Muore l’oratorio (con l’annessa parrocchia, religiosi ed educatori), bar e tabaccherie invecchiano e diventano sempre più nostalgici. Cresce in compenso la vitalità letteraria degli stadi di calcio e delle palestre, oltre che di panchine, muretti e gradini di casa. E intanto nei luoghi fantasmatici del postindustriale fioriscono discoteche e centri sociali. Ma cos’hanno in comune Nick Hornby e Jonathan Coe; Benni, Veronesi e il romanzo noir? Narratori italiani e stranieri illuminano da angolazioni diverse gli spazi del divertimento.
Spesso inciso a tinte indelebili nelle profondità della coscienza, il luogo di ritrovo assume significato anzitutto in quei romanzi che prevedono una trafila formativa del personaggio protagonista. Si tratti di una giovinezza vissuta en plein air, si tratti di una consuetudine con gli anfratti, gli interstizi urbani, le sale a pagamento, ciò che si stabilisce nelle sedi predilette dello svago è la relazione primaria tra un io e il suo mondo extra-domestico: che è quanto dire una somma di attitudini o di inadeguatezze caratteriali subito trasformate in destino. Se guardiamo al più recente panorama anglosassone, così è per lo stadio calcistico in Nick Hornby di Febbre a 90’. Lo stadio, nella fattispecie dell’Arsenal, un «giardino» assediato da migliaia di tifosi urlanti e frustrati, su cui si affaccia il malessere adolescenziale del narratore – rottura del nucleo famigliare, noia, senso di minorità economica -, sublimandosi come d’incanto in entusiasmo solidale. Ma così è anche per il cinematografo di Jonathan Coe, in La famiglia Winshaw: esperienza che si imprime nella psiche di un ragazzino nemmeno decenne, determinandone l’intricata vicenda artistica e investigativa.
Negli ultimi romanzi italiani lo stadio calcistico ha scarsa o nulla cittadinanza. Mentre il cinema, se nutre le nostre narrazioni di un immaginario puntiglioso – La forza del passato di Sandro Veronesi -, pure non prende luogo, non restituisce i tratti di una fisicità circostanziata. Indimenticato è senz’ altro Il pornosabato dello Splendor (in il Bar sotto il mare), racconto comico di Stefano Benni incentrato sulla prima, “storica” programmazione di una sperduta sala della provincia centroitaliana. Sembra tuttavia un unicum, una felice eccezione tra testi che se mutuano sempre più da vicino i temi e le movenze del prodotto filmico, non ne riconoscono tuttavia la dimensione istituzionale.
Esigua è però anche la presenza di un luogo che ha rappresentato il cardine dell’infanzia e dell’adolescenza nazionale: l’oratorio, con l’annessa parrocchia e le figure di religiosi ed educatori. Sarà forse indice di una laicizzazione che incalza, a dispetto di tutte le controspinte misticheggianti e new-age. Non di meno, a prevalere sono le panchine, i muretti, i gradini di casa sui quali si intrattiene un gruppo di scugnizze curiose, secondo quanto prevede Rossana Campo nel suo In principio erano le mutande, o piuttosto i cortili di palazzoni gettati in mezzo alla campagna, come quello descritto da Simona Vinci in Dei bambini non si sa niente. Tra «madri che guardano e controllano dalla finestra», è questo lo spazio di una gioiosità benestante e blandamente gerarchizzata: i grandi da un lato, i piccoli dall’altro, quindi la baracca dei gelati, i pattini, il walkman. Un luogo protetto, ma proprio perciò inadeguato ad adolescenti desiderosi di crescere. Ecco dunque «un posto a parte, diverso, con leggi proprie», una squallida «Casa delle Feste» contornata di immondizie e falò notturni. In un rapido crescendo di sadismo omicida, qui un manipolo di teenagers intraprende la via del sesso. li tutto secondo un’alternanza tragica, che mentre fa del cortile la sede di una socialità precosciente, per così dire edenica, fissa nel «rifugio segreto» un erotismo foriero di emarginazione e di inestirpabili sensi di colpa.
