aree dell’immaginario che da sempre appassionano molti lettori: il corpo umano, il mappamondo, i mostri. In realtà, la collana che incontra maggiori difficoltà economiche è quelle delle favole, perché la nostra distribuzione – che è assicurata dalla Dehoniana Libri – non è presente nel circuito parascolastico. L’altra collana che a volte stenta economicamente è quella della narrativa, con la quale non sempre riusciamo a raggiungere le 2 500 copie vendute. Nonostante ciò però la nostra situazione economica è positiva. Quando siamo nati, tre anni fa, avevo previsto il pareggio economico solo per il quarto anno, mentre l’abbiamo raggiunto già a metà del secondo.
 
Esiste quindi la possibilità per la media editoria di ritagliarsi uno spazio a metà strada tra i grandi gruppi editoriali e la piccola editoria di nicchia?
L’editoria di nicchia vive se è tematica, ma se essere di nicchia significa essere molto elitari, allora si va facilmente verso l’insuccesso. In compenso, c’è spazio per un’editoria di qualità capace di crescere nel tempo, come è il caso di e/o, di Fazi o Marcos y Marcos, editori che hanno saputo costruire un catalogo che oggi è molto competitivo. Questi editori hanno sempre puntato sulla letteratura di qualità, sulle scelte coraggiose, anticipando i grandi editori oppure facendo riscoperte intelligenti. Noi ci collochiamo in questa prospettiva. Siamo una casa editrice di media dimensione e di livello culturale medio-alto.
 
Lei ha citato e/o e Fazi. A questo proposito non le sembra che da qualche anno la vitalità dell’editoria centro-meridionale sia in crescita?
Certo. A fronte del tradizionale dominio dell’editoria del Nord Italia, l’editoria romana e meridionale si dimostrano sempre più creative e competitive. In fondo, anche uno dei settori più dinamici di Einaudi, vale a dire «Stile libero», è fatto da editori romani. A poco a poco, l’egemonia del Nord diminuisce e il baricentro editoriale si sposta progressivamente verso Sud, dove, oltre a Sellerio, iniziano ad emergere altri editori interessanti. Penso ad esempio ad Avagliano.
 
Come si spiega questa tendenza?
I grandi editori del Nord hanno puntato troppo su un’idea sbagliata di editoria dominata dal marketing, mentre gli editori del Centro-Sud di cui stiamo parlando hanno puntato sul testo, sugli autori e sulla creatività. Avagliano, ad esempio, valorizza la letteratura meridionale e fa bene, visto che quasi la metà dei grandi scrittori italiani del Novecento sono meridionali, i quali esprimono un legame più forte con la realtà antropologica del loro paese. La cultura industriale non ha prodotto grande letteratura, la quale invece nasce più facilmente dal legame con il linguaggio, le credenze, l’anima e la realtà ancestrale della propria terra, legame che è più profondo e sentito negli scrittori del Meridione.
 
Conta anche la trasformazione del pubblico?
Non credo, contano invece i libri. L’editoria centro-meridionale pubblica scrittori che sono radicati nel territorio. Gli scrittori della Campania, della Sicilia o della Sardegna esprimono bene questo legame con la storia economica e culturale, con i modelli di costume, le psicologie e i comportamenti che evolvono. I lettori del Sud apprezzano queste opere che consentono di confrontarsi con un’identità a cui sentono di appartenere, mentre i lettori del Nord sentono che esse esprimono una realtà socio-antropologica più autentica. Sono quindi attratti e incuriositi dall’indagine che i romanzieri del Sud fanno della loro terra.
 
Lei lavora nell’editoria da ormai cinquant’ anni. Cosa è cambiato nel lavoro editoriale da quando cominciò?
Il lavoro editoriale è sempre lo stesso, è l’interpretazione del lavoro che è cambiata. Ad esempio, non ci sono più i grandi responsabili degli uffici stampa, come lo furono Calvino per Einaudi o Porzio per la Mondadori. Oggi nessun editore italiano ha un ufficio stampa del loro livello. Eppure si tratta di un ruolo importantissimo. Un altro cambiamento è quello che riguarda la figura dell’editor, che è sempre meno uno scopritore di talenti e sempre più un programmatore. Le grandi case editrici, infatti, fanno leggere i manoscritti ai lettori esterni: quando c’è la coincidenza di tre giudizi negativi il testo viene scartato, quando invece ci sono tre giudizi positivi viene accettato. Capita che si pubblichino libri senza che nessun rappresentante diretto della casa editrice sappia cosa si sta per pubblicare. Non ci sono più gli editor di una volta, che leggevano i testi, dialogavano con gli autori, discutevano con loro il lavoro di editing sui testi. Fare editing non significa solo tormentare gli autori a fare il taglia e cuci, significa discutere con loro le idee e i progetti. Quando Vittorini ricevette un enorme manoscritto da Rigoni Stern, gli consigliò di leggersi V Anabasi di Senofonte e poi d’immaginare di scrivere una sua anabasi. Rigoni Stern capì benissimo e dalla riscrittura nacque Il sergente nella neve.
 
Perché oggi non si fa più?
Perché i funzionari delle case editrici non hanno cultura letteraria, non hanno letto niente.
 
Non è troppo severo?
Certo che sono severo, ma la situazione è questa, anche se naturalmente non mancano le eccezioni. I vecchi protagonisti dell’editoria, i Vittorini, i Calvino, i Del Buono erano lettori forsennati. Oggi sono pochissimi gli editor di quel livello.
 
Una volta forse cera più tempo per far crescere i libri e gli autori, mentre oggi i ritmi dell’editoria sono cambiati. Si pubblica anche di più…
Questo secondo me incide meno. Il vero problema è la mancanza di cultura letteraria. Uno scrittore non può essere un buono scrittore se non è stato un grande lettore. Lo stesso vale per l’editor, che non può far bene il suo lavoro se non è stato – e continua ad essere – uno straordinario lettore. Se non si legge, non si hanno punti di riferimento per giudicare. Tanto è vero che spesso si pubblicano libri che sono solo dei remake di libri precedenti.
 
Il passaggio dell’editoria dall’artigianato all’industria non ha cambiato nulla nel lavoro editoriale?
No. L’unico cambiamento vero è avvenuto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Prima avevamo un’editoria fatta da tipografi che non selezionavano i testi che stampavano. Con Sonzogno e Treves è incominciata la selezione dei testi. Dall’editore-tipografo si è passati così all’editore-editore. E questo il vero cambiamento. In seguito il lavoro vero e proprio dell’editore è sempre rimasto lo stesso. Sarò un osservatore obsoleto, ma per me le cose stanno così. Credo all’importanza dell’organizzazione produttiva e distributiva dell’editoria, perché quella del libro è di fatto un’industria che deve rispettare certe regole, ma, dal punto di vista del prodotto, il processo di elaborazione è sempre lo stesso.