ARNOLDO MONDADORI EDITORE (1907-2007)
Profilo a cura di Vittore Armanni
1. Le origini (1907-1921)
2. Una dimensione nazionale (1922-1935)
3. La breve ripresa e la guerra (1936-1945)
4. Il secondo dopoguerra e il miracolo economico (1946-1964)
5. Espansione e crisi (1965-1978)
6. Tra editoria televisiva e riassetto proprietario (1979-1989)
7. Ristrutturazione e rilancio (1990-1997)
8. Gli sviluppi recenti (1997-2007)
1. Le origini (1907-1921)
Tra Otto e Novecento in larga misura si accedeva al rango di editore provenendo dall’esercizio della professione di libraio o di tipografo. Arnoldo Mondadori non fa eccezione a questa regola, che lo vede in compagnia dell’altro grande self-made man del settore nel Novecento: Angelo Rizzoli. Entrambi tipografi di umili origini, furono presto identificati con le loro imprese, tanto da oscurare la ricchezza e la complessità della macchina editoriale che nelle case editrici assicurava continuità a redazioni, collane, periodici, impianti tipo-litografici.
Ciò che impressionò i contemporanei, e garantì un importante contributo alla costruzione di una consolidata agiografia, fu la rapidità con la quale Arnoldo percorse le tappe che lo condussero già dopo la prima guerra mondiale a poter competere con i maggiori editori del tempo, pur differenziandosi fin dagli esordi per un fattore di non poco conto: la collocazione geografica, trovandosi, a Ostiglia, piuttosto decentrato dai tradizionali luoghi dove l’editoria si era maggiormente sviluppata (soprattutto Milano).
Alle origini di tutto si pone infatti la tipografia Manzoli, dove il giovane Arnoldo stampò tra il 1907 e il 1908 qualche numero del giornale «Luce!», di ispirazione socialista, assumendo nel 1908 la gestione diretta della tipografia e trasformandone nel 1912 la denominazione in «La Sociale».
Per un breve periodo la nuova società svolse principalmente attività di cartoleria e tipografia evadendo gli ordini locali. Ben presto però – con l’ausilio del futuro cognato Tomaso Monicelli, giornalista militante di fede socialista, scrittore, polemista e commediografo, che gli fornì due opere – Mondadori poté cimentarsi con i suoi primi prodotti editoriali: Aia Madama, raccolta di racconti di ambiente ostigliese pubblicata nel 1912, e Il piccolo viandante, uscito nella collana illustrata per l’infanzia La lampada, diretta dallo stesso Monicelli.
Gli esiti di vendita non particolarmente incoraggianti di questi come di altri titoli pubblicati successivamente non avvilirono Mondadori, ma anzi lo spinsero a estendere la sua rete di contatti facendo leva, presumibilmente, sulle conoscenze di Monicelli. In questa prima fase, tuttavia, Mondadori preferì non cimentarsi con la narrativa ritenendo che la società da lui gestita non fosse ancora sufficientemente solida da rischiare in un settore così impegnativo; preferì invece incrementare la pubblicazione di testi scolastici che assicuravano, con le adozioni, un risultato economico sicuro. È inoltre da rimarcare che Mondadori adottò, per i compensi agli autori, la corresponsione di una percentuale sulle vendite al posto di anticipi o di pagamenti alla consegna dei dattiloscritti, trovandosi in quella fase ancora vincolato alla scarsa liquidità della sua società.
La società in accomandita semplice «La Sociale», costituita nel 1912 con un capitale di 70 mila lire, ereditava le precedenti attività di Mondadori e rappresentava un primo segnale dell’efficacia del lavoro svolto fino a quel momento da Arnoldo: allargata la compagine degli azionisti – sempre tuttavia su base locale – fu preoccupazione prioritaria e costante di Mondadori tenere aperti i canali del credito bancario garantendosi l’avallo dei soci nelle operazioni di finanziamento della società.
I risultati furono in questi anni decisamente positivi: in utile per il biennio 1912-1913, la società già nel 1913 risultava la prima azienda tipografica della provincia di Mantova per numero di addetti. Non sembrò dunque azzardato, nel 1915, ricapitalizzarla favorendo l’ingresso di nuovi soci: aumentato il capitale da 70.000 a 275.000 lire (di cui 30.000 sottoscritte da Mondadori, socio accomandatario), i tempi erano maturi per disporre un ingrandimento dello stabilimento guadagnando altri 1000 mq che permettevano di collocare nuove macchine acquistate per far fronte all’incremento degli ordinativi. Questi provenivano – per la parte tipografica – in buona misura da enti pubblici (a cominciare dallo stesso comune di Ostiglia), verso i quali Arnoldo aveva svolto fin dagli inizi un’incisiva azione di propaganda. Non gli sfuggiva infatti come il committente pubblico potesse assicurare continuità di ordinativi e nel contempo garantire il saldo delle commesse più di un privato, anche se in tempi non sempre brevi. Parimenti radicata era in Mondadori la convinzione che fosse necessario, in prospettiva, garantire alla società da lui gestita mezzi finanziari meno aleatori abbandonando la pratica dell’intermediazione dei consiglieri presso le banche per provvedere direttamente ai bisogni della «Sociale». Nell’occasione dell’aumento di capitale veniva anche assunta la denominazione «Casa editrice la Scolastica» per la gestione di tutta la produzione editoriale.
In questa prospettiva si inseriva a pieno titolo, nel 1917, la decisione di compiere un significativo passo avanti per consolidare l’attività tipografica ed editoriale e affacciarsi verso un mercato più vivace attraverso la fusione della «Sociale» con la «Gaetano Franchini», azienda grafica attiva in Verona e concorrente diretto di Mondadori. Compiuta la fusione sotto la nuova ragione sociale «Stabilimenti tipo-litografici A. Mondadori già “La Sociale” e Gaetano Franchini», veniva successivamente aumentato il capitale a 1.050.000.