Con Simona Vinci entriamo nel novero del noir, solitamente uso a ben altri ambienti: metropolitani e sub-metropolitani. Si pensi ai ritrovi notturni di Los Angeles, setacciati da James Ellroy in I miei luoghi oscuri: ritrovi ad alta densità criminale, ma al tempo stesso recanti un’ultima traccia della madre del narratore autobiografico, che da una tale criminalità è stata orrendamente travolta. O si veda American Psycho di Bret Easton Ellis, con i bar yuppies newyorchesi gremiti di specchi e riflessi distorcenti, habitat congeniale alle fantasie raccapriccianti di un impeccabile finanziere di Wall Street. Bar, tabaccherie, locali equivoci di varia natura sono sicuramente al centro anche della più recente produzione italiana. Quanto si può rilevare, è tuttavia la tonalità nostalgica con cui i nostri scrittori li dipingono. Non si dice la retorica catalogazione che dei ritrovi milanesi offre Michelangelo Coviello in Cuore d’asfalto: elenco toponimico e topografico di siti d’alto bordo, intervallato a locali più periferici e popolareschi. Si intende soprattutto un romanzo come Kriminalbar, di Piero Colaprico. Perché qui l’aspetto elegiaco è davvero preminente, e si traduce in una opposizione secca tra il bar malavitoso e l’ipocrita interno borghese del protagonista. L’uno animato da tipi onestamente devianti come il Biscela, che «si vantava di svolgere come secondo lavoro “il collaudatore di pavimenti pelvici “». L’altro in quanto luogo di alienazione, per un soggetto che fa del cinismo la sua divisa etica, ma non cessa di riandare con la memoria a un sottomondo in cui è cresciuto e che ora non è più: «Mi avrebbe fatto piacere passare per Porta Venezia, perché ci sono nato e ho tanti ricordi. Conosco il bar tabacchi dove si giocava a biliardo, quello dove venne steso il Drago».
Non diversamente stanno le cose sul terreno del comico. Vale qui l’esempio di Bar sport Duemila, sempre di Benni: una raccolta di prose e novelle che ci offre l’immagine di una civiltà sepolta. Già cantore di una collettività di periferia, che trovava nel bar il suo ambito di espressione più salace (irresistibili talune figurette del primo Bar sport, edito da Mondadori nel 1976), lo scrittore bolognese appare ora in pieno ripiegamento polemico. Alla maniera di un Pasolini, stretto tra la Meglio e la Nuova gioventù, sempre più cupo e nostalgico egli registra del bar il tramonto inglorioso. La mutazione è temporalmente circostanziata, risale alla fine degli anni Settanta. È allora che il nostro luogo nazionale di ritrovo ha iniziato a essere insidiato da yuppismo, televisione, videogiochi, teppismo, vecchiette catodizzate, soggetti DDT (Drogati Da Telefonino); riducendosi in sostanza a un misero ricettacolo di ombre: l’isolato, l’incazzato, il menagramo, l’inascoltato. Qua e là, è ancora il luogo della varietà umana, della bizzarria narrabile, del climax e dell’iperbole surreale. Ma è l’occhio di un antimodernista romanticamente sfiduciato che ora lo scandaglia: è lo sguardo poco comico, e molto didascalico, di chi tutt’a un tratto scopre nel calcio, oggetto di inesauste e sofisticate diatribe, «l’ultima vera passione civile che riscalda il nostro popolo». Sintomo di uno smarrimento culturale e generazionale, un tale lamento funebre echeggia anche in romanzi non vincolati a una stretta riconoscibilità di genere. In termini di poco dissimili, lo ritroviamo in Veronesi (La forza del passato è titolo pasoliniano), allorché vengono tratteggiati i frequentatori di un piccolo ristorante a Fregene: «Gli uomini sono brizzolati, abbronzati, asciutti, gente sportiva da circolo del tennis, i cui occhi dicono costantemente “tra poco mi faccio un bel viaggio”; e le loro donne sono tutte abbastanza belle, di quella bellezza gassosa, però, e uniformata dai ritocchi del chirurgo estetico, che le rende pressoché interscambiabili. Alla loro età mio padre e mia madre non erano così, e nemmeno gli amici che frequentavano: erano altri tempi, d’ accordo, ma nei loro modi c’era un che di austero, di invernale, con cui questa nuova borghesia non sembra avere nulla a che fare».
