Romanzo di formazione: giovani confusi antieroi crescono

Insediato al centro dei generi narrativi moderni, il romanzo di formazione di fine millennio racconta le peripezie, poco eroiche ma molto coinvolgenti, attraverso cui i protagonisti adolescenti vogliono «uscire dal gruppo», «andare via», scoprire «come è grande la città». Lo sfondo comune è l’universo scolastico, in cui l’esperienza amicale e sentimentale compensa il vuoto di valori e di modelli offerti dal gruppo degli adulti. Il racconto ha il tono affabilmente sbrigliato di chi si rivolge a un pubblico di lettori coetanei, con un’unica eccezione, al femminile.
 
Per il vecchio Alex, il «giro di boa dei sedici anni e mezzo», quello oltre il quale tutto cambia, è segnato da un libro: «una mattina di maggio, albeggiava appena, terminata la lettura di Due di due dell’Andrea De Carlo quel matto aveva deciso con una fermezza giovanile di natura febbricitante e apparentemente superumana che nulla sarebbe più stato come prima, ché grazie a Due di due aveva aperto gli occhi sulle troppe stronzaggini tipo le tabelle dei verbi irregolari gli specchietti sinottici la democrazia fasulla del consiglio d’istituto e il conformismo e la doppiezza dei prof…» (E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, p. 10).
Il protagonista di Brizzi forse esagera ad attribuire al Bildungsroman di Andrea De Carlo un effetto tanto dirompente, ma quell’esperienza di lettura pare sia stata comune a molti ragazzi studenti: Due di due, la vicenda parallela di Guido e Mario alla «ricerca di valori nuovi», è diventato, tramite il passaparola, un libro cult, un testo «generazionale». Se poi aggiungiamo che Jack Frusciante esce per i tipi Transeuropa di Canalini, l’editore più sensibile alle attese giovanili, e che sulla copertina campeggia il giudizio elogiativo di Silvia Ballestra – «un piccolo affresco “italiano” sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta»-, la mappa del romanzo di formazione dell’ultimo decennio comincia a delinearsi, assumendo confini meno sfrangiati.
In quest’area si muovono con spigliatezza disinvolta molti autori della cosiddetta «giovane narrativa» che, ritrovato il gusto di raccontare storie, puntano ad affabulare, entro riagglomati schemi romanzeschi, una somma di esperienze di vita capaci di far presa sull’immaginario di un pubblico non dissimile da loro per età, interessi e codici espressivi: affratellato al vecchio Alex, ai protagonisti di Due di due o alla banda pescarese degli Antò, raffigurata dalla Ballestra (Compleanno dell’iguana), anche il lettore, fra assilli scolastico-sentimentali e adrenalinici ascolti musicali, si interroga se sia possibile «uscire dal gruppo» senza il rischio di perdersi ma evitando il pericolo, ben più letale, di omologarsi al conformismo ipocrita del mondo adulto.
Non stupisce che la scelta degli scrittori cada su queste coordinate di genere: il paradigma compositivo del Bildungsroman è il più adatto per rimodulare entro un ordine franto e veloce, magari cadenzato sui “rumori” dissonanti dei complessi rock, le avventure miserevoli ed eccitanti di una gioventù che, sullo sfondo di una società priva di certezze e di valori assoluti e forse anche relativi, è attratta dal «glorioso mondo dei ribelli», dove dilaga la «fame di opposizioni, ebbrezze di aut aut» (Antonio Franchi ni, Camerati. Quattro novelle sul diventare grandi). Poco importa quali siano le prove da superare e quanto la meta coincida con il raggiungimento della maturità: ciò che conta è la dinamica del meccanismo narrativo, il congegno capace di coinvolgere l’io leggente nel ritmo spedito dell’intreccio: comunque vada a finire, scoperte scazzi incontri fughe e fallimenti hanno cambiato il protagonista e, con lui, anche il lettore che vi ha assistito. L’ultimo libro di Ammaniti, con il suo titolo ambiguamente accattivante, suggerisce subito il doppio binario su cui si muove ogni racconto d’iniziazione: Ti prendo e ti porto via. L’impegno annunciato nella lettera conclusiva del diciottenne Pietro all’amica Gloria, vale, in realtà, come garanzia per chi s’accinge alla lettura: essere trascinati via dal mondo fasullo e ostile degli adulti in cui «le promesse sono fatte per non essere mantenute». Dietro, forse balugina il ricordo di un’altra inquietante attesa: Stand by me, suona il titolo di un suggestivo racconto iniziati co di Stephen King. Nell’adozione di quel “tu ” tanto equivoco quanto coinvolgente, sperimentato con successo anche dalla T amaro di Va’ dove ti porta il cuore, i giovani narratori di fine secolo condensano il desiderio di un rinnovato colloquio con i destinatari elettivi, mentre rivitalizzano, sull’onda trascinante dei nuovi linguaggi multimediali, le tensioni dialogiche che strutturano geneticamente il romanzo di formazione.