Nella nuova sede di Verona furono collocate la direzione amministrativa e commerciale, mentre la produzione rimaneva a Ostiglia. Contestualmente – siamo nel 1918 – veniva conclusa un’operazione volta ad acquisire la «Libreria scolastica nazionale» di Roma con tutto il suo catalogo e si avviavano contatti con gli Uffici propaganda delle Forze armate per la stampa di volantini, manifestini, cartoline e altro materiale destinato ai combattenti. A questi si aggiungevano i fogli di trincea (tra cui «La Ghirba» e, in misura minore, la «Tradotta») di cui Mondadori si garantì, a volte in condivisione con altre aziende grafiche, la stampa. Si trattava, come è facile immaginare, di un affare particolarmente lucroso: stampati in decine di migliaia di copie, garantivano un flusso costante di lavoro che veniva disimpegnato con successo dalle nuove macchine tempestivamente acquistate. Proprio il continuo aggiornamento dei macchinari, unitamente all’affidabilità e alla puntualità nelle consegne (che in parte erano conseguenza del primo) fu una costante in tutta la storia della Mondadori e uno dei fattori che più contribuirono all’affermazione dell’impresa su scala europea. Non è un caso, dunque, che nell’agosto 1918 Mondadori potesse rendere partecipi i consiglieri del «continuo crescente aumento del lavoro, pur trovandoci in condizioni difficilissime per la mancanza di mano d’opera e di materie prime». E ancora: le prospettive per l’imminente dopoguerra venivano tracciate nella seduta consiliare del 16 dicembre 1918 laddove si affermava che era «intenzione stabilita di non curare le piccole forniture per privati, in considerazione che tal lavoro non si addice ad una azienda industriale, gravata, come la nostra, da ingenti spese generali», un tema, questo del peso delle spese generali sul bilancio, che rappresenterà sempre per Mondadori un problema cruciale, quasi un’ossessione. Né le aperture di credito, in quella fine d’anno, parevano un ostacolo insuperabile: si affermava anzi che si erano verificate «varie offerte spontanee di grandi istituti e per somme ingenti».
Esente in buona parte dai gravi problemi di riconversione propri di altri settori industriali, la società poté nel 1919 procedere ad una ulteriore razionalizzazione della produzione editoriale raccogliendo sotto la ragione sociale «Casa editrice A. Mondadori» la «Scolastica» e la «Libreria scolastica nazionale» e decentrando a Roma l’amministrazione, pur mantenendo la sede sociale a Ostiglia. La diversa ubicazione delle sedi, se poteva rappresentare un problema con Roma, veniva regolata tra Ostiglia e Verona stabilendo che nella prima sarebbe rimasto «il magazzino generale, il cui movimento [veniva] registrato a Verona in guisa da poter conoscere in qualunque momento l’esistenza effettiva delle singole quantità ed averne un assoluto controllo». Sul fronte delle nuove commesse, ulteriori prospettive di lavoro si aprivano con il passaggio del Trentino in territorio italiano: con grande rapidità («appena concluso l’armistizio») Mondadori si recava a conferire con il Governatorato di Trento ottenendo via libera per «offrire le nostre merci alle scuole e a tutti i comuni del nuovo territorio».
Un problema non previsto si presentava all’attenzione degli amministratori in quel 1919: le rivendicazioni degli operai per gli aumenti salariali e la contestuale riduzione dell’orario di lavoro da nove a otto ore, eventi che, unitamente agli aumenti del costo delle materie prime, avevano reso prioritari una serie di provvedimenti: massimo sfruttamento della capacità produttiva degli impianti, necessità di procedere in completa autonomia funzionale tra le varie sedi, ristrutturazione organizzativa della Direzione centrale, divisa negli uffici Tecnico e Amministrativo con ulteriore suddivisione di quest’ultimo in Contabilità, Incasso crediti e Corrispondenza.
Cominciava tuttavia a manifestarsi in tutta la sua gravità il nodo del decentramento delle sedi che, in quella fase, provocava più danni che vantaggi; a ciò si aggiunse con sempre maggiore impellenza la crescita del fabbisogno finanziario che non trovava più riscontro nelle disponibilità dell’impresa, ormai largamente sottocapitalizzata e incapace di ricorrere al credito bancario come in passato per il progressivo (anche se temporaneo) ripiegamento degli istituti di credito dagli investimenti industriali. Di qui la necessità, per Mondadori, di trovare soluzione ad entrambi i problemi: nel primo caso escogitando una diversa ubicazione della società, nel secondo procedendo senza indugi ad un aumento di capitale. Si trattò, come è facile affermare alla luce degli avvenimenti successivi, di un momento assolutamente decisivo per le sorti dell’impresa, anche perché fu trovato un sistema per contemperare entrambe le esigenze.
Le cautele degli amministratori della società nell’assunzione di nuovi impegni finanziari furono nel biennio 1920-1921 travalicate dalla volontà di Mondadori di trovare un nuovo assetto societario più consono alle sua ambizioni. Nell’avviare infatti la costruzione di un nuovo stabilimento nell’area di S. Nazzaro a Verona, iniziarono a prendere consistenza contatti con un gruppo di capitalisti milanesi capitanati da Senatore Borletti, all’epoca amministratore della Banca italiana di sconto e azionista di riferimento del Linificio e canapificio nazionale, del Cotonificio Enrico Dell’Acqua e della Rinascente.
Alla fine di un dibattito che si protrasse in sede consiliare per quasi sei mesi, fu deciso infatti di affiancare all’«Unione tipografica mantovana A. Mondadori», costituita con sede in Verona e un capitale di 750.000 lire, la «A. Mondadori. Società anonima per azioni» di cui Borletti fu eletto presidente e Mondadori consigliere delegato e che disponeva di un capitale sociale di 6 milioni di lire. L’evento rappresentava la fine di un’epoca, testimoniata dal fatto che solo due tra i vecchi consiglieri entrarono nel nuovo Consiglio di amministrazione; nel contempo era l’occasione per Mondadori di cimentarsi con una realtà editoriale, quella milanese, nettamente diversa dall’ambiente in cui aveva sino ad allora fatto valere le sue qualità di imprenditore.
2. Una dimensione nazionale (1922-1935)
L’accoglimento di una più solida compagine azionaria all’interno della società non si tradusse tuttavia in una immediata scomparsa dei problemi che sino ad allora avevano accompagnato l’impresa. Lo sviluppo forse troppo rapido dell’azienda, sull’onda delle contingenze affatto eccezionali del periodo bellico, cui si accompagnava il non risolto problema della pluralità di sedi tra Milano, Verona e Ostiglia, non mettevano al riparo l’impresa da disfunzioni e squilibri prontamente rilevati dai bilanci. A fronte infatti di una lieve perdita riscontrata nell’esercizio 1921-1922 (poco più di 50.000 lire), ben più preoccupante risultava il disavanzo dell’esercizio successivo (oltre 3 milioni di lire su un capitale sociale di 6 milioni), gravato per la prima volta da consistenti ammortamenti sul capitale fisso (pratica, questa degli ammortamenti, ancora soggetta in quegli anni ad ampi margini di discrezionalità).
