Quest’anno la produzione libraria italiana ha saputo tenere testa alla concorrenza straniera. Particolare successo hanno avuto i volumi saggistici legati alla cronaca e nati sull’onda emotiva post 11 settembre, come La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci e Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani. Nel campo della narrativa (sia italiana sia estera), invece, l’attualità non lascia quasi traccia a tutto vantaggio dell’avventura: dal poliziesco di Camilleri alle saghe magico-fiabesche di Harry Potter e degli Hobbit.
Cinque titoli nella top ten, undici fra le prime venti posizioni della graduatoria annuale dei libri più venduti nella stagione 2001-2002. I numeri danno ragione alla produzione italiana, saggistica o narrativa, che quando adotta moduli espressivi di agevole comunicabilità si rivela capace di reggere il confronto con la concorrenza straniera, smentendo le apprensioni di chi vede nel processo d’internazionalizzazione del mercato la minaccia d’un irrevocabile appiattimento delle scelte culturali del pubblico sugli standard nordamericani.
È il primo dato di rilievo che emerge dall’analisi dei sondaggi dell’istituto Cirm pubblicati settimanalmente su «la Repubblica» dal 7 settembre 2000 al 26 luglio 2001. L’altro è il ritorno d’interesse per l’attualità politica, riconducibile in larga misura al clima d’inquietudine che ha fatto seguito al crollo delle Twin Towers. Ma vediamo i risultati (la classifica è costruita assegnando cento punti al titolo più venduto della settimana e un relativo punteggio inferiore agli altri). Il posto d’onore, con ben 1.366 punti, se l’aggiudica il discusso La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci. Largamente distanziato, con 957 punti e 10 presenze, al secondo posto si colloca un altro libro italiano, La paura di Montalbano dell’ormai pluricollaudato Andrea Camilleri. Seguono Ritratto in seppia della cilena Isabel Allende, 844 punti e 13 presenze; Il momento è catartico del cabarettista Flavio Oreglio, 810 punti e 16 presenze; Harry Potter e la pietra filosofale della gallese Joanne Kathleen Rowling, 809 punti e 14 presenze; Il signore degli anelli dell’inglese John Ronald Reuel Tolkien, 793 punti e 13 presenze; Harry Potter e la camera dei segreti ancora della Rowling, 777 punti e 15 presenze; La convocazione dello statunitense John Grisham, 748 punti e 13 presenze; Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani, 671 punti eli presenze; Il re di Girgenti di Camilleri, 579 punti e 10 presenze.
Nelle posizioni immediatamente seguenti, ecco gli altri titoli italiani: L’ultima legione di Valerio Massimo Manfredi, tredicesimo con 452 punti e 8 presenze; quattordicesimo Next di Alessandro Baricco, 412 punti e 6 presenze; sedicesimo il sorprendentemente longevo Sola come un gambo di sedano di Luciana Littizzetto, 356 punti e 7 presenze; diciassettesimo Il incontinente bianco di Giobbe Covatta e Paolo Catella, 330 punti e 8 presenze; diciottesimo La scossa di Bruno Vespa, 290 punti e 8 presenze; ventesimo Afghanistan anno zero di Giulietto Chiesa e Vauro, 257 punti e 6 presenze. Sopra la soglia dei 200 punti, si collocano egregiamente anche Margaret Mazzantini, Non ti muovere, 241 punti e 3 presenze; Andrea Camilleri, L’odore della notte, 231 punti e 3 presenze; Luciano De Crescenzo, Storia della filosofia medievale, 226 punti e 7 presenze; Andrea De Carlo, Pura vita, 206 punti e 5 presenze.
Certo, l’exploit della Fallaci è stato agevolato dal grosso clamore che il lungo articolo scritto di getto, a ridosso dell’11 settembre, sollevò con la pubblicazione a caldo sulle pagine del «Corriere della sera», suscitando un dibattito cui, per l’autorevolezza degli intervenuti e l’importanza dell’argomento, non si assisteva da tempo immemorabile. Al di là dei dubbi che è legittimo coltivare sui contenuti e lo stile, bisogna riconoscere che La rabbia e l’orgoglio è stato in assoluto uno dei più notevoli eventi giornalistici, prontamente annunciato con tutti i crismi dell’eccezionalità e apparso al momento giusto, nel pieno dell’incertezza internazionale, quando l’intervento in Afghanistan delle forze armate anglo-americane era previsto ma non ancora sicuro.
