Il postmoderno in versi: far poesia con la tv

Nonostante le discontinue attenzioni della critica, è probabile che sia corretto parlare di postmoderno riguardo alla poesia italiana d’oggi. Tutto è cominciato con la crisi delle «grandi modellizzazioni», quella ermetica in primo luogo: con l’impossibilità, cioè, di realizzare (e teorizzare) gerarchie di valori estetici anche solo relativamente stabili. In particolare il mezzo secolo seguito alla diffusione del più importante medium elettronico ha visto imporsi una diversa maniera di far poesia, assai più sincretica e contaminante, ormai estranea alla «tradizione del Novecento».
 
A molti giovani che conosco il postmoderno piace. Sarà che insegno in una facoltà di Comunicazione, sarà che da qualche tempo a lezione spiego quasi solo letteratura (anche poesia) recentissima, sarà che – lo dico subito – il postmoderno sta abbastanza simpatico anche a me: ma ho proprio l’impressione che ai miei studenti non solo risulti assai facile discorrere di modernismo, postmodernismo, modernità e postmodernità, ecc., ma che nella loro prospettiva quella sia la più autorevole e frequentata narrazione, la più accreditata descrizione – prima che delle arti – della società, della vita odierna; e appunto anche della loro vita. E come se alcuni dei contenuti ormai vulgatissimi del pensiero postmoderno non solo circolassero liberamente nel lessico e nella retorica di parecchie scienze umane (tutte?), ma si fossero felicemente incontrati con i dati primari dell’esperienza quotidiana, andando incontro a una solidissima saldatura. Facendosi ideologia, insomma. A volte mi sembra anzi che il discorso che voleva mettere in crisi le legittimazioni aprioristiche, gli storicismi finalistici, le visioni del mondo monologiche, sia diventato – almeno nella sua forma più diffusa e praticata – apologia del presente, filosofia teleologica, fondazione prima e ultima del nostro quotidiano: che stia mettendo in scena una fine della storia declinata nella sua accezione più opprimente, quale necessario compimento, anzi superamento ( ! ) delle contraddizioni che avrebbero attraversato il moderno.
Certo. E davvero varrebbe la pena indagare le forme discorsive (dispense, manuali, articoli scientifici, ecc.) in cui tali nuovissime certezze si sono concretate. Ma allora perché così debole è stato il riferimento al postmoderno nella cultura letteraria italiana, e addirittura flebile la sua utilizzazione per descrivere il dominio della poesia? Perché tanta resistenza, non dico a farsi invadere da parole d’ordine alla moda, ma per lo meno a impostare una riflessione che non sia dominata dai preconcetti? Tanto per tare un esempio: nelle importanti giornate di studio intorno alle Genealogie della poesia nel secondo Novecento che si tennero alla Certosa di Pontignano presso Siena nel marzo 2001 (gli atti sono usciti nella rivista «Moderna», III, 2, 2001, in realtà alla fine del 2002), solo Alfonso Berardinelli presentava una relazione improntata a una descrizione del postmoderno quale categoria storiografica decisiva, indispensabile per spiegare quanto è avvenuto nel discorso poetico italiano degli ultimi cinquanta e più anni; laddove di fatto tutti gli altri intervenuti, pur concedendo quasi sempre alla questione una certa legittimità, la schiacciavano sotto il peso dei distinguo, delle precisazioni storico-sociali, delle cautele disciplinari.
Non mi soffermo sulle tante risposte possibili, anche perché oggi, dopo la pubblicazione del libro di Monica Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia. In bilico tra dialettica e ambiguità, i principali nodi della discussione sono stati correttamente illustrati, e le resistenze dei critici e storici letterari ricostruite in maniera dettagliata e convincente. Mi limito a suggerire due evenienze, in senso lato storiche, attive in particolare nel campo della poesia, che a mio avviso con maggior forza ostacolano una coraggiosa valorizzazione del postmoderno, segnatamente nel dominio poetico. Si tratta, peraltro, di due fatti strettamente connessi.