Dotato di una struttura camaleontica in grado di interagire duttilmente con altri paradigmi narrativi (romanzo di costume o psicologico-sentimentale, saga familiare, racconto d’avventure) e incardinato su un nucleo compositivo irriducibile – «l’immagine dell’uomo in divenire» (Bachtin) -, il Bildungsroman non solo non muore sotto i colpi delle artiglierie del primo conflitto mondiale, ma anzi si insedia, con vitalità inesausta, al centro del sistema letterario della narratività moderna e postmoderna. Certo, rispetto al modello canonico i mutamenti sono profondi. Il tempo della trasformazione, non più racchiuso entro una traiettoria lineare e parabolica, ora si frantuma nell’istantaneità di eventi traumatici, ora si sfilaccia nelle more di un dilatato infantilismo narcisistico. Nel caos vorticoso della società complessa, l’unità biopsichica dell’individuo patisce acciacchi e contusioni: oppresso dal peso asfissiante delle costrizioni normative e insieme sottomesso a una dilapidazione incessante di energie, l’io vacilla e stenta a trovare i criteri con cui orientare l’esplorazione di sé e degli altri. Infine, nella stagione del decostruzionismo postideologico, le svolte del divenire storico paiono sfumare in un magma indistinto che annulla i confini e i momenti di passaggio da un’epoca all’altra, prerequisito strutturale, sempre secondo Bachtin, di questa tipologia romanzesca. E tuttavia per chi vive, senza paure d’apocalisse, l’ «esperienza della modernità» dove, per dirla marxianamente con Marshall Berman «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi» (L esperienza della modernità), la percezione delle cesure e delle transizioni, lungi dallo svanire, si acuisce. Proprio dall’orizzonte sconquassato e shakerato di fine secolo, i giovani scrittori, che rifiutano l’arroccamento sdegnoso nella parola auratica, ricavano i materiali e codici per riaffabulare le avventure dell’immaginario collettivo, per ritracciare i percorsi, sghembi, discontinui, non privi di trappole e tranelli, lungo i quali l’io adolescente è chiamato ad acquisire la consapevolezza di sé. E in una scoppiettante contaminazione di forme e di stili, le opere dell’ultimo decennio ci restituiscono ancora un’ «immagine dell’uomo in divenire»: sono le traiettorie del viaggio a essere cambiate. Nessuna stasi, regressione, o fuga all’indietro, sia chiaro: tutti i nostri ragazzi vogliono andare via, uscire dal gruppo, scoprire «com’è grande la città», ma crescere, per loro, non significa più padroneggiare, magari per respingerli, i processi di socializzazione, accettare o contestare il sistema di regole comuni cui si conformano le scelte degli adulti. È su questo discrimine che si gioca il confronto con il paradigma tradizionale novecentesco: ad animare la ricerca non è mai l’ansia di «diventare grandi», secondo un modello, più o meno vicino, più o meno ideale. Anche l’Agostino moraviano e l’Arturo della Morante, per ricordare due celebri fratelli maggiori di Alex e degli Antò, restavano al di qua della soglia della maturità, ma il cammino intrapreso presupponeva come meta l’inserimento nell’universo collettivo che si apriva al di là di Procida o delle vacanze versiliane. Ora gli adulti annaspano peggio degli adolescenti, nessun progetto di vita può essere ricavato dai loro comportamenti miopi e arroganti.