L’impresa continuava comunque a scontare una persistente carenza di mezzi finanziari necessari per sostenerne il dinamismo e far fronte agli elevati immobilizzi, tra cui spicca quello, decisamente oneroso, della nuova fabbrica di Verona, inaugurata nella primavera 1923. Fu quindi giocoforza procedere alla riduzione del capitale sociale e al successivo reintegro, coperto interamente da Borletti, rimandando un ulteriore aumento di capitale a tempi più propizi.
Sul fronte dell’attività editoriale vera e propria, lavorare a Milano significava anzitutto misurarsi con due case di antica tradizione: Treves e Sonzogno, contro le quali (ma non furono le uniche) Arnoldo promosse un’aggressiva politica di acquisizione di autori facendo leva su un trattamento economico più favorevole e utilizzando largamente, a differenza di altri, la prospettiva di pubblicare, almeno dei maggiori, l’opera omnia.
In estrema sintesi, tre furono gli eventi che caratterizzarono, in bene o in male, l’attività di Mondadori negli anni Venti: l’acquisto del «Secolo», la pubblicazione delle opere di D’Annunzio, l’imposizione, da parte del regime, del libro di stato.
Nel primo caso la decisione prese le mosse da motivazioni politico-economiche che attenevano alla volontà di contrastare la diffusione del «Corriere della sera» di Albertini, attestato su posizioni contrarie al regime, cui Mondadori aveva aderito seguendo il sentire comune, pur con qualche sfumatura, dei suoi colleghi industriali. In realtà il «Secolo» si dimostrò, anche dopo le dimissioni dei fratelli Albertini dal «Corriere», un investimento sbagliato e una fonte inesauribile di perdite, tanto che non valse a Mondadori assumerne la responsabilità diretta come consigliere delegato: nel 1927 il «Secolo» fu infatti venduto ai Crespi.
Il passaggio di D’Annunzio sotto le insegne di Mondadori rappresentò invece un evento di portata incalcolabile: avviati i primi contatti nel 1921, si era poi cercata una soluzione per liberarlo dai vincoli contrattuali che lo legavano alla casa Treves. Nel 1926 poteva finalmente aver luogo l’accordo che prevedeva la costituzione di una anonima denominata «Istituto nazionale per la pubblicazione di Tutte le opere di Gabriele D’Annunzio» che disponeva di un capitale iniziale di 6 milioni di lire sottoscritto per 3,5 milioni dal Provveditorato generale dello stato, per 1,5 milioni da Mondadori e 1 milione dallo stesso D’Annunzio. Per la stampa del volume si ricorse all’Officina Bodoni di Hans Mardersteig, spostando i macchinari dal Canton Ticino allo stabilimento di Verona. La stampa dell’opera omnia, conclusa nel 1936, si concreterà in tre edizioni diverse, tutte numerate: la più pregiata sarà stampata su pergamena con torchio a mano.
Il cosiddetto libro di stato costituì al contrario un grave smacco per il brusco arresto che provocò sulla produzione scolastica, fino ad allora un settore particolarmente vivace anche se non privo di incognite (tra cui la ridefinizione dei programmi conseguente alla riforma Gentile). Superata una fase in cui sembrava che Borletti fosse intenzionato ad accordarsi con Bemporad per dividersi il mercato delle edizioni scolastiche, si dovette fronteggiare la volontà, da parte del regime, di unificare il libro di testo per le scuole elementari avocandone la realizzazione al Provveditorato generale dello stato. Nonostante le pressioni degli editori maggiormente coinvolti nel business del libro scolastico (Bemporad e Mondadori fra tutti), Mussolini si dimostrò irremovibile. Nell’ottobre 1930 entrò dunque in vigore il libro di stato, con un danno facilmente immaginabile sulle giacenze di volumi in possesso degli editori che maggiormente si erano impegnati in quest’ambito.
L’andamento dei bilanci aziendali nella seconda metà degli anni Venti non può non rispecchiare, oltre agli squilibri provocati da una crescita troppo rapida, i fattori esogeni cui si è accennato. Raddoppiato infatti il capitale sociale nel 1925 (da 6 a 12 milioni di lire), la vicenda del «Secolo», fortunatamente conclusa nel 1927, la persistenza di sprechi e di disfunzioni organizzative nonché l’onerosa politica di accaparramento degli autori provocarono un tracollo nella gestione 1928 che registrò una perdita di quasi 9 milioni di lire dopo tre anni consecutivi di utili. Fu quindi necessario ridurre il capitale a 120.000 lire e aumentarlo nuovamente a 18 milioni di lire con il contributo determinante, ancora una volta, di Borletti.
Le ambizioni di Mondadori subivano dunque un brusco arresto cui però poneva rimedio la fiducia e l’appoggio di Borletti per continuare la strada intrapresa. Il ventennio 1920-1940, a ben vedere, risente di un andamento nei conti caratterizzato da utili modesti e da brusche cadute (gli esercizi 1928-1929 e 1934 sopra tutti), che dimostrano come fosse veramente arduo da un lato superare un’organizzazione artigianale, sino ad allora prevalente, per dotarsi di una struttura industriale con tutti i problemi connessi (tra cui, non ultimo, quello della distribuzione); dall’altro, come fosse difficile rendere il libro (più che il periodico, soggetto a dinamiche più favorevoli) un bene di consumo di massa in un paese che, tra le arretratezze persistenti, registrava anche quella dell’analfabetismo di massa.
Merito di Mondadori fu comunque quello di non desistere e di porre soprattutto nel corso degli anni Trenta le basi per lo sviluppo del secondo dopoguerra. Proprio gli anni Trenta sono caratterizzati da un lato in una maggiore attenzione verso le pubblicazioni di regime (i Colloqui con Mussolini di Emil Ludwig, i resoconti delle trasvolate atlantiche di Balbo, le cronache delle guerre coloniali di Graziani, i volumi di Starace), anche se rappresentarono pur sempre una parte minoritaria del catalogo; dall’altro dal varo di alcune iniziative editoriali innovative, tra cui vanno almeno segnalati i libri gialli, la pubblicazione di Topolino su licenza di Walt Disney, le collane Biblioteca romantica, Centomila e soprattutto Medusa che fecero conoscere al pubblico italiano le opere di alcuni tra i maggiori scrittori stranieri dell’Otto-Novecento. Un ruolo determinante fu svolto dal condirettore generale Luigi Rusca, in Mondadori dal 1928, personaggio di profonda e raffinata cultura e di orientamento antifascista che contribuì grandemente sia alla razionalizzazione dell’azienda, sia alla sprovincializzazione dell’offerta della casa editrice, seguendo con grande competenza lo sviluppo delle collane più significative.
