Il fumetto è un barbone di nicchia

Per la cultura italiana il fumetto è come un barbone di cui si esaltano le virtù umane ma che non si vuole nella propria casa: a leggerlo sono rimasti solo i giovanissimi e i giovani, capaci di addentrarsi in linguaggi in continua evoluzione e di comprenderne le potenzialità stilistiche. E cosi per gli adulti, che non sanno più leggere i fumetti, la morte di Charles M. Schulz è coincisa con la morte del fumetto stesso, benché la magica invenzione dei suoi Peanuts, giorno dopo giorno, si fosse trasformata in una formula banale e ripetitiva.
 
L’evento fumettistico di quest’anno è stato una morte. La morte di Charles M. Schulz. Questo già di per sé non sarebbe un fatto molto confortante. In realtà è stato anche peggio. Perché la morte di Schulz si è rivelata, in qualche modo, come la morte del fumetto nella coscienza dei media.
A torto o a ragione, i fumetti non fanno parte più, nell’immaginario italiano, della cosiddetta comunicazione di massa. Tolti Topolino, Tex e Diabolik, il resto della produzione editoriale italiana viene considerata di nicchia. D’élite. Perfino Superman. Perfino i Simpson (in quanto fumetto). Perché il fumetto oramai, più che un medium industriale, è una linea di demarcazione: in primo luogo generazionale; in secondo, culturale. I fumetti sono letti dai giovanissimi e dai giovani. Gli adulti o non leggono affatto, oppure non leggono fumetti, oppure ne leggono qualcuno solo occasionalmente. Soprattutto, però, ne leggevano. E, tra tutti, leggevano Linus. Anche perché nel fumetto, e in quel tipo di fumetto in particolare, si riconosceva una larghissima parte della sinistra.
Ecco dunque che la morte di Schulz ha avuto larghissima eco nella stampa italiana, di cui sono protagonisti molti di coloro che anni fa leggevano Linus e Charlie Brown (e fanno o facevano parte della sinistra). Peccato però che sia stata una terribile celebrazione della falsificazione della realtà, della mistificazione, della retorica. Per quanto possa dispiacere a molti (compreso il sottoscritto), Mr. Schulz non era affatto un compagno. Era piuttosto uno yankee, un ricchissimo yankee con una lussuosa villa nel nord della California. Un americano al cento per cento.
La stampa italiana, i giornalisti italiani, lo hanno presentato come un poeta. li poeta del fumetto (esattamente come De André è stato banalizzato come il poeta della canzone). È stato descritto come colui che ha rifiutato la volgare commercializzazione dei suoi personaggi. È stato detto che mai al mondo avrebbe dato i suoi personaggi ad altri autori, perché la sua identificazione con loro era troppo forte: un vero poeta non trasforma in prodotto delle creazioni. Quante falsità, quante sciocchezze in queste parole.
Ci si può permettere di amare Schulz e i suoi personaggi riportando tutto a una parvenza di verità?
Schulz è stato un grandissimo autore di fumetti. Con la creazione di Linus, Charlie Brown, Snoopy & c. ha rivoluzionato l’idea dell’umorismo a strisce, offrendo ai personaggi delle strips una profondità simbolica che prima non avevano. Prima il lettore rideva dei personaggi delle strips perché erano diversi da lui, o perché erano proprio come lui. Con Schulz viene superato il semplice processo di identificazione, per giungere al riconoscimento psicologico. Noi non siamo, i lettori non sono solo Linus o Charlie Brown; noi siamo tutti i personaggi. In ognuno di noi c’è un po’ di Snoopy e un po’ di Piperita Patty. Noi stessi siamo l’universo dei Peanuts. E poiché tutti i personaggi sono veri e diversi, ogni diversità è parte di noi, della nostra vita, della nostra psicologia.
