Best seller europei. Tra autarchia e americanismo

L’apertura delle frontiere europee produce anche un’apertura culturale? Sta nascendo un lettore europeo, meglio disposto alle novità che provengono dall’estero? Oppure si perpetuano vecchi cliché come lo «sciovinismo» dei francesi? Una lettura delle classifiche dei settimanali e soprattutto di Amazon permette di capire a che punto è l’«europeismo» della lettura. Anche se con molte cautele.
 
Chissà se con l’Europa di Maastricht si va formando pian piano anche un’Europa della cultura. O meglio: ora che abbiamo un mercato globale, Internet e una comunità continentale, i singoli mercati nazionali del libro sono un po’ più internazionali rispetto al passato? Gli editori traducono di più? I lettori mostrano una qualche curiosità nei confronti delle culture dei paesi cui sono economicamente affiliati? Le classifiche dei best seller possono essere un buon metro per misurare il tasso di considerazione culturale che ciascun paese ha di sé e degli altri. E uno sguardo ai libri più venduti attraverso uno strumento privilegiato come Internet potrebbe offrire risultati significativi. Dunque, vediamo.
Si è sempre ritenuto che quello italiano, anche dal punto di vista letterario, sia un popolo che pecca per eccesso di esterofilia. Si è sempre detto che traduciamo di tutto, anche quando, forse, non ne vale troppo la pena. I lettori preferiscono un mediocre romanzo americano a un buon romanzo nostrano. Il che contribuisce a spiegare perché i nostri scrittori sono costretti ad accontentarsi di basse tirature in un mercato zeppo di titoli stranieri, soprattutto quelli tradotti dall’inglese. E vero, d’altra parte, che letterature europee in passato accolte da noi con tangibile simpatia, come quella francese e quella tedesca, hanno raccolto negli ultimi decenni ben pochi lettori, forse anche per una qualità non sempre eccelsa. Provando a scorrere, in tempi diversi, le classifiche dei cento libri più venduti secondo Internet Bookshop (una sorta di Amazon italiano), non pare che le cose siano molto cambiate. Nel marzo scorso, gli autori italiani presenti tra i top cento erano quarantadue, esattamente cinquanta quelli anglo-americani, soltanto otto gli altri (francesi, tedeschi, spagnoli, latino-americani, eccetera). Alla fine di luglio, le percentuali non mutavano di molto: sempre quarantadue gli italiani, quaranta i titoli di lingua inglese, cinque i francesi (tra cui ben tre romanzi di Georges Simenon). Insomma, gli italiani rimangono pur sempre in una lieve minoranza, così come i singoli paesi europei. La parte del leone spetta alla produzione in lingua inglese. Da questo punto di vista il nostro paese somiglia, sorprendentemente, al caso tedesco. Almeno in parte, come si vedrà. Tra i top dieci segnalati alla fine di luglio da Amazon.de ben sei erano di lingua inglese e uno soltanto di lingua tedesca. Si potrebbe obiettare che lo strumento Internet, mezzo per eccellenza della globalità, offre fatalmente un quadro più internazionale: scorrendo però le classifiche del settimanale «Der Spiegel», si riscontravano varianti minime: tra i primi venti libri di «Belletristik» (letteratura) solo quattro (Martin Walser, Donna Leon, Gunter Grass e Martin Walser) erano in lingua originale. E gli altri? Chiara maggioranza anglofona, con Jonathan Franzen, Joanne K. Rowling (presente con quattro titoli), John Grisham, Philip Roth, John Irving, Stephen King eccetera. Poi: il portoghese Paulo Coelho e il giallista svedese Henning Mankell (in ascesa un po’ ovunque), mentre dopo i trionfi dei mesi precedenti, Baudolino, unico italiano, era attestato al diciannovesimo rango. La Germania, editorialmente, è dunque un paese esterofilo quanto l’Italia? Non del tutto. La situazione si capovolge se passiamo alla lista dei «Sacherbucher» (i saggi), dove su venti titoli ben diciassette sono tedeschi (tra storia, politica e società).