Certo, c’è Rossana Campo a fare dei locali pubblici, senza aggettivi e senza rimpianti, una delle sedi del suo tribolato racconto picaresco. Affranta ma mai doma («comunque vanno le cose le donne hanno questa famosa vitalità»), ecco la protagonista ormai adulta di In principio erano le mutande ricordare un amico «conosciuto al bar di Armando», e subito fatto partecipe di una qualche «sciagura sentimentale»; eccola in pasticceria, tra dolcetti e tazze di tè, confabulare con una coetanea analogamente smarrita: «Lì tutto il pomeriggio a contarci la storia della nostra vita». È però un romanzetto di scarse pretese come Malavida, di Alessandro Bertante, a issare più in alto la bandiera del bar, celebrandone con candore struggente l’insostituibilità. Estremista milanese arrabbiato, ma con evidenti propensioni al gigionismo patetico, in vista di un localaccio nei pressi delle colonne di San Lorenzo, il personaggio romanzesco non ha dubbi. Sia pure equivoco, meta di spacciatori e ottusamente gestito, esso sa suscitare intime corrispondenze: «ogni persona dovrebbe avere un bar privilegiato, un posto dove sei sicuro di incontrare sempre la stessa gente, che ti racconta le stesse cose». In una metropoli ormai estranea, postfordista, rave, new age, qui il giovane trova una sua dimensione consolatoria ma insieme ugualitaria, perché «quando uno è triste e senza prospettive deve andare al bar, uscire di casa e respirare l’aria che respirano gli altri».
È sempre Bertante, d’altronde, a chiarire la non immediata interscambiabilità, addirittura l’opposizione, tra bar e discoteca. Investito dal frastuono e dai fari stroboscopici, il personaggio che egli concepisce prova un senso di solitudine e di incomunicabilità sudaticcia: «Nella grande sala da ballo le luci sparate sugli occhi davano fastidio, avevo come la sensazione di essere interrogato da un ispettore di polizia»; ventenni, trentenni, «eravamo tutti impilati come dei coglioni». Per poi concludere, ubriaco: «Nessuno mi ama, però un sacco di gente mi vuole bene, possono anche incularsi a vicenda tutta la vita, sono emozioni che non mi riguardano».
Ambito della chiacchiera, della vicinanza amicale l’uno, del corpo e di un’istintualità troppo spesso risolta in compiacimento narcisista l’altra, bar e discoteca trovano al contrario una piena consonanza in Fluo, di Isabella Santacroce. Al Green Bar, base da cui giovinette e quarantenni esuberanti convolano in acrobatiche e tuttavia sorvegliatissime orge, e al Bar Lina, ritrovo dei «froci froci e dei froci non proprio froci», si alterna senza particolari patemi un dancing come il Cocco, «circo ambulante di gente superstravagante». Siamo a Riccione, nei luoghi dell’eccesso e della notte. Per connotarli, basta l’insistenza dei prefissi: super-, mega-, iper-, arei-, stra- («uno mi strafissa»); dei superlativi («fichissima»); o viceversa della diminuzione: «micro-gonna», «semisvestita». In spirito nomade, vi trascorre le sue ore migliori la protagonista, un’insoddisfatta diciottenne avida di oggettistica griffata (secondo uno stilema abbondantemente attinto, non solo dalla Santacroce, alle pagine di American Psycho), eppure «alla ricerca continua di una eccentricità unica, lunare».
Non può stupire se provengono dall’area emiliano-romagnola i riflessi più inquietanti di una topica dell’intrattenimento, che sta impegnando da qualche anno a questa parte la nostra narrativa. Patria pluridecennale dello svago di massa, ovvero industria dell’edonismo cosmopolita, in Emilia Romagna sembra concentrarsi nella maniera più acuta e irrisolta la contraddizione tra sbrigliamento sessuale e anomia luttuosa, tra individualità inassimilabile e confronto sgradito con hi moltitudine dei pari. Di questo costume trasgressivamente uniformante ci parla anche Fonderia Italghisa di Giuseppe Caliceti. Con punte sapidamente outré, lo caratterizza un piglio da vero romanzo epico, raccolto intorno al personaggio-monumento dell’omonimo disco-club, che una mezza dozzina di trentenni dapprima realizza nella cittadina di Reggio Emilia, poi abbandona, infine ricostituisce altrove. Va osservato che l’intrapresa economico-esistenziale non è priva di una sua cinica lungimiranza. Scartato «il pubblico massainforme», ma per nulla attratti dal «famoso contropubblico», cultural-snob e squattrinato, ciò che viene perseguito è «la terza via». L’ambizione – spiega il portaparola del gruppo – è quella «di crearci un’area di mercato ancora inesistente, di infilarci nel mitico grande centro». Progetto spudoratamente utilitaristico, che consente di trasformare «tutti» da «semplici teste di cazzo in potenziali clienti». Ma senza nessunissima remora, giacché, molto semplicemente, «il mondo va così». Ed è attorno a un tale «mondo», esattamente inquadrato nei suoi limiti di mercificazione come nelle occasioni di vitalismo euforico, che si raccolgono odontotecnicidi, falsi guru, idraulici omosessuali, indiani padani con bonghi e sitar, broker, centralinisti, camionisti cinture nere di karate, quindi «puttanieri, ubriaconi, impasticcati che si sentono alternativi solo perché non hanno ancora trovato un lavoro».
