Dal punto di vista dell’editoria italiana il 2002-2003 si è rivelato per molti aspetti un anno peculiare. Da un canto infatti gli editori si sono trovati a dovere fronteggiare una richiesta sempre più pressante di saggistica, specialmente «di intervento». Dall’altro questa continua a essere la stagione d’oro dei comici. In un quadro del genere sarebbe lecito immaginarsi una situazione tutt’altro che rosea per la narrativa, specie quella nostrana. I fatti non confermano questi timori: anzi, dati alla mano, sarebbe difficile negare che la narrativa italiana da grandi numeri non solo continui a esistere, ma che goda anche di una nuova, inaspettata salute.
Scorrendo i risultati di Demoskopea dell’ultimo anno e mezzo relativi ai successi editoriali nazionali, il dato più evidente è che il Blockbuster di vendite italiano non sia stato appannaggio solo di questo o quell’editore, ma che sia toccato prima o poi un po’ a tutti. Puntuale all’appuntamento con le classifiche dei più venduti si è presentata infatti una nutrita serie di autori che se in parte annovera un nucleo di ben noti fuoriclasse da classifica, in altri casi ha riservato invece delle sorprese tali da suscitare interrogativi e perplessità sui meccanismi, ammesso che ne esistano, che regolano oggi il successo narrativo in lingua italiana. Di certo riesce difficile immaginare una nuova stagione di «bestseller all’italiana», formula a suo tempo coniata a indicare una tipologia di narrativa italiana di alto gradimento dotata di alcune costanti autoriali e produttive (di publishing, si direbbe oggi) tali da renderla appetibile al grande pubblico. Se per spiegarci l’oggi volessimo cioè guardare agli elementi che facevano di Cassola, Tobino, Bassani, Prisco, per nominarne solo alcuni, i grandi successi di un tempo, il solo e forse il più certo risultato che ne otterremmo è la verifica che buona parte di quelle caratteristiche è oggi in larga parte inservibile. Di scarsa tenuta ormai è il fattore identitario che negli anni sessanta e settanta motivava un’intera classe sociale, per lo più di estrazione piccolo-borghese, all’acquisto dei «buoni libri dei buoni autori». Tutt’altro che infallibile si rivela d’altra parte un altro dei meccanismi di base della creazione del bestseller all’italiana «classico», ossia una scelta di oculata medietà linguistica che collochi il lettore in una situazione di impegno mai tale da rischiarne l’empatia (e basterà in questo senso porre mente a quello che forse è il caso più clamoroso della narrativa italiana da grandi numeri degli ultimi anni, ossia Andrea Camilleri).
Volendo dunque tentare la mappatura di un territorio che oggi si presenta quanto mai sfuggente, si potrebbe iniziare con il registrare i segni ormai evidenti di una crisi diffusa della narrativa improntata a caratteri di schietta letterarietà, cui sembra accompagnarsi anche una progressiva opacizzazione del ruolo del letterato-scrittore in seno alla comunità dei lettori. A questo generalissimo assunto, va subito detto, non mancano vistose eccezioni. Ecco allora il Tabucchi di Si sta facendo sempre più tardi, ecco il prematuramente scomparso Giuseppe Pontiggia, autore giunto al definitivo successo di pubblico nel 2002 con Nati due volte dopo una lunga carriera interna a una ricerca di tenore squisitamente letterario (anche se vale la pena di ricordare contemporaneamente che l’ingresso in Italia di qualcosa di simile al creative writing anglosassone lo si deve proprio a questo scrittore). C’è poi il caso di Erri De Luca, presenza ormai costante presso un nutrito segmento di lettori preciso e fedele, che l’ha premiato anche all’uscita della sua raccolta di racconti 11 contrario di uno. E sufficiente salire però, per così dire, di una generazione, e la situazione si complica immediatamente. Già più anomali infatti, sebbene in modi diversi, sono stati ad esempio i bestseller di due tra i narratori italiani di più costante e solido esito commerciale degli ultimi anni, ossia Andrea De Carlo e Alessandro Baricco. Se è vero infatti che entrambi nel 2003 sono tornati puntuali al loro appuntamento con le classifiche, l’hanno fatto però con delle opere che non è fuori luogo definire eccentriche: l’uno con Senza sangue, testo stringatissimo, di fatto poco più di un racconto, elegante colpo di fioretto sul filo di un maturo snob appeal autoriale; l’altro con un’opera, I veri nomi, caratterizzata al contrario da un’esuberanza espressiva che ha spinto l’autore