Se andiamo alla ricerca degli scambi continentali, e cioè del tasso di curiosità rivelata dai mercati nazionali rispetto alle altre letterature europee in tempi in cui tanto si parla di Europa, non si può nascondere una profonda delusione. Ecco la Francia. In marzo il settimanale «Le Point» collocava nella classifica dei quaranta libri più venduti ben ventisette titoli francesi. Per un altro settimanale, «L’Express», solo sette su trenta erano gli stranieri. Proporzione mutevole, se si considera che in luglio le percentuali si ribaltavano, specie nella fiction, grazie anche alle entrate di Mary Higgins Clark, Paul Auster, John Irving. Il che fa pensare che persino un paese considerato tradizionalmente «sciovinista» come la Francia, a ridosso delle vacanze preferisce buttarsi sulla letteratura americana. E continua pur sempre a latitare l’Europa, con l’eccezione di Umberto Eco (2° in marzo, 14° in luglio). Colpisce che, per quanto riguarda la saggistica, anche la Francia si mostri senza riserve radicalmente chiusa all’estero, con quindici titoli su quindici prodotti in casa, da Georges Chirac a Philippe Sollers, da Regis Debray a Bemard-Henri Lévy (la scalata della Fallaci si colloca tra fine luglio e inizio agosto). Prendendo Amazon.fr (sempre in piena estate), si avrà forse un quadro più completo: tra i primi cinquanta, ben trentuno sono i titoli francesi, pur confermandosi una prevalenza straniera ai piani alti. Anche qui le presenze europee sono molto limitate: nei top cento compare ben cinque volte Harry Potter, e gli altri si possono contare sulle dita di una mano: Roald Dahl (numero 4), Oriana Fallaci (13), Arturo Pérez-Reverte, Ian McEwan, John R.R. Tolkien, e infine la sorpresa di Leonardo Sciascia (al 96° posto con Morte dell’inquisitore), subito scomparsa all’inizio di agosto.
Ancora più refrattari al continente sembrano i lettori britannici, appagati dalla letteratura di lingua inglese. I trenta best seller pubblicati alla fine di marzo dal quotidiano «Thè Independent» non contemplavano intrusioni: nessun francese, tedesco, spagnolo, tantomeno italiano. Su Amazon.co.uk (fine luglio) per cogliere un’eccezione, tra i primi cento, bisognava scendere al 51° posto, dove si trovava L’alchimista di Coelho. Né la Spagna sembra eccellere per «eurofilia», se è vero, come segnalava in marzo la classifica dei «mas vendidos» del quotidiano «E1 Mundo», che l’unica eccezione al compatto fronte ispanofono era la quadruplice presenza di Harry Potter.
Dunque, ricapitolando. L’Europa unita economicamente rimane disunita sul piano della cultura libraria? Per quanto è dato dedurre da uno sguardo panoramico alle classifiche di vendita, la risposta non può che essere affermativa. In particolare: Francia e Spagna leggono solo, o quasi, prodotti self made: se si registrano eccezioni (che per la Francia si è visto essere stagionali e per la Spagna limitate alla vasta area ispanofona), non si va al di là della letteratura in lingua inglese. L’Inghilterra di Blair, che gode di orizzonti linguistici molto estesi, si disinteressa però dell’Europa. Italia e Germania si presentano come le aree più disponibili all’apertura internazionale, ma anche qui lo sguardo europeo è decisamente più limitato rispetto all’attrazione esercitata dai prodotti originariamente anglofoni.