Che Schulz sia mai stato cosciente di tanta profondità, di tanta qualità, non è molto importante. Anche perché poi questi temi sono prettamente europei: difficilmente si ritrovano negli scritti e nei saggi americani. Di certo però Mr. Charles ha coscientemente sfruttato in tutti i modi, sia pure con decoro, i suoi personaggi. Come un grande imprenditore più che come un poeta. E non si vede come avrebbe potuto fare per poterli commercializzare di più, visto che i suoi personaggi sono stati stampati sulle magliette, sugli asciugamani, sulle cartoline d’auguri, sulle penne, sui quaderni, sugli astucci, ecc. Tutti gli oggetti del mondo hanno avuto uno Snoopy stampato sopra. E i Peanuts sono stati anche cartoni animati, videogiochi, musical, canzoni, eccetera eccetera. Ma va bene, inseriamo anche tutto questo nel mondo della poesia, va benissimo. Però la tragica verità che nessun giornalista ha voluto ammettere è che Schulz ha di fatto trasformato la sua magica e rivoluzionaria idea in una banale formula vincente. Ripetuta per tanti anni, giorno dopo giorno. Da quanti anni nessuno leggeva più Linus? Da quanti anni non leggevamo più le strisce di Schulz che lui continuava a scrivere e disegnare? Da tanti, per lo meno venti, forse di più. Perché non avevano più niente da dire, perché non rappresentavano più nulla. Erano una nostalgia, un déjà vu. La stanca abitudine di un autore invecchiato di passare le giornate riempiendo cartoncini bianchi con personaggi stranoti che ripetevano le loro scenette rimpinguando le sue casse. Pare che oramai servissero soprattutto a salvarlo dalla depressione. Povero vecchio Schulz.
Avrebbe almeno potuto prendersi una bella vacanza, almeno una in cinquant’anni di produzione. Come hanno fatto Gary Trudeau, Gary Larson e Bill Watterson aprendo una consuetudine rivoluzionaria (tanto che nel 1995 la Universal Press ufficializzò una vacanza di quattro settimane per tutti i suoi autori, riuscendo a comprendere che un periodo di distacco da un lavoro creativamente tanto massacrante non può che fare bene). E invece niente. Avrebbe potuto prestare i suoi personaggi a un nuovo autore capace di rivoluzionare ciò che era imborghesito, di ritrovare scorie di genialità in un materiale da tempo ammuffito. La storia del fumetto ci dice che non bisogna attaccarsi gelosamente alle proprie creature. Meglio che, una volta nate e cresciute, passino di mano come un tesoro collettivo, come celebrità di pubblico dominio. Magari esagero, ma sono incattivito: un altro grande autore di fumetti, Carl Barks non ha passato la sua vita a realizzare storie di personaggi non suoi ma della ditta Disney? Per questo è meno poeta? E alcuni grandi momenti della storia del fumetto non sono forse dovuti al passaggio in altre mani di personaggi ormai stanchi e falliti (come Batman, ad esempio)? E chi glielo dice ora ai francesi che non è da poeti far scrivere ad altri grandi autori le storie di Blake & Mortimer dopo la morte del loro autore Edgar P. Jacobs? (e chi glielo dice dopo che quegli albi hanno riscosso un grandioso successo di pubblico e di critica?) E chi glielo dice a Silver che non è poetico affidare ad altri (come ha fatto) la realizzazione di Lupo Alberto? Anzi, chi glielo dice che, secondo i giornali italiani, non è poetico? Ma soprattutto c’è una cosa che continuo a chiedermi dopo tutta la sarabanda che i giornali hanno fatto su Schulz e sulla sua morte: ma se Schulz era un poeta, se Linus e Charlie Brown sono i simboli del Novecento, se l’arte finalmente era entrata nel fumetto grazie ai Peanuts, ma perché, mi chiedo, quegli stessi giornali non hanno mai pubblicato la striscia di Schulz quando questi era in vita?
Tale è il fumetto per la cultura italiana: un barbone di cui si esaltano le virtù umane ma che non si lascia entrare in casa. Un barbone di nicchia. Se invece il fumetto fosse ancora quello che era al suo esordio, quando non c’era Internet, i videogiochi, la televisione e neppure la radio, se insomma fosse ancora non solo un mezzo di comunicazione ma un’immensa industria della comunicazione, allora i fumetti sarebbero incellofanati con i giornali, avrebbero la stessa fortuna che ha il cinema in videocassetta e i libri a fumetti avrebbero la recensione sulle pagine della cultura. Questo non avviene perché il mercato del fumetto sa di doversi rivolgere al pubblico (di nicchia) dei ragazzi, il meno florido (rispetto a quello dei bambini o degli adulti). E mentre i cartoni animati si stanno imponendo anche presso il pubblico adulto, il fumetto si arresta di fronte alla più importante linea di demarcazione generazionale: quella che trasforma un ragazzo in un adulto. Chi è entrato nel mondo del lavoro forse legge i giornali, forse si collega con Internet, forse guarda un film al cinema o a casa sua, probabilmente non legge fumetti.