Nei Bildungsroman di fine millennio, il protagonista in crescita evita lo scontro diretto con il macrocosmo sociale, per privilegiare i conflitti laterali, «di gruppo», e il traguardo, per lo più, non coincide con l’entrata nel «Mondo dei Grandi» (Brizzi). Non che se la passino bene nel tempo acerbo della puerizia: anzi, proprio l’esperienza di quanto falsa e logora sia la mitologia dell’infanzia felice li guida nel cammino, mettendoli in guardia. Non solo i loro primi quindici-sedici anni di vita sono dolorosamente straziati – Tu, sanguinosa infanzia è il titolo dell’ultimo bel libro di fiction memoriale di Mari – ma le ferite più brucianti sono state inflitte dai familiari più prossimi. Ecco perché bisogna attrezzarsi a maturare: «Non siamo noi che cresciamo. Se fosse per noi, rimarremmo sempre bambini. Sono gli altri che ci costringono a difenderci dalla loro insensibilità, dalla loro inesauribile capacità di ferirci. Chiamiamo la nostra capacità di difesa “maturità” (Fabio De Propris, Brenda e Platino, p. 118). Platino, «il fratello stupido di Platone», secondo l’arguta definizione di Brenda, coprotagonista di questa intelligente opera d’esordio, è un ragazzino sedicenne che, per «protesta contro il mondo così com’è», decide, alla fine, di buttarsi dalla finestra, dopo aver scritto una «finta intervista al Dj di una radio privata». Anche in questa sfida, Platino resta a metà: non muore, entra in coma; ma al suo fianco, stavolta, ad aiutarlo e salvarlo c’è la squinternata sorella Brenda: con una assistenza assidua e «le flebo di ritmo» trasfuse da un walkman che urla le musiche degli Spandau Ballet, gli testimonia quell’affetto comprensivo e disinteressato che i due genitori, irriducibilmente immaturi, hanno malamente dissipato. La mamma, «una donna dai pensieri profondi come quelli di una lucertola svampita», se ne è andata con un giovane amante indiano, il padre, una «persona estremamente superficiale», simile a un impermeabile cui «scivola tutto sopra», si preoccupa solo della sua chitarra, «una Gretsch del ‘68».
È un accenno minimo indiretto, ma illuminante per chiarire lo sfondo entro cui si sviluppano le vicende dei nostri ragazzi, per i quali crescere significa fronteggiare gli insulti degli adulti che si vantano di essere tali e non lo sono.
In rifiuto non è dettato da motivazioni forti, da ragioni ideologicamente alternative: no, il sentimento d’estraneità nasce dall’impatto rovinoso con un collettività sociale paciosamente mediocre, ottusamente soddisfatta di sé, appagata delle sue finte rivolte: a essere messa implicitamente sotto accusa è la generazione che «ha fatto il ‘68», quella da cui sono usciti i «parens» del vecchio Alex, «barricati in tinello a guardare le pattonate americane via Grundig», o peggio i «reduci» che abitano sulla collina bolognese, «attualmente editori fricchettoni, avvocati liberai, professori precari» (Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo); ma anche le mamme conformiste, pronte a raggelare con una sola battuta «il desiderio d’infrazione di coloro che hanno la sfortuna di sembrare bravi ragazzi» (Franchini, Camerati). Diventare grandi, sforzarsi di capire il «senso sfuggente» della vita significa, per questi giovani confusi antieroi, imparare a contraddire lo slancio utopistico che campeggia su un poster nella cucina di una famiglia bene di intellettuali impegnati: « … e in alto c’era scritto: “quando il dito indica la luna l’imbecille guarda il dito”»: quella, pensa il protagonista studente di un racconto di Francesco Piccolo, «dev’essere una trappola» (Storie di primogeniti e di figli unici). E trappola, riferita al sistema adulto di norme e valori, è parola ricorrente nei Bildungsroman dell’ultimo decennio, quasi a tradurre metaforicamente il senso spaurito di chi si sente prigioniero di un falso movimento turbinoso: la marcia del divenire, da una parte, pare conoscere un’accelerazione precipitosa, che impone precoci aggiustamenti difensivi, e, dall’altra, mostra di incepparsi a ogni istante, avvitata nei gorghi di una corrente priva di sbocchi visibili e senza varchi nel futuro.