Il successo librario, però, non era per questo altrettanto scontato o, almeno, non lo era di tale entità e durata, superiore a quella di qualsiasi altro instant book. Nelle librerie, infatti, La rabbia e l’orgoglio giunge il 12 dicembre, dopo che la polemica si è sopita, e mantiene le posizioni di testa per 17 settimane sino alla fine di aprile, a guerra di fatto conclusa. Per la maggioranza dei lettori l’appassionato f accuse della Fallaci ha dunque una persuasività che va oltre la contingenza della cronaca. Quali che siano i fattori di richiamo che hanno agito nell’immediato, il suo motivo di maggiore forza sta, infatti, nell’aver saputo cogliere il punto debole dell’identità italiana ed europea: una sorta di complesso di Amleto che, ogni qual volta la storia reclama una reazione urgente, immobilizza il Vecchio Continente in una discussione senza fine su ciò che è giusto impedendogli, per paura di sbagliare dopo gli orrori del passato, di tradurre in atto il frutto delle proprie riflessioni e costringendolo ad abbandonare le sorti del pianeta alle decisioni di altri.
Le ragioni della fortuna del pamphlet devono essere ricercate proprio nell’intraprendenza con cui la Fallaci ostenta di rompere non solo il proprio silenzio ma anche quello dell’intera intellettualità nostrana. Certo, tanta audacia ha un prezzo esorbitante: la rabbia e l’orgoglio trascinano l’autrice in un giudizio frettolosamente denigratorio verso l’intero mondo arabo-islamico che imbarazza per la sua perentorietà senza appello. Ma la veemenza oratoria discende anche dall’adozione di un codice espressivo che ripropone i modi di un giornalismo militante, che ha l’ambizione di intervenire nella contesa politica per incoraggiare un mutamento dei comportamenti e della realtà dei fatti: mentre spartisce accuse a destra e a sinistra, la Fallaci insomma si presenta, sia pure nella maniera riottosa congeniale alla sua origine toscana, nei panni popolari dell’eroina che non ha paura dei potenti e dice quanto gli altri tacciono per viltà o stoltezza.
Sul fronte opposto, una diversa prova di passione militante s’incarica di radunare intorno a sé coloro che, nell’eventualità imminente dell’azione bellica, si preoccupano per le pericolose conseguenze di una recrudescenza della strategia della tensione destinata a consolidare le ansie di vendetta e l’odio antioccidentale. La diversa presa di posizione è palesata fin dal titolo, Lettere contro la guerra, appunto. L’autore è un altro giornalista, toscano ed esule per scelta: ma come patria elettiva Tiziano Terzani ha scelto non la modernissima New York bensì le più impervie pendici dell’Himalaya. Il suo punto di vista è quello del saggio che ha viaggiato molto, rinunciando alle comodità del benessere per andare a vedere di persona come si vive negli altri angoli della terra. E ora, non ancora varcate le soglie della vecchiaia, può ammonire i connazionali ricordando, per averne constatato gli effetti, le responsabilità dell’Occidente nel depauperamento delle antiche e un tempo fertili civiltà dell’Asia.
A ispirarlo è un incondizionato amore per la vita che si traduce in una oratoria pacata e classicamente ornata, che solleva però non meno dubbi di L’orgoglio e la rabbia: dietro i sacrosanti appelli a un intervento di risanamento che restituisca dignità al Terzo Mondo e disinneschi le potenzialità esplosive, si nasconde infatti un umanesimo che confida nei buoni sentimenti e in un volontarismo solidaristico chiamato a riequilibrare le disuguaglianze nel pianeta costringendo le potenze occidentali e le multinazionali a fare un passo indietro nel perseguimento dei profitti a basso costo nei paesi in via di sviluppo.