All’inizio della sua storia il fumetto veniva letto dagli adulti e i protagonisti erano i bambini. Yellow Kid, Buster Brown, The Katzenjamer Kids (Bibì e Bibò, secondo il «Corriere dei piccoli»): ragazzini ricchi e poveri con la sola aspirazione di rompere le regole e le scatole. Anche i personaggi adulti per far ridere si comportavano come bambini e facevano ridere per questo (vedi Fortunello o Arcibaldo e Petronilla) . I protagonisti dei fumetti sono diventati adulti davvero con la nascita delle storie avventurose negli anni Trenta, con lo sprezzo del pericolo di detective e poliziotti, di malviventi o intrepidi soldati.
Anche questi, come i bambini dell’inizio, si rivolgevano a un pubblico di grandi e piccoli, ricco o povero che fosse. Il fumetto dei primi anni era generalista. È diventato un confine generazionale negli Stati Uniti con la nascita della televisione e del comic book, quando la famiglia comincia a unirsi di fronte all’apparecchio televisivo e gli adolescenti ad allontanarsi silenziosamente e in gran segreto per sfogliare l’albo di Superman. Quando il fumetto si allontana dal quotidiano (inteso come periodico) perde la sua capacità di aggregazione di pubblici diversi.
In Italia, dove la cultura del fumetto nel quotidiano non c’è mai stata, il fumetto non è mai stato generalista, ma per bambini o per adulti, per poveri o per ricchi, per lettori distratti o per intellettuali raffinati. Mai per tutti. Oggi, essere lettore di fumetti vuol dire affinare la conoscenza di un linguaggio in continua e straordinaria evoluzione. Anzi, di una serie di linguaggi. Perché il fumetto entra nelle giovani generazioni e le disgrega. Chi ama il manga, il fumetto giapponese, non solo può non amare il fumetto americano, ma può addirittura arrivare a non capirlo, a non comprendere più le situazioni, i personaggi, e ancora di più le regole grammaticali. Gli autori stanno estremizzando le loro potenzialità stilistiche, il mercato li spinge a caratterizzarsi sempre di più perché questo pretende il pubblico degli appassionati. Chi ama il manga, il fumetto giapponese, può arrivare ad amare un autore o un gruppo di autori e a detestarne un altro. Non solo per questioni generazionali, chi ama Akira probabilmente detesta i Pokemon.
Quarant’anni, cinquant’anni fa i genitori dicevano di non saper leggere i fumetti. Non era vero, era solo il consueto rifiuto di una generazione nei confronti dei gusti di quella più nuova. Ora è diverso. Ora potrebbe essere dannatamente vero non saper leggere certi fumetti, alla stessa maniera in cui si possono passare ore di fronte a un videogioco senza capire che cosa si deve fare. Quello stesso videogioco che un bambino ci mette tre secondi a decifrare. Oggi sono pochi i bambini nei fumetti. Non ci sono nuovi Charlie e Sally Brown, Lucy e Linus van Pelt. Appaiono in qualche striscia destinata al pubblico adulto (per esempio il Calvin del già citato Bill Watterson con il suo inseparabile tigrotto Hobbes). Oppure sono elementi interni a una famiglia, come i bambini dei Simpson: Maggie, la poppante che ciuccia e non parla; Lisa, l’intellettuale di otto anni che non riesce a essere sempre coerente con i propri pensieri; Bart, il decenne ribelle dal cuore d’oro. Ci sono Tommy & Oscar, personaggi a cartoni che in Rai si sono già meritati varie repliche per il loro grande successo e che sono stati venduti in mezzo mondo: nati a Recanati, ideati e scritti in Italia (ne è responsabile anche il sottoscritto) sono paciosamente legati alla figura tradizionale del ragazzo in gamba che scopre le malefatte del mondo adulto. Stessa situazione tradizionale per i Pokemon: un cartone divertente e ben congegnato, sostenuto da una meravigliosa idea di marketing. Tommy e Ash (il protagonista di Pokemon) hanno un grande senso della lealtà e dell’avventura e in più un inaspettato (e in qualche modo sorprendente) rispetto per gli adulti. Ma in tutti questi casi il prodotto fumetto è assolutamente riflesso del successo a cartoni e quasi sempre la qualità del fumetto fa rimpiangere quella del cartone televisivo.
E quando c’è questo confronto tra bambi-ragazzini e adulti, sono sempre i primi a esprimere grandi emozioni e a progettare grandi avventure. Gli adulti sono più tonti, non sono affatto curiosi (a meno che non siano personaggi estremi e pazzoidi) e pensano solo a difendere le certezze del presente. Inoltre – al contrario dei giovani più attivi e creativi – non leggono i fumetti. Vorrà pur dire qualcosa.