Da un lato, c’è l’esilità cronologica del «moderno» o «modernismo» poetico italiano, il ritardo con cui la poesia si è avvicinata da noi alle grandi trasformazioni attive su scala mondiale: che si prendano a modello, volta per volta – poniamo -, Wordsworth, Novalis, Baudelaire, Mallarmé o Whitman, o che si abbia il coraggio di tenerli tutti presenti, è abbastanza certo che in Italia, dopo l’isolatissimo Leopardi, una vera poesia moderna sia un affare in pratica solo novecentesco, cominciato con la cosiddetta generazione dell’ottanta, con i ventenni che esordivano nel primo decennio del secolo. E come si fa, insomma, a ridurre una tradizione così importante a non più di tre-quattro generazioni, se in effetti per Berardinelli già i nati dopo il 1920 (a partire da Pasolini) sono inseriti in un quadro post-, e comunque anche parecchi autori della «quarta generazione» (Luzi e Sereni in testa) sono indiziati di aver messo il piede in due scarpe? Per non dire del più anziano Montale, quasi paradigmatico nel presentare agli esegeti un’opera spaccata in due, facendo perno, poi, sulla data-emblema del 1956. Dal lato opposto, c’è un fenomeno che interessa in particolare i giudizi critici: vale a dire quella che chiamerei la sineddoche dell’avanguardia, la tendenza – in effetti soprattutto italiana – a ridurre modernità e modernismo (ora, e volutamente, senza virgolette) a luogo delle pratiche e poetiche dell’avanguardia. Errore storiografico per lo meno curioso, a meno di escludere dal modernismo nazionale quattro quinti dei poeti che, viceversa, tuttodì v’includiamo. In questo modo si dimentica che nella nostra poesia novecentesca hanno agito innanzi tutto autori isolati, estranei affatto o in parte alle poetiche di gruppo, che nondimeno hanno dato origine a grandi tradizioni moderniste (quasi mi vergogno a scrivere i nomi di Saba Ungaretti Montale, e a ricordare l’azione di taluni dialettali); ma, in particolare, si dimentica che, sino almeno alla fine degli anni cinquanta, la poetica di gran lunga più diffusa e influente è stata quella dell’ermetismo. Piaccia o non piaccia (a me magari non piace), non è l’avanguardia ad aver caratterizzato più profondamente il modernismo poetico: a conferirle una fisionomia illusoriamente unitaria è stato quel novecentismo descritto da Luciano Anceschi, e tematizzato quale ideologia poetica piuttosto stabile già nelle pagine dei giovani critici «fiorentini» degli anni trenta.
Compressa dalla storia e dall’ideologia avanguardistica, la modernità poetica italiana si ridurrebbe insomma a poca cosa: e più economica, euristicamente più semplice, indolore e continuista, risulterebbe una scelta intesa a sottovalutare le mutazioni profondissime che hanno caratterizzato il nostro campo dagli anni cinquanta in poi. Eppure, anche a costo di praticare un materialismo deterministico, sempre deprecabile: non vi eravate accorti che l’industrialesimo italiano ha sepolto se stesso e il proprio fordismo in un modo a dir poco precoce e frettoloso, battendo in velocità «decostruzionista» i grandi modelli produttivi che sulla scena della modernità ci avevano di molti decenni preceduto? Vi siete accorti che, anno 2004, l’Italia non ha più grande industria, che sul piano della produzione di serie, estranea alle forme artigianali e neoartigianali, il nostro inserimento in una logica mondialistica è, ormai, perfettamente acquisito? Non insisto, non ho né lo spazio né le competenze: ma che l’Italia abbia (avuto) un problema di piena realizzazione della propria modernità, economica sociale politica, mi pare una circostanza su cui molto è già stato detto.
Del resto, credo anche che, badando al limitatissimo specifico poetico, vi siano almeno tre fenomeni – tranne il primo, solitamente non abbastanza valorizzati dalla critica – su cui sarebbe il caso di riflettere, perché indiziano con forza il secondo Novecento e, va da sé, l’oggi come espressioni del postmoderno.
Punto primo: di nuovo le poetiche. Delle quali, beninteso, dalla fine degli anni cinquanta in poi non c’è stata certo penuria: ma che si sono presentate in posizione parecchio decentrata rispetto alla prassi. Non solo ormai tutti sappiamo che teorici dell’avanguardia come Renato Barilli hanno trasferito, senza vere contraddizioni, il proprio pensiero alla definizione del postmoderno; e sappiamo bene quanto – Sanguineti escluso, certo – sia ondivago e incerto il percorso di pensiero che sorregge la prassi del Gruppo 63. Ad esempio, quando nel 2002 Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani autostoricizzano la neoavanguardia, prendono atto della clamorosa varietà di motivazioni che aveva spinto loro e tanti altri scrittori a aderire a quell’esperienza, e addirittura esplicitamente riducono la molla della rivolta a uno slancio ludico-giovanilistico (con un’interpretazione, appunto, «generazionale», a-ideologica, che forse si potrebbe definire intrinsecamente postmoderna). E poi, e magari soprattutto, se si bada a un personaggio dalle prese di posizione anche letterarie forti, anzi fortissime, come Pasolini, è facile rilevare la straordinaria contraddittorietà, incoerenza della sua azione artistica rispetto alla sua poetica. Pasolini è uno scrittore che ha sempre predicato male e razzolato bene – e viceversa -, come tutti sanno: a partire dal suo organico inserimento in quella macchina produttiva della cultura e in quell’industrialismo tecnologico (il cinema!) che viceversa invitava gli italiani a disprezzare. Il punto, in definitiva, è che a partire per lo meno dagli anni sessanta a comportamenti letterari sempre più eclettici corrisponde una difficoltà a render conto, teoricamente, degli stessi. Tanto che i gruppi poetici – i quali oggi esistono quasi più che un tempo, come ben sappiamo – ormai si configurano per lo più quali aggregazioni parziali e provvisorie, non di rado dominate da motivazioni personali, amicali, quando non da considerazioni opportunistiche e carrieristiche discretamente ignobili.