Però, la dissoluzione dei miti del ribellismo sessantottesco, corroborata dal crollo epocale della civiltà sovietica, se vanifica ogni slancio propulsivo, non suggerisce mai moti di regressione nostalgica: come l’infanzia, così anche il passato non racchiude alcun paradiso perduto. Lo sguardo disincantato sul fallimento globale della contestazione dei padri determina semmai l’azzeramento di ogni spazio e tempo di mediazione: quasi a parafrasare piattamente uno slogan del Movimento, che attivava una sorta di cortocircuito fra sfera pubblica e dimensione privata, l’ambito separato dell’intimità domestica è assimilato all’ordine ampio della collettività sociale. Ce lo spiega bene Vittorio, il camerata protagonista del racconto di Franchini, quando dichiara di sentirsi cretino «perché s’era dimostrato credulo due volte e con la stessa acquiescienza: aveva creduto alle fandonie della classe dominante e alle invenzioni dei genitori»: i due termini ormai coincidono e a sancirne l’omologia, condannando ulteriormente l’ingenuità del personaggio quindicenne, è la professoressa d’italiano.
I nostri romanzi di formazione sono affollatissimi di «prof»: un buon tratto della Bildung si svolge sullo scenario poco arioso delle aule scolastiche. Davanti ai tabelloni degli scrutini di seconda media si apre l’ultimo libro di Ammaniti e sarà una bocciatura ingiusta a segnare il destino del protagonista; Platino è un «primo della classe», che scrive temi per la sorella pluribocciata, prende la parola nelle assemblee sulla guerra del Golfo e chiacchiera di filosofia – «fregnacce» per Brenda – con il vecchio professore del piano di sopra; nella biblioteca del Dams, cui è approdato dopo stravaccati anni di liceo artistico, Antò Lu Purk incontra la Pocciuta furia, lettrice di «narrativa minimalista americana e di settimanali femminili ad alto tasso di cojonerie» e il vecchio Alex «esce dal gruppo» combattendo quotidianamente contro «la propaganda semi prussiana del liceo Caimani». Ancora: dalla scuola dell’ obbligo all’Università si snoda il percorso di tre dei quattro racconti che compongono Camerati di Franchini; in una saletta d’esami della Statale si chiude l’itinerario del protagonista di Com’è grande la città di Pischedda, il «diario di un teppista» che alle riflessioni sulla modernità di massa intreccia il racconto di un contristata crescita politica e intellettuale. Anche due romanzi di formazione al femminile, diversi fra loro e dai libri finora citati, riservano un posto eli rilievo all’esperienza scolastica: nel primo, di Teresa Zoni Zanetti, Rosso di Maria L’educazione sentimentale di una bambina guerrigliera, la narrazione allinea le appassionate avventure amorose di una ragazzina in eskimo sullo sfondo di collettivi studenteschi e occupazioni a oltranza, malamente riecheggiando il celebre bestseller di due sessantottini veri, Porci con le ali; nell’altro, ben più intrigante e stilisticamente maturo, La Dea dei baci, di Ippolita Avalli, la protagonista Giovanna, nella sua disperata ricerca di nome e identità, può contare solo sul conforto dei libri suggeriti dal burbero professar Rinaldi.