L’andamento dell’azienda negli anni Trenta risentì all’inizio del persistente indebitamento cui non si era riusciti a porre rimedio in precedenza; il momento non era inoltre dei più favorevoli per gli effetti della crisi generale che stava investendo l’industria italiana dopo il crollo di Wall Street del 1929. I risultati preoccupanti delle gestioni successive al 1932 (in particolar modo l’esercizio 1933-34, che si chiuse con una perdita di oltre 4 milioni) costrinsero Mondadori, ancora una volta con l’avallo di Borletti, a richiedere un mutuo quindicennale all’Iri per un importo di 4,5 milioni al 6% e un mutuo decennale di 2,5 milioni allo stesso Borletti. Il capitale fu dunque nuovamente ridotto a 13,5 milioni per essere poi aumentato a 16 milioni. Sul piano occupazionale, all’inizio degli anni Trenta, presentandosi la necessità di operare dei licenziamenti, si era alla fine giunti ad un accordo tra l’azienda e il sindacato (con la mediazione del prefetto di Verona) per una riduzione del 10% sulle paghe degli operai.
La ripresa non sembrava comunque per nulla scontata, se si considera che l’utile dell’esercizio 1935 ammontava a 42.000 lire. Il ritorno degli investimenti compiuti sino ad allora – con l’eccezione delle grandi opere che permettevano di ricavare un margine piuttosto consistente – si rivelava troppo lento per alimentare il fabbisogno finanziario dell’impresa, anche solo a livello di gestione ordinaria.
3. La breve ripresa e la guerra (1936-1945)
Nella seconda metà degli anni Trenta, in concomitanza con il momento di massimo consenso ottenuto dal regime (comunemente indicato con la conquista dell’Etiopia), più organici si fecero i rapporti di Mondadori, come si accennava in precedenza, con esponenti di spicco del fascismo, con i quali mise in cantiere e realizzò svariate iniziative editoriali. Contestualmente si verificò una stretta della censura fascista sulle scelte editoriali della casa editrice, non solo sui romanzi di autori stranieri, ma anche sulle pubblicazioni periodiche (tipico il caso di «Tempo», promosso da Alberto Mondadori) nelle quali si ravvisava una pericolosa somiglianza con analoghe pubblicazioni straniere.
Dopo il 1936, inoltre, si manifestarono in misura evidente i sintomi di una più generalizzata «crisi del libro», dovuta all’acuirsi di vecchie storture o all’affacciarsi di nuovi problemi: l’eccessiva offerta di titoli, la scarsità di librerie, la preminenza delle grandi case editrici che avevano accesso agli strumenti pubblicitari, la rapida obsolescenza dei titoli e il conseguente accumularsi delle giacenze, la scarsa informazione libraria, i prezzi elevati e l’insufficienza delle biblioteche pubbliche. Si trattava insomma, in gran parte, di problemi attinenti alla distribuzione che impedivano l’allargamento del mercato ai non lettori. Causa ed effetto della carente distribuzione rimaneva la mancanza, nel nostro paese, di una letteratura nazionale a diffusione popolare, una lacuna che la politica culturale del regime non riuscì a colmare.
Mondadori, tra i negatori più recisi della «crisi del libro», riuscì in ogni modo a far quadrare i conti tra il 1935 e il 1940: si trattava di utili modesti (il picco fu raggiunto nell’esercizio 1939-40 con un avanzo di 652.830 lire) che, tra l’altro, non impedirono un nuovo ricorso ad un mutuo, richiesto in questa occasione all’Istituto mobiliare italiano (Imi). Mondadori aveva infatti in animo di acquisire, scomparso Borletti nel 1939, il controllo della società. Per la prima volta dunque Arnoldo, che sino ad allora aveva esercitato il controllo della società, diventava al tempo stesso proprietario, anche se, a distanza di pochi anni, la posizione faticosamente conquistata verrà rimessa in discussione dai drammatici eventi successivi all’armistizio. Ridotta grandemente la produzione editoriale, soppresse alcune collane, pubblicato per forza di cose «Topolino» in veste autarchica, buona parte del fatturato della società fu garantito da pubblicazioni per conto del Pnf o della Gil, senza dimenticare la letteratura per l’infanzia e le grandi opere in più volumi.
Tra il 1942 e il 1943 la situazione precipitò: decentrati a Verona gli uffici amministrativi con l’obiettivo di sfuggire ai bombardamenti alleati, messi al sicuro valori e archivi, non si riuscì ad evitare un grave danneggiamento ad una filiale milanese per effetto del bombardamento dell’agosto 1943. In settembre Mondadori decise di trasferire l’attività amministrativa da Verona, dove era stata portata nel 1942, ad Arona, in prossimità quindi della sua villa di Meina. In novembre decise che era tempo di riparare in Svizzera, a Lugano, dove prese alloggio in dicembre.
Mondadori non fu comunque in grado di opporsi, nella primavera 1944, al commissariamento dello stabilimento di Verona su disposizione della Rsi. Liberata Roma nel giugno 1944, si venne a creare un netto dualismo tra la sede romana della Mondadori, gestita da Rusca, e quanto rimaneva della Mondadori nell’Italia occupata dai nazifascisti: la prima infatti, oltre all’attività amministrativa che le era propria, aveva sviluppato, per iniziativa di Rusca, un proprio programma editoriale più consono ai mutati tempi.
Nel frattempo Mondadori si serviva della Helicon, società da lui costituita in Svizzera nel dicembre 1943 con il fine di acquistare diritti d’autore sul mercato anglosassone, per assicurarsi la proprietà di opere straniere da tradurre nel momento in cui la situazione si sarebbe normalizzata. Contestualmente prese contatti, grazie anche alla fattiva collaborazione dell’amico e concorrente Enrico Dall'Oglio, con esponenti di spicco del fuoruscitismo per valutare la possibilità di rientrare in Italia studiando nel contempo una soluzione accettabile per gli assetti societari dell’impresa dopo la fine delle ostilità.
Il caos del biennio 1943-1944 aveva comunque effetti anche sul bilancio della società, chiuso con un disavanzo di oltre 285.000 lire, mentre l’esercizio successivo riportava un utile di 870.450 lire, determinato da un deciso aumento del fatturato e del valore a bilancio del capitale fisso.
4. Il secondo dopoguerra e il miracolo economico (1946-1964)
Rientrato in Italia nel giugno 1945 e ripreso possesso dell’azienda dopo varie traversie, alla fine dello stesso anno Mondadori poteva dedicarsi a riallacciare i rapporti con i vecchi autori e a mettere a frutto il lavoro svolto in Svizzera tramite la Helicon. Nuovi autori di prestigio, come Churchill ed Hemingway, venivano catturati in esclusiva.