Ma non c’è solo il giornalismo militante, orgogliosamente occidentalista o amorevolmente terzomondista. L’ondata emotiva che ha fatto seguito all’11 settembre porta verso le posizioni alte della classifica anche un testo di esemplare serietà informativa come il già ricordato Afghanistan anno zero, che in un linguaggio cronachistico e referenziale ripercorre le tappe della presa del potere dei talebani. E nelle posizioni ulteriori sono degni per diversa ragione di attenzione la silloge a più voci La guerra del terrore, 113 punti, L’Islam spiegato ai nostri figli di Tahar Benjelloun, anch’esso 113 punti, e Osama Bin Laden di Fabrizio Falconi e Antonello Sette, 57 punti. Mentre fra i titoli che hanno conseguito un riscontro commerciale di una certa consistenza, pur senza entrare nelle classifiche settimanali, vale la pena ricordare Talebani di Ahmed Rashid, Holy War, Ine. Osama Bin Laden e la multinazionale del terrore di Peter Bergen, Nel nome di Osama Bin Laden di Yossef Bodansky, 11 settembre. Le ragioni di chi? di Noam Chomsky, L’islamismo radicale di Bruno Etienne.
La questione islamica, d’altra parte, non esaurisce il variegato bisogno di informazione saggistica che contraddistingue l’annata appena trascorsa. Il diffuso scetticismo no global trascina al quattordicesimo posto gli interrogativi elzeviristici di Baricco già ospitati da «la Repubblica» e ora riuniti in Next e, per la seconda stagione, porta in graduatoria No logo della canadese Naomi Klein, 202 punti e 4 presenze, voluminoso manifesto del movimento organizzato. Mentre l’arroventato clima della politica interna fa da sfondo al sequel di Bruno Vespa che, nelle oltre 500 pagine di La scossa, riprende il discorso interrotto alle elezioni del 2001 in Scontro finale per raccontare avvenimenti e cambiamenti dell’Italia berlusconiana. Sia pure nelle posizioni di coda, sono infine da segnalare Mezzanotte e cinque a Bhopal di Dominique Lapierre e Javier Moro, 99 punti, e Memorie di un conservatore di Sergio Romano, 84 punti.
Sul versante della narrativa, il panorama cambia radicalmente. L’attualità non lascia quasi traccia. A dividersi i favori del pubblico sono due generi di indole avventurosa: da un lato, il poliziesco, con il ritorno di Camilleri a una nuova puntata del commissario Montalbano e, dall’altro, le sagre magico-fiabesche di matrice nordica di Harry Potter e degli hobbit. Quali siano i prediletti dei lettori, del resto, emerge meglio se proviamo a ricomporre la graduatoria sommando i punti degli autori presenti in classifica con più titoli. L’operazione fa balzare la Rowling al vertice della top ten con quattro titoli e la bellezza di 2.216 punti complessivi, quasi 500 in più rispetto al romanziere siciliano che sale al secondo posto con 1.767 punti e tre titoli, mentre Tolkien si afferma al quarto posto con 908 punti e due titoli (al terzo, con punteggio invariato, resiste la Fallaci con il solo La rabbia e l’orgoglio).
D’altra parte, se Camilleri porta in graduatoria due novità (La paura di Montalbano e Il re di Girgenti) è significativo che gli altri otto successi siano ristampe o riedizioni. E ciò smentisce il luogo comune secondo cui la politica dei best seller sia funzionale ai libri di una sola stagione, destinati a scomparire in fretta per agevolare il ricambio. E vero, peraltro, che il rilancio editoriale dei cicli di Harry Potter e di Il signore degli anelli è debitore all’eccezionale successo che ha accolto le rispettive trasposizioni cinematografiche, così come le opere di Camilleri traggono forza dall’ampia risonanza della contemporanea serie televisiva che ha innalzato l’attore Luca Zingaretti ai ranghi del divismo. Ma in questa dinamica non bisogna vedere soltanto gli effetti negativi di un’americanizzazione dell’industria artistico-culturale, sempre più regolata dalle leggi del marketing e protesa all’ottimizzazione dei profitti. Storicamente, in Italia il problema dell’editoria è costituito da una logica industriale non troppo aggressiva ma, al contrario, troppo fiaccamente pervasiva. La reciproca collaborazione tra i settori dello spettacolo e quello editoriale rappresenta dunque un segno positivo di maturità raggiunta, che permette di sfruttare l’intero ventaglio di potenzialità di un insieme di prodotti in grado di dialogare con fasce di destinatari molto estese, riuscendo negli esempi citati ad allargare i confini ristretti dell’abituale area di lettura.