L’ambiente scolastico, nei suoi spazi circoscritti e con i suoi tempi rituali, è uno scenario costante: anche questo, in fondo, è un effetto della stagione sessantottesca, a testimonianza della funzione cruciale che hanno assunto i processi di scolarizzazione diffusa, in una società di massa. Ed è appunto su questo primario riconoscimento d’appartenenza che si avvia e si sviluppa la relazione di empatia critica fra autore-narratore-io leggente. L’universo zeppo di compiti, lezioni, assenze strategiche, segna una tappa decisiva nel percorso di maturazione non perché delimita la zona del conflitto con figure d’autorità oppressive – qui i prof sono silhouettes scialbe, per lo più ignoranti, «kualunquisti» (Ballestra), arroccati nelle loro «lezioni-tipo» dagli schemi inossidabili (Brizzi), macchiette ridicole come il preside della scuola d’Ischiano, dove si svolge il romanzo di Ammaniti. Ma in queste aule, che non appartengono a nessuna istituzione totale e sono peraltro prive di connotazioni claustrofobiche o repressive, si costruiscono i legami di colleganza, in nome dei quali ci si stringe in amicizia, ci si confronta con gli altri, ci si differenzia dagli adulti. L’esordio di Due di due circoscrive con chiarezza il campo di esperienze comuni che unisce la banda degli Antò, il gruppo rock-parrocchiale di Alex, i camerati di Franchini, i primogeniti di Piccolo, la «trimurti» del seminario universitario di Pischedda, la schiera dei compagni di Platino: «la nostra amicizia aveva come unico terreno le ore di scuola. Non mi sembrava poi così strano, perché era quello il cuore della giornata» (p. 19). Sta qui la ragione prima del successo strepitoso di Due di due: l’affresco generazionale della «difficoltà di vivere il mondo contemporaneo» prende avvio e acquista corposità in questa cornice: «Pensavo a quanto le nostre vite erano state diverse in questi an, e anche simili in fondo, due di due possibili percorsi iniziati dallo stesso bivio» (p. 209).
E che il crocicchio di partenza sia il fulcro dell’opera lo testimonia anche l’articolazione del racconto, di gran lunga più convincente nella prima parte dove, sull’orizzonte di una Milano avvolta nel «suo peggiore grigio persecutorio», è delineata, in toni gelidamente cupi, l’amicizia contrastata di due adolescenti, Mario e Guido, diversi per indole, estrazione sociale e ambizioni professionali. Poi la narrazione tracima nella noia monotona, sotto il peso di un ambizioso disegno totalizzante che oppone un improbabile idillio ecologico alla scelta fallimentare dell’impegno creativo, ribelle e antagonistico. Il titolo di una recensione al libro di Guido, appunto, suona Generazione perduta. Il gioco di rifrangenze è fin troppo smaccato e getta un discredito fastidioso sulle schiere dei ragazzi che sono passati attraverso i moti della contestazione studentesca. Ma il testo di De Carlo, che chiude esemplarmente gli anni Ottanta, ci aiuta anche a illuminare una differenza costitutiva di non poco conto rispetto ai romanzi di formazione scritti dai narratori più giovani.
Questi adolescenti che vogliono uscire dal gruppo non si sentono affatto «perduti», «invisibili», «sprecati», o comunque tali da essere etichettati con le formule della negatività senza scampo, adottate dalla saggistica più recente: indubbiamente orfani di «padri e maestri», espropriati di illusioni e utopie, pieni di paturnie e paranoie, non sono tuttavia per nulla inclini, checché ne dicano gli Adulti, a lasciarsi cadere nell’abisso. L’andamento mosso della trama, la descrizione sbrigliata delle prove e degli ostacoli, i dialoghi vivaci che rivelano desideri inquieti e apprensioni confuse, corroborano un epilogo che, nella mescolanza abile di note tragiche e timbri alacri, rifiuta ogni riflusso di rassegnazione: la decisione di Antò Lu Purk di partire, pur con le stampelle, per Berlino; le risate franche di Plotino uscito dal coma; le promesse di Pietro a Gloria di «portarla via», una volta lasciato il riformatorio; gli «addii euforici» con cui, abbandonando il paese, Giovanna «seppellisce il passato» straziante; il consiglio provocatorio con cui il teppista di Pischedda chiude il suo diario: « … stai nella massa: brillerà meglio il tuo talento. Se c’è» suggellano, tutti, un esito finale che tanto più nega il «Mondo dei Grandi» quanto meno coincide con la rinuncia all’esplorazione dei confini dell’io, nel faticoso confronto con gli altri.