Sul piano industriale e finanziario l’azienda usciva dall’esperienza bellica con una necessità impellente: rinnovare gli impianti dello stabilimento di Verona e assicurare nuove fonti di finanziamento che permettessero un definitivo salto di qualità. Aumentato il capitale a 51 milioni nel 1947 e ulteriormente innalzato nel 1948 a 102 milioni, prendeva sempre più consistenza la possibilità di ottenere un finanziamento in dollari dall’Imi in virtù del piano Erp di aiuti statunitensi all’Europa occidentale. L’incombenza di recarsi negli Stati Uniti per studiare le possibilità offerte dall’impiantistica fu affidata a Giorgio Mondadori, figlio di Arnoldo, che ebbe modo di visitare gli stabilimenti che disponevano del macchinario più avanzato. In pratica il finanziamento si concretò con un mutuo diretto dell’Imi per 90 milioni di lire e con un finanziamento per l’acquisto di macchinari statunitensi dell’importo complessivo di 750.000 dollari, cui si aggiunse, nel 1950, un finanziamento di 76.000 sterline da restituire in sei mesi.
In quel 1950 la compagine societaria era composta da Arnoldo Mondadori, presidente, Giorgio e Alberto Mondadori, consiglieri delegati, Bruno Mondadori, Adolfo Senn, Pietro Rossi e Vittorio Vercesi, consiglieri. Fu questo consiglio che, trasferiti gli uffici in via Bianca di Savoia a Milano, decise di avviare, nel giugno 1950, la pubblicazione del settimanale «Epoca», diretto da Alberto Mondadori, che in parte rimise insieme gli antichi collaboratori di «Tempo». Dopo un momento di crisi in cui si ebbe una drastica riduzione delle copie vendute, il settimanale attraversò una fase di rilancio in cui non ebbe parte secondaria l’uso accattivante di inserti a colori.
Le prospettive di espansione sembravano comunque sicure: l’esercizio 1950/51, nei verbali consiliari, veniva ritenuto da Arnoldo «l’ultimo che [aveva] presentato particolari anormalità»: non erano comunque mancati «momenti veramente drammatici» dovuti ad una concomitanza di eventi negativi e non sempre prevedibili, tra cui l’aumento vertiginoso dei prezzi della carta, il difficile avviamento di «Epoca» e l’incremento degli oneri fiscali. «Durissima è stata la prova da superare», continuava la verbalizzazione, «avendo dovuto mobilitare tutte le risorse finanziarie ed avvalersi anche di aiuti privati». Tuttavia veniva anche fatto notare il lusinghiero successo ottenuto nel settore editoriale – «il più delicato e difficile» –, che faceva ben sperare per l’avvenire.
Il momento critico fu infatti superato dando prova di un notevole dinamismo nel riprendere contatto con il ricco catalogo della casa editrice e nel proporre collane più consone ai nuovi tempi, tra cui spiccano, in questi anni, la nuova Biblioteca di cultura moderna, collana popolare a basso costo approntata per contrastare l’offensiva di Rizzoli con la Bur, i Narratori italiani, la Biblioteca contemporanea Mondadori e il Bosco. Furono inoltre rilanciate collane come i Classici contemporanei italiani, lo Specchio, la Medusa degli italiani e si acquisirono due autori importanti come Bacchelli e Palazzeschi.
Nel 1958 avveniva un parziale distacco di Alberto Mondadori che, d’accordo col padre, prendeva la propria strada costituendo il Saggiatore con l’ausilio e il supporto di un gruppo di personaggi con cui era legato da rapporti di comunanza intellettuale e spesso amicale. La nuova casa editrice si avvaleva della determinante partecipazione finanziaria della Mondadori, che poco più avanti assicurò anche la distribuzione; tuttavia i risultati non buoni dei primi anni di attività indussero la casa madre a farsi interamente carico, da 1962, della gestione finanziaria dell’impresa.
Presidiato il fronte editoriale, si trattava ora di intervenire a valle dove persisteva un annoso problema ancora ben lungi dall’essere risolto. Uno dei punti deboli nella diffusione di massa del libro era infatti la distribuzione, ritenuta da Mondadori (e non solo da lui) assolutamente inefficace. Di qui la decisione di scavalcare i librai pianificando una catena di librerie, battezzata «Mondadori per voi», che avrebbe dovuto caratterizzarsi per un approccio affatto differente al potenziale lettore. Aperto il primo negozio nel 1954 a Milano nel centralissimo corso Vittorio Emanuele, nel 1961 saranno già 15 e si distingueranno per i buoni risultati di fatturato.
Gli anni Cinquanta possono dunque considerarsi, per Mondadori, largamente positivi: oltre 108 milioni di utile nel 1953-54, 111 milioni nel 1954-55, 146 milioni nel 1955-56, 213 milioni nel 1956-57, 225 milioni nel 1957-58, 258 milioni nel 1958-59, 294 milioni nel 1959-60. Avviata la costruzione di un nuovo imponente stabilimento in località San Michele, alle porte di Verona, stemperata la conflittualità sindacale con la prevalenza della Cisl nella Commissione interna, imboccata senza indugi la strada del libro per tutti (economico ma decoroso, come era nella tradizione della casa), consolidata la presenza nel settore periodici con fatturati in impetuosa crescita, si poteva guardare al nuovo decennio con fiducia.
In un momento in cui le direttive di espansione si rivolgevano sempre più alla formazione di nuove società collegate e all’assunzione di partecipazioni in società già operanti, il management della Mondadori (connotato in senso sempre più familistico: ne faceva ora parte anche Mario Formenton, genero di Arnoldo) si orientò dalla seconda metà degli anni Cinquanta a implementare il ciclo integrale assumendo partecipazioni consistenti in cartiere (la prima fu quella di Valcerusa, ma altre, come nella Cartiera di Ascoli, saranno assunte più avanti).
È significativo riscontrare che l’ambiziosa strategia aziendale (anche se può suonare riduttivo confinarla entro gli angusti confini dell’impresa) veniva ribadita chiaramente commentando i risultati dell’esercizio 1960-1961, laddove si affermava che «le nostre basilari convinzioni» nella «realizzazione di quella che possiamo chiamare una “editoria industriale”, come è noto inesistente in Italia sino a pochi anni addietro» venivano confortate dai risultati economici. L’editoria industriale, tuttavia, non poteva essere disgiunta da «quelle caratteristiche di qualità e di gusto, che sono proprie di un’editoria artigiana», tenendo bene in mente che «l’editoria [doveva] essere in grado di fornire ai vecchi e nuovi “consumatori” di libri, dei prodotti anche a basso prezzo capaci però di soddisfare la più ampia gamma di interessi culturali e spirituali». Questo obiettivo poteva essere perseguito con l’ausilio di «impianti automatizzati di grande efficienza che riducano i costi di produzione», cui dovevano accompagnarsi – naturalmente – «alte tirature».