I successi globali dell’anno sono Tolkien e le varie puntate di Harry Potter, spinti dalle spettacolari versioni cinematografiche: sono loro l’attuale «avanguardia» dell’europeismo editoriale. I «sempreverdi» non cambiano da anni: Grisham, Irving, Clancy, Follett e Le Carré. In questo mare, gli italiani scompaiono. Se si guarda ai grandi numeri internazionali, con le eccezioni di Eco e, qua e là, della Fallaci, gli italiani rimangono pane per gli italiani. Mal comune mezzo gaudio? Certo, se si vanno a osservare i nomi francesi più frequenti su altri mercati, ci si dovrà limitare a Michel Houellebecq in ambito strettamente contemporaneo e a Georges Simenon come classico novecentesco, mentre indubbiamente la confessione-scandalo di Catherine Millet ha saputo infiltrarsi all’estero, specie in Germania e Italia, ma si tratta di un exploit stagionale. E i tedeschi? Peggio che andar di notte. Niente o quasi sui fronti esteri. Gli spagnoli? Arturo Pérez-Reverte e poi il deserto. L’Inghilterra, invece, sembra avere il vantaggio di giocare quasi alla pari con gli Stati Uniti.
Nel valutare la stima che ciascun paese ha di sé e degli altri, toma utile una riflessione a proposito dei classici. Quanti e quali classici europei compaiono nelle singole top? Vediamo. In Italia è presto detto: dobbiamo scendere fino al 47° posto (Internet Bookshop di luglio) per trovare il primo classico di casa (Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino). Dopo, fino al 100° titolo, niente. Altrettanto esigua la presenza di classici europei: Sandor Màrai con due titoli (ma si può davvero considerare un classico, visto che i suoi romanzi circolano da pochi anni?); l’eterno Simenon con due titoli tra i primi quindici; Tolkien sulle ali del già ricordato successo cinematografico; Antoine de Saint-Exupéry. Unico classico extraeuropeo è Jerome David Salinger. In Germania, il solo classico tedesco capace di rompere il fronte compatto delle novità è Hermann Hesse, con tre romanzi tra i primo cento (Amazon.de a luglio). A parte Tolkien, nessun classico di provenienza straniera. E mentre l’Amazon inglese non conosce nomi che non siano strettamente d’annata, un discorso a parte merita la Francia, dove in netta controtendenza rispetto agli altri mercati europei l’autoconsiderazione si esprime visibilmente anche nella comparsa di numerosi autori da antologia tra i primi cento (Amazon.fr a luglio). Nell’ordine: Albert Camus (La caduta, 7°), Saint-Exupéry (39°), ancora Camus (Sisifo, 41°), Louis-Ferdinand Céline (Morte a credito, 68°), Paul Verlaine (81°) e Francois Mauriac (Thérèse Desqueyroux, 98°).
Si dirà che un’analisi limitata ai primi cento titoli (e per di più venduti attraverso Internet) non può rendere ragione della complessità del mercato editoriale. E vero che autori, italiani e no, notoriamente molto fortunati all’estero non compaiono nelle top, ma certamente, in attesa di novità, godranno di una presenza costante nelle zone più basse. Si potrà insomma osservare che guardando solo ai primi cento sfuggiranno fatalmente i tanti potenziali long seller che costituiscono il pane quotidiano dell’editoria e che con il tempo andranno ad aggiungersi ai cosiddetti grandi numeri. Si registri pure il fatto, conclamato, che il best seller di qualità è indubbiamente un requisito americano. Tutto vero. Può darsi che dietro le prime file premano schiere invisibili capaci, nel giro di pochi anni, di ribaltare un fenomeno, diciamo quello della generale «autarchia» o «anglofilia», che oggi appare scontato, persino nei canali di vendita globali (offerti da Internet) che, stando così le cose, non sembrano affatto favorire gli scambi europei. Ma se per il momento queste sono le tendenze, sia pure prese con tutte le molle del caso: se cioè i francesi non leggono gli italiani, se gli italiani non leggono i francesi, se i tedeschi ignorano gli spagnoli e gli inglesi non si degnano di conoscere i classici francesi, tedeschi, italiani; e se tutti (francesi, spagnoli, italiani, tedeschi, inglesi) si precipitano per lo più sugli ultimi best seller americani, non resta che parafrasare il buon vecchio d’Azeglio: «Ora che s’è fatta l’Europa, facciamo gli Europei».