Naturalmente, gli investimenti non danno sempre i frutti promessi. Il caso di Il diario di Bridget Jones insegna: la commedia cinematografica con Renée Zellweger, Hugh Grant e Colin Firth riporta bensì sotto i riflettori l’omonimo libro di Helen Fielding, campione d’incassi oltreoceano, ma la fragilità della storia e il tema da noi poco sentito fanno sì che il romanzo (poco fortunato pure al suo apparire nel 2000) si arresti in una posizione di bassa classifica, con 146 punti e cinque presenze (una media di soli 29,2 punti a settimana), un esito deludente non in assoluto ma rispetto alle speranze. Né le cose vanno meglio per La banalità del bene di Deaglio: pubblicata originariamente nel 1991 la biografia di Giorgio Perlasca, l’italiano che durante la seconda guerra mondiale salvò centinaia di ebrei ungheresi, racconta un evento emotivamente troppo lontano dall’orizzonte d’attesa del pubblico italiano per ottenere uno score significativo e, nonostante la buona audience del film tv che ha ispirato, si deve accontentare di appena 60 punti. Ma questi esiti non fanno che ribadire, per contrasto, che il successo non è programmabile a tavolino, e nessun evento promozionale è in grado da solo di trasformare un libro in un best seller.
Per altro verso, è da notare che gli unici due titoli che hanno scalato la top ten senza contare sul soccorso di cinema, tv o stampa quotidiana sono, per ironia della sorte, romanzi che provengono d oltreoceano: Ritratto in seppia di Isabel Allende e La convocazione di John Grisham. Ciò significa non solo che la produzione italiana ed europea risulta favorita, non danneggiata dall’adozione di moderni criteri commerciali, ma soprattutto che il pubblico elegge i propri beniamini in maniera tutt’altro che passiva, premiando non i prodotti che ripetono le formule che si sono già rivelate efficaci, ma quelli che sanno sorprendere, differenziandosi senza infrangere i principi di colloquialità affabile. Non a caso ci troviamo di fronte a opere che presentano un alto grado di personalizzazione e di originalità individuale. Lo stile di Camilleri non è assimilabile neppure lontanamente a quello degli altri giallisti con i quali lo scrittore siciliano entra in competizione. E, nonostante la comune ambientazione nordica, lo spiritualismo psicologistico dei racconti strutturalmente disciplinati della Rowling non ha nulla da spartire con l’esoterismo arrovellato ed estetizzante dell’epopea ad ampie volute di Tolkien.
Rimane piuttosto un altro dato allarmante: l’impopolarità dei narratori italiani più o meno di professione. Solo sei, nella pur folta compagine nazionale (contando uno anche i libri scritti a quattro o più mani, parliamo di venticinque autori sui cinquantotto entrati almeno una volta nelle classifiche settimanali: una percentuale che si avvicina al 50%): Camilleri, Manfredi, De Carlo, Mazzantini, Stefano Benni (Saltatempo, 170 punti), Sveva Casati Modignani (Vicolo della duchessa, 80 punti). Escludendo Baricco, presente nella non fiction, e un divulgatore come De Crescenzo che si colloca in un’area paranarrativa, gli altri sono giornalisti (Fallaci, Terzani, Vespa, Chiesa, Falconi, Sette, Deaglio, Indro Montanelli), opinionisti (Alberoni, Romano, Beppe Severgnini, Michele Serra), cabarettisti o attori comici (Oreglio, Littizzetto, Covatta, Aldo Giovanni & Giacomo), editori (Leonardo Mondadori), addirittura calciatori (Roberto Bangio).
È la conseguenza di una difficoltà storica ancora non del tutto superata. Certo, la civiltà del romanzo si è ormai stabilmente acclimatata nel paese, ribaltando la tradizionale gerarchia dei generi che riconosceva alla poesia i caratteri di maggiore nobiltà. Né si può dire che manchino i talenti: il mutamento delle preferenze di lettura ha favorito da tempo il ricambio generazionale, facendo emergere negli ultimi decenni una schiera tanto nutrita di scrittori in prosa, dotati di qualità linguistiche e narrative, come non si era mai vista in precedenza. Ciononostante, i nostri narratori faticano a trovare le vie più consone per tenere aperto il dialogo con il pubblico. Le classifiche riflettono questa impasse: non si può attribuire a loro la colpa se ogni anno a ripresentarsi puntualmente sono i soliti, pochi nomi.