Segnali di rallentamento iniziarono tuttavia a manifestarsi già dal 1962-1963, in concomitanza con l’esaurirsi del cosiddetto «boom economico». Soprattutto aumentava in quegli anni l’incidenza del costo del lavoro sui conti dell’impresa, evento che veniva puntualmente registrato nelle relazioni del Consiglio di amministrazione, laddove si affermava che «l’aumento dei salari si è in parte trasferito sui prezzi […] ma in buona parte è rimasto a carico della unità produttrici determinando una riduzione dei loro profitti». «Un certo equilibrio» continuava la relazione «che durava ormai da diversi anni si è dissolto per lasciar posto a una nuova struttura di rapporti economici». Per fronteggiare l’aumento delle spese generali – pur bilanciato dall’«alta produttività degli impianti veronesi» (l’attenzione costante alla modernità ed efficienza del macchinario rappresenterà sempre un punto di forza dell’impresa) e dal cospicuo incremento del giro d’affari – e porre rimedio alla persistente carenza di mezzi finanziari si ricorreva come in altre occasioni agli aumenti di capitale, innalzato ulteriormente in quell’esercizio da 2,5 a 3,5 miliardi di lire e ai mutui, rivolgendosi come di consueto all’Imi per un importo di un miliardo di lire.
5. Espansione e crisi (1965-1978)
Poche innovazioni sono così significative nella storia dell’editoria italiana come gli Oscar Mondadori. Essi rispondevano pienamente all’idea di Arnoldo del libro per tutti: era insomma una conferma della «validità della politica editoriale che da anni stiamo perseguendo», l’unica che avrebbe permesso al «pubblico italiano», investito dal «progresso civile e sociale», un adeguamento ai «consumi di lettura delle più evolute nazioni europee».
L’intuizione che le edicole, come stava del resto avvenendo per la vendita in dispense, potessero divenire un efficace veicolo di distribuzione da affiancare alle librerie, spinse gli Oscar, definita dalla casa editrice «collana popolare», ad un successo senza precedenti. Naturalmente non mancarono gli effetti positivi sul bilancio che, per quanto concerne l’esercizio 1965, anno in cui l’impresa venne accolta nel listino della Borsa di Milano, vide un incremento delle vendite pari al 30%. Il buon risultato dell’esercizio non era comunque un fatto isolato: dal 1960 al 1965 il fatturato della casa editrice era passato da più di 16 miliardi a ben 34 miliardi, un indicatore, insieme ad altri, che induceva gli amministratori a pianificare un potenziamento non solo degli stabilimenti veronesi, ma anche della dotazione di capitale fisso delle consociate. Ricordando che questo programma industriale sarebbe stato «attuato […] con la necessaria prudenza e gradualità», non si aveva timore di pronosticare un futuro in cui il «complesso grafico» avrebbe avuto una dimensione «europea e anzi intercontinentale».
Elementi di criticità rimanevano, ed erano individuati dalla direzione dell’impresa soprattutto nell’incremento delle spese generali, nella crescita irrazionale degli organici e nei contraccolpi della scelta strategica, pur ampiamente condivisa, di procedere con regolarità a forti immobilizzazioni in impianti produttivi, una politica che sottraeva risorse alla gestione del gruppo. Momenti difficili si ebbero anche allorquando Giorgio Mondadori chiese al fratello Alberto un intervento più deciso sul settore editoriale che presentava, in quel momento, il disavanzo più preoccupante. Il problema cruciale della redditività degli investimenti si ripresentava questa volta in modo drammatico: furono presi provvedimenti per ridurre il disavanzo prima del progettato aumento di capitale, poi avvenuto, da 5 a 6,5 miliardi; tuttavia, questa diversa visione strategica del settore editoriale provocò una frattura tra Alberto da una parte e Giorgio e Mario Formenton dall’altra. L’immediata conseguenza fu la rescissione di ogni legame finanziario tra il Saggiatore e la casa madre: Alberto tornò ad occuparsi della sua casa editrice fino alla liquidazione della stessa, avvenuta dopo due anni.
L’onda lunga degli Oscar durò grosso modo sino al 1967, anno in cui si ebbe un vistoso rallentamento, anche se faceva da contraltare il buon risultato delle vendite rateali. La fiscalizzazione degli oneri sociali, gli aumenti previsti dai nuovi contratti di lavoro dei grafici e dei giornalisti e infine l’inasprimento della pressione fiscale non sembravano scalfire la convinzione che «il settore editoriale in Italia abbia ancora dinanzi a sé vasti margini di sviluppo e che la richiesta di prodotti grafico-editoriali sul mercato mondiale si manterrà sostenuta e tanto più viva quanto più si progredirà nel miglioramento del tenore di vita e nel livello economico generale».
Nel 1968 la successione di Arnoldo sembrò cosa fatta: lasciata la carica di presidente in favore di Giorgio, il fondatore fu nominato presidente onorario a vita; Formenton divenne vicepresidente assumendo, unitamente a Giorgio, anche l’incarico di consigliere delegato. Il comitato di presidenza era invece costituito da Arnoldo e Giorgio Mondadori, Formenton, Cimadori, Polillo e Senn. L’anno successivo fu raggiunto un accordo con le Assicurazioni Generali che si impegnarono ad acquistare un terreno a Segrate e ad edificare un complesso – poi affidato ad Oscar Niemeyer, l’architetto di Brasilia – che verrà affittato dall’istituto assicurativo alla casa editrice.
Gli anni Settanta furono funestati, come è noto, da una persistente crisi economica che non mancò di incidere negativamente sull’azienda. Fin dall’inizio – prima della crisi petrolifera – non mancarono i momenti di difficoltà provocati, oltre che dalla sfavorevole congiuntura economica (l’inflazione iniziò a risalire dal 1968), da una marcata conflittualità sindacale.