Sono gli spazi dell’archeologia industriale ad accogliere più di frequente i protagonisti di una socialità tanto variopinta: è h città, con le sue immediate adiacenze, che se in ragione di essi non trova necessariamente una nuova e più prestigiosa qualificazione urbanistica, pure si ripopola di storie, di luoghi narrabili. Non si avverte difformità, sotto questo profilo, tra la gigantesca fonderia in disuso descrittaci da Caliceti e l’ex-fabbrica dell’hinterland milanese, alta e inquietante «come una viziosa cattedrale underground», in cui Bertante ambienta un sontuoso rave party; né si percepiscono distanze tra esse e il Virus, mitico centro sociale punk sorto sulle vestigia di uno stabilimento di prodotti per neonati, di cui Marco Philopat rievoca l’ascesa e la caduta in Costretti a sanguinare. Sorprende se mai il parallelismo narrativo che si istituisce tra uno spazio di trasgressione totale come quello dei punk milanesi nei primi anni Ottanta, e la disco-club reggiana, inaugurata un decennio più tardi secondo principi di rigorosa Realpolitik. Stesso pathos creativo nella ricerca del nome; stessa immagine di lavoro liberato per i personaggi che gli danno vita; stesso attrito con il mondo benpensante; stesso – o quasi – lo scontro con le istituzioni territoriali (polizia, amministratori, stampa). Identica, infine, la voglia di scissione dalla compagine sociale. Se il Virus è la «scombinata trincea scavata con le unghie nel ventre urbano», il luogo fisico dove dar libero corso a una «complicata esistenza»; l’ex-fonderia ama descriversi come zona franca «tipica dei periodi di non contestazione», dal momento che «più la società è quadrata, più ha bisogno di sfoghi».
Non che manchi la possibilità di distinguere. Davvero abissale è la distanza che si stabilisce tra luoghi siffatti in quanto a rapporti di gender. L’umanità che frequenta la Fonderia è nettamente spaccata a metà. Da un lato ci sono i «suini», maschi sessualmente aggressivi a cui il narratore si rivolge in spirito fraterno; dall’altro le «vagine», oggetto delle più sfrontate concupiscenze misogine («Quando il mondo va a rotoli i centimetri [del pene] restano gli unici valori, credetemi»). All’opposto, il Virus è un ambiente in cui il femminismo ha preso radici, determinando tra i sessi una paritarietà non priva di tensioni, e tuttavia indiscussa. Ciò che di insospettabile i due testi hanno in comune, è non di meno il background anarchico e situazionista. «Non c’è rivoluzione senza investimento libidinale!» ammonisce Philopat; «Organizziamoci per un orgasmo perpetuo», risponde il protagonista del romanzo di Caliceti. Nel primo, Costretti a sanguinare, si celebrano i riti e i miti del punk californiano: «una corrente musicale che con il motto “live fast, die young” ha americanizzato il vecchio “no future”»; e si interpretano la musica, la festa, come occasioni immediatamente politiche. Nel secondo, Fonderia Italghisa, sotto la tutela di Guy Debord, troviamo un’esplicita apologia della spettacolarizzazione liberatoria e tendenzialmente autotelica: «Non ho voglia di crearmi inutili casini con la gente», dichiara il personaggio protagonista. «Recito e mi godo la mia recita».