ad accludere al romanzo una vera e propria colonna sonora, da lui stesso composta, incisa su cd e allegata al testo. Non del tutto canonica neppure la vicenda di Margaret Mazzantini, scrittrice che unisce un innegabile talento a una presenza mediatica inusitatamente forte e che ha colto il grande successo con un romanzo, Non ti muovere, che preme in questa sede segnalare, al di là dei meriti intrinseci, in quanto opera che torna dopo parecchio tempo a legare significativamente le proprie vicende editoriali alla vincita dello Strega, premio letterario che proprio in virtù di quella seguitissima vittoria sembra avere trovato nuovo smalto, arrivando a occupare nell’edizione 2003 anche una puntata di Porta a porta di Bruno Vespa. Resta poi il caso, anch’esso tutto sommato esemplare di un periodo dai percorsi editoriali poco lineari, di Niccolò Ammaniti, scrittore nato all’insegna dello sberleffo antiletterario più dichiarato degli ultimi anni, ossia la famosa e famigerata antologia Gioventù cannibale, e che con Io non ho paura si affaccia oggi con sicurezza nella ristretta rosa degli scrittori italiani di riferimento.
Se dunque le sorti della scrittura cosiddetta letteraria (sia tale letterarietà dichiarata o percepita) sembrano ormai legate a una necessaria messa in discussione dei propri orizzonti e dei propri mezzi, pena l’alienazione del grande pubblico, l’ultima stagione editoriale ha registrato per contro alcune nuove, interessanti articolazioni all’interno di quella che, solitamente definita come narrativa commerciale o di genere, si profila ormai sempre più decisamente come il radicamento definitivo sul suolo nazionale di un robusto ceto di professionisti della scrittura. Se da una parte non sono dunque mancati i libri delle consuete grandi firme della narrativa di intrattenimento, da Valerio Massimo Manfredi a Marco Buticchi a Sveva Casati Modignani, è ormai chiaro però che, anche all’interno di quello che si può genericamente definire l’entertainment narrativo, le distinzioni troppo rigide tra generi (giallo, rosa, avventura) rischiano di far perdere di vista i caratteri peculiari dell’evoluzione di questo comparto editoriale. Non si tratta cioè tanto di riaffermare che il genere preme ai cancelli della letteratura o che l’intrattenimento si confonde in modo ormai stabile con lo stile, fatto che non è più un mistero almeno fin dai tempi di La donna della domenica di Frutterò e Lucentini, tanto meno quindi oggi, nell’epoca dei Camilleri o dei Lucarelli (a sua volta peraltro prontamente balzato in classifica quest’anno con la raccolta completa dei suoi racconti). Piuttosto, e forse questo è un motivo di novità, si tratta di registrare alcuni nuovi segnali che il mercato librario sta dando da qualche tempo in questa direzione, tra cui ad esempio l’esigenza di una maggiore attenzione verso il pubblico femminile. In questo senso va registrata l’affermazione ormai definitiva sulla pagina, romanzesca o narrativa in senso più ampio, di un registro linguistico-espressivo francamente mutuato dagli stilemi della televisione e della stampa periodica ad ampia diffusione, come nel caso di Il nuovo incantesimo della sceneggiatrice televisiva Maria Venturi o di Nel cuore delle donne di Antonella Boralevi, narrativa che prende ispirazione dalla rubrica omonima tenuta dall’autrice su un noto magazine e che ha avuto un ragguardevole esito commerciale di 50 000 copie di venduto. A parte poi la produzione dichiaratamente rivolta al target femminile, parecchi altri successi del 2002-2003 afferiscono chiaramente ad ambiti linguistico-espressivi alternativi a quello della narrativa. Si potrebbe citare ad esempio l’interessante fenomeno di integrazione tra televisione, radio e carta stampata rappresentato da Diego Cugia, con il suo Jack Folla-, anche se ovviamente imprescindibili in questo senso sono gli esiti di E una vita che ti aspetto di Fabio Volo, e di La principessa sul pisello di Luciana Littizzetto, che oltre a riconfermare e sopravanzare l’enorme successo di Esco a fare due passi e di Sola come un gambo di sedano, ci avvertono in modo definitivo di un deposito ormai avvenuto, sul medium stampato, di registri linguistici e contenuti che se non sono «letteratura», forse neppure «narrativa» in senso proprio, assolvono evidentemente a un ruolo assai simile per centinaia di migliaia di individui, magari non particolarmente motivati alla lettura e tuttavia con ogni evidenza largamente motivabili.