Venuto a mancare Arnoldo nel 1971, il gruppo Mondadori affrontò la decade senza aver risolto alcuni dei problemi che già si erano presentati in passato, aggravati dalla stagflation congiunturale. Alcuni indicatori mostrano infatti che dal 1968 al 1972 l’indebitamento a medio e lungo termine passava, sul totale delle passività nello stato patrimoniale, dal 28% al 37%, mentre il patrimonio netto diminuiva nello stesso periodo dal 31% al 23%. L’incidenza del costo del lavoro aumentava invece dal 27,2% al 33,7%, mentre il cash flow andava incontro a una diminuzione dal 4,1% al 2,7%. La dinamica degli utili è in questa fase ancora positiva, oscillando da un minimo di 567 milioni (1971) a un massimo di 978 milioni (1969).
Le risultanze di bilancio peggiorarono grandemente negli anni successivi: oltre a un problema costante di redditività degli investimenti in rapporto ai mezzi impiegati e di conseguente difficoltà ad attuare con successo strategie di autofinanziamento, si manifestò una rapida diminuzione dei profitti, nonostante il fatturato si mantenesse in crescita. A questa poco confortante situazione si accompagnava il costante aumento dei costi delle materie prime (soprattutto la carta), del costo del lavoro e del costo del denaro. Quest’ultimo in particolare, collocato nel 1974 a tassi oscillanti tra il 18 e il 20%, inficiava duramente le capacità di investimento dell’impresa, costringendola a rimandare o ad annullare le richieste di finanziamenti. Ad aggravare ulteriormente la situazione interveniva il fatto che all’aumento dei costi di produzione non si poteva porre rimedio con aumenti indiscriminati dei prezzi di vendita al pubblico.
L’impatto di tutti questi fattori, endogeni ed esogeni, provocò una breve serie di esercizi in perdita (dal 1975 al 1977) con disavanzi che superarono i 2 miliardi di lire. Tra le cause di risultati così negativi va senz’altro annoverato l’avviamento di una nuova iniziativa editoriale: la costituzione nel 1975 della società «La Repubblica spa» per la pubblicazione dell’omonimo quotidiano, cui Mondadori partecipò in compartecipazione paritetica con l’Editoriale L’Espresso. L’anno successivo Giorgio Mondadori assunse la carica di presidente onorario; alla presidenza della società fu designato Ercole Graziadei, mentre a Laura Mondadori, consigliere dal 1971, si affiancava il figlio Leonardo. Nel 1977 si completava la ridefinizione del vertice con la nomina di Sergio Polillo a consigliere delegato e di Giuseppe Luraghi a presidente.
Un’inversione di tendenza si prospettò nel 1978 con un utile di oltre 5 miliardi, grazie a un significativo recupero di redditività e a un buon incremento delle vendite.
6. Tra editoria televisiva e riassetto proprietario (1979-1989)
Raggiunto il climax nel 1980, l’inflazione iniziò a calare dall’anno successivo, apportando – se non i segni di una pronta ripresa – almeno un segnale che i conti avrebbero potuto migliorare dopo anni di incertezza. Gli avvenimenti principali del decennio Ottanta sono nella prima metà l’ingresso di Mondadori nell’editoria televisiva e, nella seconda, le controverse vicende che portarono a successivi rovesciamenti del gruppo di comando.
Sullo sfondo, ma con una capacità non indifferente di influenzare i risultati dell’azienda, rimaneva il problema della sottocapitalizzazione del gruppo, esposto ad un incremento dei costi che implicava, come si scriveva nel 1981, «una attenta azione di contenimento». Non stupirà quindi che la ricerca di nuove fonti di finanziamento, dovendo per necessità non eccedere con l’indebitamento bancario a breve e a medio termine, si volgesse agli aumenti di capitale, ben due tra il 1980 e il 1982 con un incremento da 10 a 22,5 miliardi. D’altra parte gli adeguamenti di prezzo non riuscivano a compensare la stasi del settore librario, né i periodici dimostravano maggiore dinamismo. Parimenti inferiore alle necessità si presentava la raccolta pubblicitaria, che avrà parte non indifferente nel sostegno alla nuova iniziativa: la costituzione di Telemond, capogruppo di società televisive locali e, nel novembre 1981, la nascita di Retequattro con una partecipazione iniziale di Mondadori pari al 64%.
L’impegno nell’editoria televisiva veniva ampiamente motivato. «È fuori dubbio» – si leggeva nella relazione del 1981 – «che un’azienda come la nostra, che da decenni opera nel campo dell’informazione e della pubblicità, non poteva trascurare quel potente mezzo di comunicazione di massa che la televisione rappresenta oggi e, si ritiene, ancora più rappresenterà in un prossimo futuro».
Se la previsione poteva rivelarsi azzeccata, meno fortunata fu la parabola di Retequattro sotto la gestione Mondadori. La scarsità di mezzi finanziari messa in luce durante i tre anni di attività, nonostante un certo incremento del fatturato pubblicitario, indusse la Mondadori a cedere tutte le attività di Retequattro al Gruppo Fininvest, suo principale concorrente, per 2,9 miliardi. Avveniva infatti che l’indebitamento bancario non era sufficiente per i fabbisogno finanziario della società: se all’inizio avevano avuto una non trascurabile incidenza i costi di entrata, i costi di acquisto di programmi (proporzionali all’ambizione di divenire una rete nazionale) si rivelarono forse più onerosi del previsto. Il 1983 si chiudeva quindi per la società Videogestioni srl (ex Telemond), che aveva assunto tutte le passività di Retequattro, con un disavanzo di oltre 152 miliardi. Complessivamente le perdite nel settore televisivo incisero per 165 miliardi sul conto economico della Mondadori relativo all’esercizio 1984 riducendo l’utile a soli 42 milioni di lire. Nell’ottobre dello stesso anno Franco Tatò divenne consigliere delegato.
Gli effetti dello smobilizzo del settore televisivo si sentirono anche sugli esercizi seguenti: per migliorare la situazione finanziaria e garantirsi l’afflusso di denaro fresco fu disposto nell’estate 1984 un aumento di capitale da 22,5 a 67,5 miliardi. In quel momento il gruppo fu oggetto di un interessamento della Cir di Carlo de Benedetti che culminerà nel 1988 con l’assunzione della quota di controllo. Contestualmente venne resa operativa una profonda ristrutturazione volta a perseguire con maggiore decisione i criteri guida della gestione: il miglioramento dei margini di profitto fu riconosciuto come obiettivo prioritario rispetto all’incremento del risultato lordo; fu attuato un controllo più serrato dei capitali investiti; furono razionalizzati gli impianti e le strutture operative e organizzative e ridotti gli oneri finanziari a vantaggio di una più alta liquidità. I risultati del 1986, aiutati dalla congiuntura favorevole, mostravano il fatturato globale del gruppo e della Mondadori in aumento rispettivamente del 9% del 10%. L’anno dopo veniva a mancare, a Parigi, Mario Formenton, presidente dal 1982. Il suo posto fu preso da Sergio Polillo, mentre Cristina Mondadori divenne consigliere di ammistrazione.