Punto secondo: le forme, in particolare metriche. Non sarebbe difficile – qualcuno in parte l’ha fatto – mostrare come sul piano delle strutture versali e linguistiche la prima metà del Novecento riesca a mettere a fuoco una serie di tradizioni «della modernità», dotate a un tempo di coerenza e irrequietezza; modi – voglio dire – massimamente instabili ma distinti da costanti macroscopiche, che hanno costituito altrettanti a priori formali, indispensabili per dire l’esperienza del presente. E così, anche il verso libero ha saputo scavarsi una precarissima metrica, pur entro un bisogno di emancipazione soggettivistica, ritmica; e, come ha mostrato splendidamente Mengaldo, l’individualismo esistenziale, l’assenza programmatica dell’ermetismo, si traducevano in una lingua, in un sistema di pratiche stilistiche dotate di notevole ricorsività. Lungi dall’essere solo rottura (pregiudizio avanguardista), il moderno è stato capace di costituire le proprie tradizioni, una trama propulsiva di codificazioni in bilico tra continuità e dissoluzione.
Negli anni cinquanta, vale a dire con la crisi dell’ermetismo, e poi con particolar forza negli anni sessanta, tutto ciò va incontro a un rimescolamento eclettico e confusivo; e le pratiche, ormai diventate tradizioni (in qualche caso maniere), manierismo ermetico o, nella prosa, manierismo neorealista – poco importa), si contaminano rendendosi irriconoscibili. Quanto alla metrica, in particolare, prende progressivamente quota una possibilità in teoria contemplata dall’imperativo versoliberista, ma rimasta per lo più latente nella prima metà del secolo (solo Soffici, a me sembra, l’aveva frequentata con successo): l’opzione del verso amorfo, privo di qualsivoglia collante ritmico che non sia quello, del tutto estemporaneo, conferito dall’impulso individualistico. Un vero e proprio «anything goes» della forma, voglio dire: un metro che, soprattutto ai piani medi della poesia del Duemila, sembra dominare incontrastato; e le cui radici teoriche affondano nelle nozioni operative di «informale» e «atonalità», provenienti com’è noto da altre arti e acclimatate in letteratura dalla neoavanguardia e da Alfredo Giuliani in particolare.
Né, a me sembra, vale come obiezione il filone delle «forme fluide» – così le ha di recente definite Gabriele Frasca, proprio all’incontro di Pontignano -, cioè il cosiddetto recupero della metrica chiusa da parte, poniamo, di Patrizia Valduga, dello stesso Frasca e di molti poeti riconducibili al Gruppo 93. Il punto, a dirla tutta, è che la loro è una metrica che, anche dopo avere attraversato centinaia di sonetti, quartine, distici di versi doppi, sestine liriche e quant’altro di simmetrico e compiuto l’eredità detta classica possa offrire, non si stacca mai da un effetto – intenzionale o inintenzionale, poco importa – di parodia, di artificio, di falsetto. I metri chiusi, cioè, sono impiegati in modo da farci sentire la loro inattualità, la loro arcaicità: gabbie paradossali che si portano dietro tessere acroniche della lingua poetica italiana, campionature (proprio nell’accezione musicale del sampling) dall’intera tradizione, indispensabili non tanto per puntellare il verso, ma per far scattare la frizione – appunto parodica – tra forma e contenuto, per togliere al testo ogni possibilità di classica «naturalezza». In questo senso, allora, eccesso di informalità ed eccesso di formalismo sono le due facce di un medesimo bisogno di strutture eclettiche e aggreganti: siano esse quelle obliose nate dalla casuale giustapposizione di objets trouvés privi di storia, siano esse, all’opposto, quelle nate dalla manipolazione di forme convenzionali, poi sfigurate dal contatto con la palude delle voci contemporanee, con la melma dei linguaggi audiotattili. (E se il primo lo chiamate «postmoderno irriflesso», riservando al secondo l’etichetta di «postmoderno critico», il sottoscritto si dichiarerà pienamente soddisfatto.)