A questa produzione, che testimonia dunque in maniera inequivoca di un bacino perennemente rinnovantesi (e per questo tutt’altro che di facile intercettazione) di narrative indirizzate a una audience non particolarmente affezionata al libro, si è affiancato infine un terzo fenomeno, quello che forse in modo più marcato ha caratterizzato l’ultima stagione all’insegna della narrativa nazionale sfumandone particolarmente i confini, ossia quello che potrebbe definirsi il fenomeno degli esordienti bestseller. Più o meno dal «nulla» infatti sembrano essersi materializzati alcuni dei fenomeni editoriali più rilevanti dell’ultimo anno. Stiamo parlando ovviamente di Io uccido di Giorgio Faletti, La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby e di L’elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo. Si tratta ovviamente di testi del tutto eterogenei tra loro e che di primo acchito si potrebbe essere tentati di liquidare come fenomeni puramente derivativi. Inevitabile cogliere nella Mennulara i riflessi di un verismo di maniera, debitore forse più a una Maria Messina che a un Verga, magari con un’eco del Pirandello più ilare e di quel vago sapore di mistero isolano casereccio, tra ventagli e granite, a cui ci ha abituato, ma evidentemente ancora non assuefatto, Camilleri. In molti non avranno mancato di storcere il naso di fronte all’ennesimo serial killer cartaceo proposto da lo uccido, opera che fin dalla copertina rivela candidamente il proprio debito ai grandi maestri del thriller di tradizione, da Deaver a Harris a Patricia Cornwell. Infine, l’entusiastica accozzaglia di fantasy (con tanto di universi paralleli ed esoterismo) e science fiction un po’ Philip K. Dick un po’ The Matrix, condita qua e là anche da un po’ di sesso alla «Segretissimo», salva solo in parte L elenco telefonico di Atlantide dal rischio di implosione cui sembra qua e là condannarlo una lingua non sempre all’altezza dell’inventività dell’impianto narrativo.
Volendo però cercare di andare più a fondo di questi inattesi quanto sorprendenti successi, si potrebbe ad esempio cominciare con l’osservare che queste tre opere, nella loro radicale eterogeneità, sembrano muoversi curiosamente su un comune asse di ridefinizione della narrativa contemporanea secondo il recupero di un provincialismo di orizzonte che, a ben pensarci, costituisce forse l’unico dato significativo di continuità con la tradizione aurea del successo editoriale «all’italiana». Abbandonate dunque tentazioni cosmopolite ed esotismi postmoderni, che in verità poco frutto hanno dato negli anni novanta, la narrativa nazionale con queste opere sembra riscoprire il potenziale narrativo della provincia, e ciò non per preziosismo culturale, quanto piuttosto per una sincera, sbandierata vocazione verso una prospettiva decentrata sulla realtà. Esemplare in questo senso è ovviamente La Mennulara, che sembra ridare fiato a un canone di letteratura regionalista al femminile che pareva ormai spento e che pure in passato aveva saputo dare risultati notevoli. Le vicende della famiglia Alfallipe, le cui sorti si dimostrano indissolubilmente legate alle volontà di una defunta, enigmatica domestica, ripropongono così, nei modi rivisitati di un’ironica e arguta ludicità, non solo il topos ormai rodatissimo della «sicilianità», ma anche il motivo del destino femminile all’interno della realtà meridionale; tema che fin dalla Nedda verghiana sembra periodicamente destinato a ripresentarsi, in forme attualizzate, al pubblico nostrano, come nel passato recente hanno dimostrato testi come la Marianna Ucrìa di Dacia Maraini o Volevo i pantaloni di Lara Cardella.