Negli stessi anni veniva costituita, secondo una prassi comune alle maggiori imprese italiane, una finanziaria denominata Arnoldo Mondadori editore finanziaria (Amef), che, assumendo la maggioranza della Mondadori, divenne il luogo dove più serrato fu il confronto per il controllo dell’impresa e del gruppo.
Nel 1989 venne acquisita una partecipazione di maggioranza dell’Editoriale L’Espresso con una operazione che fece balzare il gruppo al primo posto nell’editoria italiana scavalcando Rizzoli. Il fatturato ne risultò quasi raddoppiato grazie al consolidamento dei ricavi del gruppo Espresso e dell’Editoriale La Repubblica, controllata da quest’ultimo.
Dopo alterne vicende in cui le quote di proprietà in mano alla famiglia favorirono ora la Cir ora la Fininvest, si giunse alle soglie del nuovo decennio con l’impresa sotto il controllo della seconda.
7. Ristrutturazione e rilancio (1990-1997)
Nel gennaio 1990 Silvio Berlusconi fu nominato presidente; vicepresidente Leonardo Mondadori e vicepresidente vicario Luca Formenton. Alla fine di quell’anno vennero cedute alla Cir tutte le partecipazioni nell’Editoriale L’Espresso spa, Editoriale La Repubblica spa, Finegil srl, Cima Brenta spa, Gmp sap e Cartiera di Ascoli spa. La cessione comportò un disimpegno totale della Mondadori dall’Editoriale La Repubblica di cui, come si ricorderà, deteneva ab origine il 50%.
Nel luglio 1991 la Arnoldo Mondadori editore venne fusa per incorporazione nella Amef, che controllava al momento l’80,68% del capitale Mondadori, una percentuale che ne rendeva superflua la sopravvivenza. Le recenti direttive della Consob, inoltre, mostravano che, al pari di altre società marsupio, non sussistevano più i requisiti per la quotazione in Borsa. A vantaggio della fusione giocava in ultimo il fatto che si potesse eliminare una delle due strutture societarie, apportando evidenti vantaggi in termini di costi oltre che di razionalizzazione organizzativa.
Ulteriori operazioni erano realizzate nel 1993: la cessione del Saggiatore per 1,4 miliardi di lire e l’acquisizione, da parte della Mondadori, della distribuzione di tutte le pubblicazioni della Silvio Berlusconi editore. Le evidenze di bilancio mostravano un buon risultato del settore periodici soprattutto nei fatturati della diffusione (incrementi significativi realizzavano «Epoca», «Panorama», «Donna Moderna» e «Grazia») e della vendita di spazi pubblicitari. Si rafforzava inoltre la convinzione, già espressa nelle relazioni dell’inizio degli anni Ottanta, che l’espansione della pubblicità televisiva non inficiava i ricavi pubblicitari sui periodici.
Il momento favorevole del gruppo era confermato dagli esercizi successivi: fatturato e utile in crescita, miglioramento del cash flow e del margine operativo lordo. Sul versante delle operazioni finanziarie sono da rimarcare l’acquisto dell’azienda editoriale della Silvio Berlusconi editore spa, l’acquisizione del pieno controllo della Gruppo Electa Finanziaria (Elemond) e della casa editrice Sperling e Kupfer (compreso il marchio Frassinelli) e infine la concessione di un finanziamento internazionale di 300 miliardi di lire. Quest’ultimo era garantito dalla Banca commerciale italiana, dalla Comit e dalla J.P. Morgan ed era finalizzato soprattutto alla copertura degli oneri finanziari a medio e a lungo termine.
Un rallentamento nei conti del gruppo ebbe luogo nel 1995, quando, pur in presenza di una crescita del fatturato, si verificò una diminuzione dell’utile e del margine operativo lordo. Nonostante i miglioramenti ottenuti nel 1996 (salvo l’utile), nel 1997, contestualmente alla nomina di Maurizio Costa a consigliere delegato e all’istituzione di un comitato esecutivo formato da Leonardo Mondadori, Marina Berlusconi, Fedele Confalonieri, Maurizio Costa e Ubaldo Livolsi, si è sentita l’esigenza di implementare un piano di razionalizzazione del gruppo che agisce secondo due direttive principali: la ristrutturazione organizzativa (con l’istituzione di sei direzioni di business che rispondono al consigliere delegato e di tre direzioni centrali) e la semplificazione della struttura del gruppo in virtù di una rinnovata attenzione al core business.
8. Gli sviluppi recenti (1997-2007)
Gli effetti della nuova strategia investono numerosi aspetti dell’attività aziendale: dall’ampliamento del gruppo al potenziamento della distribuzione, dall’attenzione al web alla copertura dei mercati internazionali.
Nell’ambito della produzione scolastica, particolare rilievo assumono le acquisizioni in rapida successione della Mursia scuola e di Le Monnier, testimonianza della volontà di aumentare le quote di mercato in un settore molto competitivo.
Contestualmente prende avvio una decisa razionalizzazione delle attività e delle partecipazioni che riguarda sia la distribuzione, come la costituzione di Mondadori Franchising che affianca al negozio monomarca (peraltro in continuo incremento con l’apertura di nuovi punti vendita a Milano e Padova) una nuova formula per il raggiungimento del cliente, sia il settore grafico, riunito sotto l’insegna della Mondadori Printing.
Un’attenzione del tutto particolare viene dedicata all’internazionalizzazione del gruppo, perseguita in un primo tempo attraverso la joint-venture con il gruppo tedesco Bertelsmann che dà origine al Grupo editorial Random House-Mondadori, secondo editore di lingua spagnola del mondo, e nel 2006 all’importante acquisizione di Emap France, forte di oltre 40 testate e 1140 dipendenti.
Anche la diversificazione si pone l’obiettivo di accompagnare i mutamenti della società e del mercato: costituita la Webmond nel 2000 con la finalità di concentrare tutte le attività legate a Internet, quattro anni dopo Mondadori entra nella radiofonia acquisendo l’emittente Radio 101.
Sul versante dell’editoria libraria sono da ricordare due recenti casi letterari: Il Codice da Vinci di Dan Brown (3,5 milioni di copie vendute in Italia, oltre 40 nel mondo), pubblicato nel 2003, e Gomorra di Roberto Saviano, uscito nel 2006 e più volte ristampato.
Scomparso Leonardo Mondadori alla fine del 2002, la presidenza del gruppo passa a Marina Berlusconi.