È in questo contesto, ostentatamente antidemocratico («lo non credo alla Democrazia. La Democrazia è solo una grande farsa per i poveri di cuore»), che prende forza il sapienzialismo trasgressivo dell’eroe calicetiano: uno pseudoartista intellettuale, eslege giusto il necessario, capace di parole d’ordine di grande effetto, e da cui forse Philopat non si dichiarerebbe troppo lontano: «Ludici ! Laici! Liberi! – urla dal palco della discoteca – Essere stanca, sentire nuoce, pensare distrugge!»; «Oggi i suini non devono più dare un senso alla loro vita! La vivono e basta !» E ai sempre più incerti militanti di sinistra: «Non avete capito che ormai sogni e bisogni sono la stessa cosa». Dentro la trincea punk, e nel recinto dei «suini», vige soprattutto una comune e dolente destabilizzazione di affetti. Luoghi entrambi di un coinvolgimento totale e disinibito, d’accordo. Ma al Virus come in Fonderia resta la donna la fonte di tutte le insicurezze. Lei, nevroticamente ablativa o disposta in piena intelligenza alla coppia aperta e a rapporti sentimentali plurimi, pronta a minare la immatura virilità dei giovani partner.
Siamo in conclusione. Al tema del corpo e delle sue proprietà, ci riconduce un luogo solitamente poco visitato dai nostri narratori: la palestra. Dominante in un romanzo come Cardiofitness di Alessandra Montrucchio, essa fornisce anche il filo conduttore all’aneddotica sapienziale di Antonio Franchini in Quando vi ucciderete maestro? Impegnata a ripercorrere una storia d’amore nata tra bilancieri e leg-estensor (lei ventiseienne e colta, lui ancora adolescente), la scrittrice torinese indugia su un milieu nettamente provinciale e piccoloborghese: un microcosmo popolato di figure, ma dalla visuale ristrettissima, si può dire uniforme. Regina d’Alcalà, la Modella, la Scopa, il Bestia, il Babbino, Sing Sing sono altrettante macchiette, protagonisti vuoti di «quella riproduzione ginnica di Radio Serva che è una palestra». Dove il furbastro di turno, il padrone, si fa improbabile apologeta del sudore e dei contatti fisici, cioè di una pratica che sul tramonto del corpo, all’alba del virtuale, garantirebbe un salutare guadagno in termini di autenticità e di naturalezza.
Al confronto, assai più eroica, virilistico-delirante, è la palestra vista da Franchini. La sua prosa svaria tra ring e tatami su cui si combattono duelli a base di brutalità animalesche e di eleganze micidiali. In sottoscala polverosi, oppressi dal fetore di piedi, come in linde sale modernamente attrezzate, essa contempla fanatici di periferia, vigili urbani metodici, quarantenni coriacei in fase di apprendimento permanente, ragazzotti esperti di amminoacidi e proteine, zelatori dell’anatomia muscolare, maestri smaniosi o serafici e un poco intontiti dalla saggezza. Tutto un catalogo si snocciola, rivelando storie quasi mai eccezionali, ma inimitabili. Loro obiettivo precipuo non è un’autobiografia topicamente fondata. È piuttosto la celebrazione strenua di una fisicità marziale, attraverso il confronto demistificante con la parola letteraria. Fino a un segno inimmaginabile si mostrano simili, per Franchini, «le vanità» del corpo e della mente: «grande spreco di studio e di proponimenti, infiniti sogni d’impatto sulla realtà, ma sono finzioni entrambe». Una scommessa ambiziosa è sottesa alle pagine non romanzesche di Quando vi ucciderete maestro? Aggiornando una lezione che da Renato Serra e dai vociani risale verso gli autori del Gran Secolo, si tratta di fare perno sui luoghi dell’aggressività coltivata per un discorso en moraliste. Di modo che le massime siano statuarie, scolpite, così come si conviene all’ ambiente: «qualunque attività si pratichi al mondo, sport, arte o semplice vita, c’è chi ama elevarsi al rango degli stilisti e chi prova una soddisfazione particolare nel degradarsi a quello di bestie».
Elevarsi, degradarsi. Consiste in questo la visione eroica di Franchini: in una gerarchia di istinti, in un alto e in un basso, che la palestra permette di illuminare più da vicino, ma che ha valore metafisica. Un eroismo certamente urbanizzato, coerente con un mondo antiomerico, che non prevede più samurai, e che va accettato per ciò che è. TI risultato resta comunque sorprendente. Chiuso questo insolito volumetto, non si sa più bene se sia la letteratura una metafora della vita, o l’agonismo disperato che si esprime nella palestra una mimesi più trasparente, e tanto meno ipocrita, della letteratura. Se la palestra è uno specchio degradato dell’Arte, o il combattimento una propensione inane per sopportare la propria estraneità ai regni della Bellezza.