Diverso e forse più complesso è il caso di L’elenco telefonico di Atlantide in cui il legale di banca friulano Giulio Rovedo, con la sua esibita idiosincrasia verso la metropoli, la sua macchiettistica avversione verso i «terroni» e l’insofferenza nei confronti della vita aziendale, incarna con una certa efficacia la perplessità di un quarantenne di provincia di fronte ai mutamenti profondi del tessuto socioeconomico circostante. Se dunque Giulio ha imparato ad accettare ristoranti cinesi e anonimi palazzoni, insinuatisi oramai anche nelle periferie dei piccoli centri, è al mostruoso gruppo bancario Bancalleanza, con le sue logiche cieche e stritolanti, incarnanti il male radicale (la «globalizzazione»?) che sarà chiamato a opporsi con tutte le sue forze. E, al di là della generosa ma non sempre calibrata incursione nei generi più disparati, ciò che alla fine colpisce di più di questo romanzo, al chiudersi di una vicenda che il lettore scoprirà forse solo «sognata», è in realtà il ritratto ironico e dolente, proprio attraverso lo sguardo di Giulio, di uno sbilenco Nord-Est contemporaneo, in bilico tra azzerante pacificazione all’insegna del consumo (si veda la sistematica, spesso ossessiva sostituzione da parte della voce narrante del nome della cosa con la marca) e pervicace, ostinata adesione a principi individuali e valori collettivi tradizionali.
Persino nel caso di Faletti, apparentemente il più «internazionale» tra i bestseller di casa nostra degli ultimi tempi, non può non colpire l’aria decisa di «esotismo della porta accanto» che emana da tutto il libro. Affiancando infatti spavaldamente Montecarlo ai tradizionali New York, Miami e Los Angeles come palcoscenico deputato ai riti narrativi del delitto e della paura, Faletti sembra avere infranto con successo l’incantesimo della lontananza geografica (e autoriale) tipica del thriller. A ciò si aggiungono non solo la capacità di filtrare un plot in verità poco innovativo attraverso ritmi secchi e semplificati da fiction televisiva, ma anche l’abilità di arricchirlo di una rete fitta e precisa di rimandi alla cultura popolare (Radio Monte Carlo, il bel mondo monegasco, la musica pop) dotati di una comunicatività che per certi aspetti avvicina Io uccido tanto all’immediatezza di ricostruzione ambientale dei migliori Vanzina quanto alla spassosa e granguignolesca estetica kitsch del primo Dario Argento.
Se ben poco dunque si riesce oggi a cogliere della genesi e delle ragioni del successo di questi romanzi, non è forse del tutto azzardato affermare che ognuno di essi, in modi e linguaggi propri, si caratterizza per un comune, convinto abbandono dell’immaginario metropolitano, straniero o nazionale che sia, a favore di un rinnovato e partecipe localismo, talora assunto a trasparente metafora dell’italianità contemporanea. In questo senso un interessante prodromo è forse da individuare nell’inatteso successo, già nel 2001, di Polenta di castagne di Iva Zanicchi, ispirato ed elementare affresco familiare di alcune generazioni di una piccola comunità dell’Appennino tosco-emiliano che aveva goduto di una sorprendente accoglienza; come sulla medesima linea sembra di potere interpretare il felice esordio in Mondadori, nel 2003, di Mauro Corona, figura culto di scrittore-alpinista del Triveneto che, con le microstorie sapienziali di natura e varia umanità dalle montagne del Vajont contenute in Nel legno e nella pietra, ha colto il successo su scala nazionale. Se consideriamo infine l’ingresso in zona classifica, a cavallo dell’estate, della non meglio identificata Lolita catanese Melissa P. di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, è inevitabile rafforzarsi nell’idea che nel corso di quest’ultima stagione editoriale si siano moltiplicati i segni non solo di un inedito decentramento geoculturale di ispirazione, ma anche di un graduale disaffrancamento identitario, da parte di una nuova tipologia di autore ancora di difficile definizione, da qualsivoglia ceto letterario istituzionalmente deputato a soddisfare i bisogni di narratività nazionali. Il che non potrà non tradursi anche in una revisione tanto dei modi dello scouting editoriale quanto della lettura critica.