Il timbro sprezzantemente nauseato di De Carlo risalta ancora di più rispetto ai toni di disinvoltura scanzonata, cari ai narratori dell’ultima generazione, perché la struttura binaria di Due di due è comune a molti dei più recenti racconti iniziatici: il ritmo alterno, fondato su una serie di opposizioni nette, governa il brillante intreccio di Brenda e Platino; in una novella di Franchini (Pagina Patrum) una partita di ping pong fra due ex-compagni di liceo chiude un confronto-sfida che non riguarda solo il gioco; sullo sfondo sempre uguale delle vacanze marine, si consuma l’intensità di un’amicizia, nata «quando si era piccoli così» (Francesco Piccolo, Le estati del rancore). Sull’artificio dello sdoppiamento, infine, poggia la strategia compositiva del romanzo di Ammaniti: ma qui la dinamica delle sorti parallele è efficacemente sfasata. Da una parte la maturazione amara di Pietro, la cui prima e strenua rivolta contro il padre è alimentata dal desiderio di continuare gli studi (e ben si capisce allora perché la prof. Palmieri che non mantiene le promesse divenga l’oggetto della sua furia aggressiva e autolesionista); dall’altra la falsa maturità del quarantenne Graziano Biglia. Se il ragazzetto di dodici anni impara a «cambiare il suo destino» per non finire come il fratello Mimmo, che sogna l’Alaska ma resta a fare il pastore, succube di un padre squilibrato e di un madre malata e lamentosa, l’altro protagonista, il fasullo playboy di provincia, abbagliato dalle mode vacue e patetico nella ricerca di una felicità che luccica, rimane inchiodato a un’ossessiva implacabile coazione a ripetere. Eccola l’altra faccia del Bildungsroman di fine secolo: «e non è vero quello che dicono che sbagliando s’impara, non è assolutamente vero, esistono persone che sbagliando non imparano proprio niente, anzi, continuano a sbagliare convinte di essere nel giusto (o incoscienti di ciò che fanno) e con la gente così la vita, di solito, è cattiva, ma anche questo d’altronde non significa nulla, perché queste persone sopravvivono ai loro errori e vivono e crescono e amano e mettono al mondo altri esseri umani e invecchiano e continuano a sbagliare. Questo è il loro dannatissimo destino. E questo era il destino del nostro triste stallone» (pp. 294-5). A differenza dell’io narrante di Due di due, il narratore di Ti prendo e ti porto via non assume mai però i toni dell’invettiva o dell’anatema. Non cambia solo l’andamento del racconto, per cui a un passo monotono e cadenzato subentra un montaggio sincopato a sequenze incrociate; no, ciò che muta, soprattutto, è l’intonazione scelta per raccontare le due diverse storie.