Punto terzo. Una storiografia minore come quella della canzone italiana da una ventina e più di anni a questa parte ci ricorda che il biennio 1957-1958 costituisce un momento di svolta per certi versi epocale: poiché – come tutti peraltro sanno – in quel torno di tempo prima con l’esperienza dei torinesi Cantacronache, poi con la vittoria a San Remo di Ne/ blu dipinto di blu di Domenico Modugno, la canzone italiana cambia, diventa altro da sé, andando incontro a quella metamorfosi «cantautorale» che nemmeno oggi accenna a interrompersi. Il mutamento, del resto, significa innanzi tutto un avvicinamento alla letteratura, vale a dire al genere lirico alto, un ammodernamento del sistema canzonettistico che finalmente riesce a ricordarsi che la poesia italiana dopo Giovanni Prati e Francesco Maria Piave ha, in effetti, compiuto qualche passo in avanti. Ma significa anche, nel corso degli anni, il processo opposto, vale a dire la possibilità di compenetrare le forme istituzionali con stilemi spurii, fortemente oralizzati, di provenienza anche canzonettistica; magari accettando – come hanno fatto i più giovani Lello Voce e Tommaso Ottonieri, insieme a certi grandi vecchi quali Pagliarani, Sanguineti, Arbasino – le modulazioni argomentanti e in parte narrative del rap. In questo modo, una spinta repressa sottesa al modernismo, cioè l’utopia d’una poesia discorsiva capace di radicarsi nell’esperienza del parlato popolare (nella forma, via via, della ballata o del recitativo melodrammatico, e magari anche dei blues di Cesare Pavese), riprende quota proprio dentro il melting pot postmoderno.
E se qualcuno notasse che queste tre, insieme ad altre caratteristiche in senso lato strutturali che si potrebbero invocare (dalla crisi dell’io, studiata benissimo da Enrico Testa nel suo fondamentale Per interposta persona, fino al prevalere tematico della superficialità e orizzontalità), importano la compresenza confusiva di spinte opposte, rese reversibili, fungibili – chi vi vedesse una simile tendenza, dico, di sicuro non sbaglierebbe. E non sbaglierebbe nemmeno se attribuisse certi fenomeni alla condizione sincretica, tribalizzante e audiotattile che da una cinquantina di anni a questa parte – anzi in Italia sono cinquanta giusti giusti, li compiamo proprio nei giorni in cui tirature esce – è indotta dai media elettrici ed elettronici, televisione in testa. Che la poesia non potesse sfuggire alle malie del tubo catodico, lo sapeva benissimo un maestro come Vittorio Sereni che negli Strumenti umani (anno 1965), in La poesia è una passione?, già aveva avuto il coraggio di affidare alla bassa definizione dei pixels casalinghi la responsabilità d’una poetica (anche nell’abitazione dell’io lirico, in un’«Italia sulle piazze / nei viali e nei bar ferma ai televisori», «una mano errò sull’apparecchio, agì / sulla manopola: nella stanza / fu di colpo la gara»). Ne discende, forse necessariamente, un diverso modo di fare poesia, una percezione della vita in cui la linearità segmentante e frammentante dei codici alfabetici convive con una nebulosa aggregante di sollecitazioni elettriche le quali operano a diretto contatto con la corporeità del soggetto: tutte quelle cose che i mass mediologi più consapevoli si affannano a predicare da molti anni; ma che i critici letterari faticano a capire. Non per caso, fuori dei luoghi comuni catastrofistici, in Italia pochissimo sappiamo del modo come i mass media hanno cambiato la letteratura, l’hanno modificata contaminandola.
Tuttavia, che accetti l’informale oppure reagisca arginando l’indistinto con precarie, inattuali impalcature, o che – più spesso – oscilli coattivamente tra i due estremi, priva di consapevolezze che non siano quelle di una provvisoria collocazione in un gruppo casualmente scelto, la poesia che dico postmoderna si presenta – nella pratica – come un arcipelago assai più ricco e variegato di quanto il catastrofismo dei chierici non veda. 11 mio studente medio, postmoderno appunto «di pelle», magari mugugna davanti a Zanzotto o De Signoribus: ma riesce a capirli un po’ quando ne vive il cortocircuito con Vinicio Capossela e i Bluvertigo (e magari pure con Armando Gill); non riuscirà mai a parafrasare decentemente una lirica di Milo De Angelis o di Fabio Pusterla: ma ne valorizzerà certe slogature semantiche dopo averle apprezzate in Francesco De Gregori o Max Gazzè. E così via. Certo senza illusioni, senza pensare di essersi incamminati chissà su quale strada. Accettando gli infiniti imprevisti dell’indistinto postmoderno, sono molte le avventure estetiche cui si va incontro, sono molte le gerarchie che a furia di ribaltamenti magari si riesce a riorganizzare in provvisorie configurazioni; sono molti in definitiva i testi che si leggono con qualche piacere e profitto. Ma eravamo qui per questo, no?