Un altro elemento decisivo accomuna, infatti, i più recenti Bildungsroman: l’adozione di un angolo prospetti co duttilmente scorciato. Se la misura breve dei racconti (Franchini, Piccolo, lo stesso Mari, ma anche i brani narrativi opposti al commento saggistico nel diario di Pischedda) consente l’uso alternato della prima e della terza persona, in un’equivoca polifonia che esalta e brucia le tracce del vissuto autobiografico, nella trama larga dei romanzi l’intonazione del racconto implica un’ «ottica a distanza variabile», capace di mescolare oggettivismo ironico e soggettivismo empatico. La consonanza amicale fra chi scrive e chi legge – «la nostra generazione» (Jack Frusciante è uscito dal gruppo) si fonda sull’inflessione ancipite della voce narrante e su un punto di vista interno e esterno. Nel libro di Brizzi i brani tratti dall’ «archivio magnetico del signor Alex D.» ben si integrano nei «ragionamenti» del narratore, perché quest’ultimo è così incline a calarsi nei panni del protagonista da suggerire d’esserne la controfigura, più vecchia di soli pochi mesi. Ecco la confessione finale: «Ma sì, ma sì !asciamolo correre questo ragazzo, e date retta al sottoscritto che lo conosce da sempre.» Analogamente, i temi scolatici, le lettere, le riflessioni scritte nel quadernuccio nero di Platino avvalorano il tono estrosamente brioso, ironicamente affabile della voce che racconta, con leggerezza partecipe, le avventure pur conturbanti dei due fratelli. E se la Ballestra gioca con i gerghi dei punks pescaresi, mimandone, con abilità talvolta esibita, l’ oralità sgangherata, infarcita di jingles pubblicitari, scolastiche citazioni letterarie, ritornelli musicali e slogan calcistici; Ammaniti ridisegna l’universo della pubertà con il gusto ossimorico della serialità straniata che contamina, sulle note anche corrive del discorso parlato, i registri di una rutilante multimedialità. La preoccupazione per lo stato di collasso in cui versa il mondo degli adulti non conduce alla sperimentazione di un linguaggio che, nel rifiuto dei valori omologanti, ne rigetti i codici espressivi: anzi, la «comunanza generazionale» che unisce personaggi e lettori si traduce nell’ordito composito di una prosa tesa sempre a recuperare le cadenze medie della colloquialità. Gli ostacoli da superare sono alti, i fallimenti bruciano, i conflitti aprono ferite sanguinose: ma il tono di chi narra è simile a quello di un fratello di poco maggiore che sdegna le clausole seriose della retorica moraleggiante e privilegia l’arguzia dell’ironia dissolvente e il disincanto lucido dell’autocritica.
In questo quadro si staglia un’unica eccezione: La Dea dei baci. Nel Bildungsroman al femminile di Ippolita Avalli, la narratrice si identifica con la giovane protagonista e il dialogo con il tu, lungi dal distendersi sui moduli amicali e generazionali, arroventa i timbri di un rinfaccio straziato e straziante rivolto al padre adottivo: «Eppure, tu che non mi hai dato la vita mi hai dato un insegnamento che la vale: riconoscere il proprio stato di necessità interiore, corrispondergli, dargli spazio, voce, anteporlo a tutto …. In negativo, sei stato un maestro autentico» (p. 167). Per Giovanna-Vera la ricerca dell’identità coinvolge l’intera esistenza – dal nome all’immagine fantasmatica di una madre sconosciuta – e non è confortata dalla comunanza di nessun gruppo: ciò che conta è riconoscere quella «necessità» interiore, tramata di aggressività dolente, di masochismo morboso, di selvatica ribellione contro il padre, tanto più amato quanto più ferocemente estraneo. Anche la Avalli ricerca la contaminazione dei registri espressivi – le canzoni che escono dai primi jukebox si alternano alle favole mitologiche, i richiami ai film hollywoodiani si mescolano con le battute sentimentali dei fotoromanzi -, ma la scrittura qui s’inarca nelle pointes di un’acre accensione melodrammatica. L’intensità di pathos è sollecitata dallo sfondo storico e geografico entro cui si distende la Bildung della fanciulla protagonista: il percorso dell’autoconsapevolezza femminile non presceglie l’epoca allegramente tumultuosa della contestazione studentesca, ma, ben più cupamente, chiama in causa il sistema chiuso della civiltà contadino-patriarcale che, negli anni Cinquanta, ancora dominava nei paesi della bassa Lombarda. Anche di questa differenza cruciale è testimone, in toni allucinatamente combattivi, la narratrice della Dea dei baci.